domenica 4 gennaio 2015

Furto in supermercato: configurazione del tentativo di reato

Rubano dai banchi di esposizione del supermercato tre flaconi di profumo, caffè e biscotti. 3 mesi di reclusione.

Cassazione penale sez. un.v17/07/2014 ( ud. 17/07/2014 , dep.16/12/2014 ) Numero: 52117 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
SEZIONI UNITE PENALI 
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 
Dott. SANTACROCE Giorgio - Presidente - 
Dott. CHIEFFI Severo - Consigliere - 
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - 
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere - 
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere - 
Dott. VECCHIO Massimo - rel. Consigliere - 
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere - 
Dott. DIOTALLEVI Giovanni - Consigliere - 
Dott. VESSICHELLI Maria - Consigliere - 
ha pronunciato la seguente: 
sentenza 
sul ricorso proposto da: 
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di 
Brescia; 
nel procedimento nei confronti di: 
1. C.J., nata a (OMISSIS); 
2. P.G., nato a (OMISSIS); 
avverso la sentenza del 11/02/2013 del Tribunale di Bergamo; 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
udita la relazione svolta dal componente Massimo Vecchio; 
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott. 
DESTRO Carlo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. 



Fatto 
RITENUTO IN FATTO 

1. Con sentenza deliberata l'11 febbraio 2013 e depositata il 25 febbraio 2013, il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, giudicando col rito abbreviato, instaurato in esito alla convalida dell'arresto e alla presentazione per il giudizio direttissimo, ha condannato, nel concorso della attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità (reputata equivalente alla aggravante dell'uso della violenza sulle cose e alla recidiva), nonchè della diminuente del rito, alla pena della reclusione in tre mesi e della multa in cento Euro C.J. e P.G., dichiarati responsabili del furto tentato, commesso, in concorso tra loro, a danno del centro commerciale (OMISSIS), così riqualificata la originaria imputazione di furto consumato. 

Il Tribunale ha accertato che i giudicabili, entrambi confessi, avevano prelevato dai banchi di esposizione del supermercato tre flaconi di profumo, caffè e biscotti; avevano lacerato le confezioni, rimuovendo la "placchette antitaccheggio"; avevano occultato la refurtiva, celandola dentro una borsa e sotto gli indumenti; avevano, quindi, superato la cassa, senza pagare la merce nascosta, ma esibendo altro prodotto (regolarmente pagato); ed erano usciti dal centro commerciale. 

All'esterno del fabbricato l'addetto alla sicurezza, F.M., il quale si era avveduto in precedenza della azione furtiva, era alfine intervenuto, promovendo l'intervento della polizia giudiziaria che aveva tratto in arresto i due imputati. 

2. Con riferimento a quanto serba rilievo nella sede del presente scrutinio di legittimità, sul punto della definizione giuridica del fatto, il Tribunale ha motivato che la concorsuale condotta delittuosa doveva essere derubricata nella ipotesi del tentativo, in quanto tutta la azione si era "svolta sotto gli occhi dell'addetto alla sicurezza il quale aveva monitorato ogni spostamento" dei due imputati e aveva deciso "di bloccarli alla rectius: dopo la barriera delle casse, anzichè durante la sottrazione, per mere ragioni di opportunità". 

3. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte territoriale ha proposto ricorso immediato per cassazione con atto recante la data del 27 marzo 2013, dichiarando promiscuamente di denunziare, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 56 c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. 

Il ricorrente deduce, anche con richiamo di pertinenti arresti della Corte di cassazione: il giudice a quo ha trascurato di dare conto delle supposte ragioni di opportunità che avrebbero indotto l'addetto alla vigilanza a non intervenire prima che i giudicabili superassero le casse; per vero è "solo al momento in cui gli imputati alla cassa non hanno pagato" la merce, prelevata e occultata, che "è scattata ... la possibilità di contestare con certezza il furto"; un intervento prematuro non avrebbe consentito di stabilire se la condotta fosse stata realmente preordinata al furto, in quanto "molte volte" accade che i clienti dei supermercati aprano le confezioni dei prodotti o, addirittura, li consumino, "prima di raggiungere le casse e che, poi, li paghino regolarmente"; nella specie, colla materiale apprensione, la refurtiva è "uscita dalla disponibilità della persona offesa ... al momento del passaggio alla barriera delle casse" in mancanza del pagamento della merce; la circostanza che l'addetto alla vigilanza avesse notato la azione dei prevenuti, già prima che costoro avessero raggiunto la cassa, "non trasforma il furto consumato in furto tentato", in quanto "i responsabili sono stati colti in un momento successivo alla realizzazione del fatto reato", in una area "diversa da quella dove era stata perpetrata la sottrazione della merce" e in una "fase temporale" distinta e posteriore; peraltro, anche accedendo all'indirizzo minoritario della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale ostano alla consumazione del reato la concomitante osservazione del personale addetto alla sorveglianza e la possibilità di interrompere l'azione furtiva rilevata, nella specie neppure emerge che il controllo fosse stato "così pregnante, capillare e diffuso da consentire di interrompere l'azione criminosa in qualsiasi momento". 

4. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza in data 30 aprile 2014 l'ha rimesso alle Sezioni Unite a norma dell'art. 618 c.p.p.. 

La ordinanza ha rilevato il contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione, oggetto del ricorso, della qualificazione giuridica della condotta furtiva consistente nel prelievo di merce dai banchi di un supermercato e nel successivo occultamento della refurtiva all'atto del passaggio davanti al cassiere, quando tutta la azione delittuosa si è svolta sotto il controllo costante del personale addetto alla vigilanza, intervenuto solo dopo che il soggetto attivo ha superato la barriera delle casse. 

4.1. Secondo un primo orientamento, invocato dal Procuratore generale ricorrente e che è stato, da ultimo ribadito con sentenza Sez. 5, n. 20838 del 07/02/2013, Fornella, Rv. 256499, la condotta in parola integra gli estremi del delitto di furto consumato, nulla rilevando, al riguardo, "la circostanza che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza" (così ex plurimis Sez. 5, n. 7086 del 19/01/2011, Marin, Rv. 249842; Sez. 5, n. 37242 del 13/07/2010, Nasi, Rv. 248650; 

Sez. 5, n. 27631 del 08/06/2010, Piccolo, Rv. 248388; Sez. 5, n. 23020 del 09/05/2008, Rissotto, Rv. 240493). 

L'indirizzo in parola sostiene che il soggetto attivo del reato nel preciso momento nel quale supera la cassa, senza mostrare (nè pagare) la refurtiva celata, perfeziona la sottrazione del bene del quale, solo allora, "consegue istantaneamente il possesso illegittimo ... indipendentemente dal monitoraggio svolto dal personale del supermercato". Mentre, nulla rileva che fino a quell'istante il cliente, autorizzato ad apprendere dal banco di esposizione e a portare con sè la merce prelevata, "non la lasci in vista, avendola riposta nelle tasche dell'abito o in un qualsiasi contenitore". 

4.2. Secondo l'orientamento opposto, pur citato dal ricorrente, la concomitante "sorveglianza continua dell'azione criminosa" da parte del soggetto passivo o dei suoi dipendenti impedisce la consumazione del reato di furto, in quanto la refurtiva, appresa e occultata permane nella "sfera di vigilanza e di controllo diretto dell'offeso, il quale può in ogni momento interrompere" la condotta delittuosa (così Sez. 5, n. 11592 del 28/01/2010, Finizio, Rv. 246893; Sez. 5, n. 21937 del 06/05/2010, Lazaar, Rv. 247410; Sez. 4, n. 38534 del 22/09/2010, Bonora, Rv. 248863; Sez. 5, n. 7042 del 20/12/2010, dep. 2011, D'Aniello, Rv. 249835; e, in tema di rapina impropria, Sez. 2, n. 8445 del 05/02/2013, Niang, n.m.). 

4.3. In conclusione, sulla base del rilevato contrasto, la Sezione rimettente ha sottoposto la questione della consumazione del delitto di furto, in costanza del concomitante monitoraggio ad opera degli addetti alla sorveglianza, della condotta dell'agente, il quale, appresa la merce in esposizione, abbia superato la barriera della cassa, occultando quanto sottratto prima di essere bloccato dal personale di vigilanza. 

5. Con decreto del 30 maggio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali e ne ha fissato la trattazione per la odierna udienza pubblica. 
Diritto 
CONSIDERATO IN DIRITTO 

1. La questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite, siccome formulata dalla Sezione rimettente, si sostanzia nel quesito seguente: "Se la condotta di sottrazione di merce all'interno di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, sia qualificabile come furto consumato o tentato allorchè l'autore sia fermato dopo il superamento della barriera delle casse con la merce sottratta". 

2. Deve essere esaminata in limine la questione preliminare, in rito, della esperibilità del ricorso immediato per cassazione proposto dal Pubblico ministero e, conseguentemente, della competenza di questa Corte di legittimità a conoscere la impugnazione, laddove il ricorrente ha denunziato (congiuntamente alla erronea applicazione della legge penale) la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). 

2.1. L'art. 569 c.p.p., comma 3, stabilisce: "La disposizione del comma 1 recante la previsione della proposizione diretta del ricorso per cassazione avverso le sentenze di primo grado appellabili non si applica nei casi previsti dell'art. 606, comma 1, lett. d) ed e). In tali casi il ricorso eventualmente proposto si converte in appello". 

La norma comporta che col ricorso c.d. per saltum non possono farsi valere i motivi previsti dalle citate lettere dell'art. 606 c.p.p.. 

2.2. Nella specie, tuttavia, la questione deve essere risolta in senso positivo. E' pur vero che il Pubblico ministero ricorrente ha dichiarato di dedurre vizi di motivazione, ma la relativa denunzia deve considerarsi tanquam non esset e affatto irrilevante, ai fini della qualificazione del ricorso, perchè è assorbita dalla concorrente denunzia della erronea applicazione della legge penale. 

Giova, in proposito, ricordare che in materia di questioni di diritto circa la interpretazione della legge, non è consentita la deduzione di (ritenuti) vizi di motivazione, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in quanto la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione sono configurabili "soltanto con riguardo ad elementi di fatto che il giudice abbia trascurato o di cui abbia dato una valutazione illogica o contraddittoria, e non con riguardo" alle questioni di diritto nè alle "argomentazioni giuridiche delle parti". Se, infatti, le questioni e le argomentazioni in parola sono fondate, "il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) da luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge", mentre, se "sono infondate, il fatto che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale" (Sez. 1, n. 4931 del 17/12/1991, dep. 1992, Parente, Rv. 188913; Sez. 5, n. 4173 del 22/02/1994, Marzola, Rv. 197993; Sez. 2, n. 3706 del 21/01/2009, P.C. in proc. Haggag, Rv. 242634; Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010, Maugeri, Rv. 247123). 

3. Superata la questione preliminare in rito, lo scrutinio del quesito di diritto proposto involge, innanzi tutto, l'analisi dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità (invocato dal ricorrente) nel senso della ritenuta consumazione del furto, nelle circostanze indicate, a dispetto della concomitante vigilanza del soggetto passivo del reato (o di suoi addetti) e dell'immediato recupero della refurtiva. 

3.1. Oltre alle sentenze Rissotto, Piccolo, Nasi, Marin e Fornella, citate nella ordinanza di rimessione, la tesi della consumazione è stata affermata da pronunce della Cassazione sia risalenti nel tempo, che recentissime: tra le altre, Sez. 2, n. 938 del 24/05/1966, Delfino, Rv. 102532; Sez. 2, n. 2088 del 18/06/1973, dep. 1974, Mucci, Rv. 126456; Sez. 4, n. 7235 del 16/01/2004, Coniglio, Rv. 

227347; Sez. 2, n. 48206 del 12/01/2011, Pezzuolo; Sez. 5, n. 25555 del 15/06/2012, Magliulo, n.m.; Sez. 5, n. 41327 del 10/07/2013, Caci, Rv. 257944; Sez. 5, n. 8395 del 2/10/2013, dep. 2014, La Cognata, n.m.; Sez. 5, n. 1701 del 23/10/2013, dep. 2014, Nichiforenco, Rv. 258671; Sez. 7, n. 6832 del 20/11/2013, dep. 2014, Pulsoni, n.m.; Sez. 5 n. 677 del 21/11/2013, dep. 2014, Flauto, n.m.; 

Sez. 4, n. 8079 del 12/12/2013, dep. 2014, Molinari, n.m.; Sez. 4, n. 7062 del 09/01/2014, Bergantino, Rv. 259263. 

Nell'ambito di tale indirizzo talune pronunce hanno ravvisato la consumazione del furto ancor prima del superamento della barriera delle casse, allorchè l'agente, prelevata la mercè dal banco, "l'abbia nascosta sulla propria persona oppure in una borsa o, comunque, l'abbia occultata" (Sez. 2, Delfino, Rv. 102532, cit.), sulla base della considerazione che la condotta in parola "oltre alla amotio ... determina l'impossessamento della res (non importa se per lungo tempo o per pochi secondi) e, dunque, integra, in presenza del relativo elemento psicologico gli elementi costitutivi del delitto di furto" (Sez. 5, Marin, Rv. 249842, cit.). 

Altre sentenze hanno distinto: per un verso hanno ammesso la possibilità del tentativo (praticamente esclusa dalle decisioni testè citate in considerazione della immediatezza della consumazione), circoscrivendo la relativa ipotesi al caso dell'intervento della persona offesa o dei suoi incaricati, là dove costoro, avendo sorvegliato tutte le fasi della azione furtiva, la interrompano prima che l'agente abbia oltrepassato la barriera delle casse; per altro verso hanno ribadito che, in ogni caso, "il momento consumativo" del reato si realizza indefettibilmente quando il soggetto attivo sia passato davanti all'addetto alla cassa senza pagare, a prescindere dal concomitante monitoraggio della condotta delittuosa (Sez. 4, Coniglio, cit., richiamata, tra altre, da Sez. 4, Molinari, cit.). 

3.2. La tesi della consumazione è, in generale, sostenuta dalla duplice affermazione: a) del perfezionamento della condotta tipizzata dello impossessamento della refurtiva, per effetto del prelievo della mercè, senza il successivo pagamento dovuto all'atto del passaggio davanti alla cassa; b) della irrilevanza della circostanza che "il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza" (così, da ultimo, Sez. 4, Bergantino, cit.). 

La citata sentenza Sez. 5, n. 25555 del 2012, Magliulo, ha offerto un contributo di approfondimento, postulando essere condizione "necessaria e sufficiente perchè il ... reato possa dirsi consumato che la persona offesa sia stata privata della detenzione e, per ciò, stesso sia stata posta nella condizione di doversi attivare, se vuole recuperala, nei confronti del soggetto che l'ha acquisita" e, in proposito, argomentando che l'agente, tosto che abbia "oltrepassato la barriera delle casse senza pagare la merce", consegue "da quel momento la detenzione esclusiva e illecita" della refurtiva, "mentre, in precedenza, salvo il caso dell'occultamento, detta detenzione non poteva dirsi, nè esclusiva, nè illecita". 

La sentenza n. 8395 del 2013, La Cognata, cit., ha negato che il concomitante "controllo" dello sviluppo della azione delittuosa da parte del personale del personale di vigilanza impedisca la consumazione del furto, motivando: la circostanza è "del tutto estranea all'operato dell'agente"; la sorveglianza non ha impedito la violazione della norma; il recupero della refurtiva, in seguito all'eventuale intervento degli addetti alla sorveglianza, si colloca "nella fase post delictum". 

4. Anche il contrario orientamento trova ancoraggio (oltre che nelle più recenti sentenze Finizio, Lazaar, Bonora, D'Aniello e Niang, menzionate nella ordinanza di rimessione) in altre pronunce di legittimità, scandite nell'ampio arco temporale durante il quale si è protratto il contrasto di giurisprudenza: Sez. 5, n. 398 del 27/10/1992, dep. 1993, De Simone, Rv. 193177; Sez. 5, n. 11947 del 30 ottobre 1992, Di Chiara, Rv. 192608; Sez. 5, n. 837 del 03/11/1992, dep. 1993, Zizzo, Rv. 193486; Sez. 5, n. 3642 del 21 gennaio 1999, Imbrogno, Rv. 213315; nonchè (non massimate sul punto in esame) Sez. 4, n. 31461 del 03/07/2002, Carbone; Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006, Giordano. 

L'indirizzo si fonda sulla considerazione che la concomitante osservazione da parte della persona offesa, ovvero del dipendente personale di sorveglianza, dell'avviata azione delittuosa (al pari dei controlli strumentali mediante apparati elettronici di rilevazione automatica del movimento della merce, scilicet: sensori, placche antitaccheggio) e la correlata e immanente possibilità di intervento nella immediatezza, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del reato, per non essersi perfezionata la fattispecie tipizzata - dell'impossessamento, mediante sottrazione, della cosa altrui - in quanto l'agente non ha conseguito l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo, la cui "signoria sulla cosa" non è stata eliminata. 

In proposito la sentenza n. 31461 del 2002, Carbone, cit., distingue, opportunamente, "l'intervento in re ipsa" a difesa della detenzione esercitato dalla persona offesa, dai dipendenti della stessa addetti alla vigilanza (o, quale atto dovuto, dalle forze dell'ordine) dall'intervento (meramente eventuale) dispiegato da un terzo estraneo (a tutela dell'altrui possesso); ed esclude che quest'ultimo tipo di intervento, connotato da accidentalità e "aleatorietà", sia di ostacolo al riconoscimento della consumazione del reato, in quanto il recupero della refurtiva a opera del terzo estraneo presuppone la intervenuta perdita della signoria sulla cosa da parte del derubato. 

Incisivamente la sentenza n. 8445 del 2013, Niang, cit., ha argomentato a sostegno dell'orientamento in esame che è da "ritenersi preferibile la tesi che tende a privilegiare un connotato di "effettività" che deve caratterizzare l'impossessamento quale momento consumativo del delitto di furto, rispetto al semplice momento sottrattivo, con la conseguenza che l'autonoma disponibilità del bene potrà dirsi realizzata solo ove sia stata correlativamente rescissa la altrettanto autonoma signoria che sul bene esercitava il detentore". 

5. Le Sezioni Unite ritengono di dover comporre il contrasto giurisprudenziale mediante la riaffermazione di tale secondo orientamento, nel senso della qualificazione giuridica della condotta in esame in termini di furto tentato. 

La soluzione si colloca, peraltro, in linea di continuità col dictum della sentenza Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153. 

Nel risolvere positivamente la questione della configurabilità del tentativo di rapina impropria (anche) in difetto della materiale sottrazione del bene all'impossessamento del quale l'azione delittuosa era finalizzata, la citata sentenza ha argomentato, proprio con espresso riferimento al furto: "finchè la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore" e "questi è ancora in grado di recuperala" tanto fa "degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo". 

5.1. La quaestio iuris in esame involge il più ampio tema della definizione giuridica della azione di impossessamento della cosa altrui, tipizzata dalla norma incriminatrice. 

5.2. L'art. 624, primo comma, cod. pen. contempla la condotta di chi "si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trame profitto per se o per altri". 

La formulazione normativa riecheggia e riproduce nel nucleo essenziale la previsione dell'art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del 1889, salvo che per la significativa sostituzione dell'inciso modale del predicato verbale, contenuto nella previgente disposizione, che recitava "togliendola dal luogo in cui si trova", avendo in tali termini il legislatore del 1989 recepito la teoria della amotio, eletta dalla dottrina dell'epoca per denotare l'impossessamento mediante, appunto, l'adozione del criterio c.d. 

spaziale. 

La norma vigente ha espunto siffatto criterio introducendo quello personale o funzionale della sottrazione. 

Sicchè la descrizione della condotta delittuosa risulta scandita dal sintagma impossessamento-sottrazione. 

5.3. L'analisi della dottrina in punto di definizione e di rapporto reciproco dei due segmenti della condotta delittuosa, sinergicamente configurati nel costrutto sintattico della norma incriminatrice, caratterizzato dalla adozione del verbo "sottrarre" nella subordinata, non ha, per vero, approdato a condivise conclusioni, ora accentuandosi la distinzione cronologica e logica dei momenti della sottrazione e dell'impossessamento, ora controvertendosi in ordine alla relativa sequenza, ora enfatizzando la pregnanza dell'uno piuttosto che dell'altro. 

Nel caso in esame le difficoltà sono acuite da due ordini di fattori: a) la sovrapposizione, rilevata in talune delle sentenze citate, dei piani affatto diversi della qualificazione della condotta e della prova del reato e, segnatamente, dell'elemento psicologico; 

b) la relazione di tipo prenegoziale, presupposta dalla condotta delittuosa, che lega l'agente al soggetto passivo, offerente in vendita della mercè esposta, e che abilita il primo al prelievo dei beni dai banchi di esposizione. 

In tale prospettiva la condotta dell'agente il quale oltrepassi la cassa, senza pagare la merce prelevata, rende difficilmente contestabile l'intento furtivo, ma lascia impregiudicata la questione se la circostanza comporti di per sè sola la consumazione del reato, quando l'azione delittuosa sia stata rilevata nel suo divenire dalla persona offesa, o dagli addetti alla vigilanza, i quali, nella immediatezza intervengano a difesa della proprietà della mercè prelevata. 

5.4. Decisiva è, al riguardo, la premessa che in difetto del perfezionamento del possesso della refurtiva in capo all'agente è, comunque, certamente da escludere che il reato possa ritenersi consumato. 

La considerazione assorbe la disamina del controverso rapporto tra la sottrazione e l'impossessamento. 

Orbene, appare difficilmente confutabile - e il dato deve ritenersi acquisito per generale consenso e in carenza di veruna apprezzabile obiezione - che l'impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell'agente. 

Sicchè, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall'intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, la incompiutezza dell'impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell'ambito del tentativo. 

La conclusione riceve conforto dalla considerazione dell'oggetto giuridico del reato alla luce del principio di offensività. 

In tale prospettiva, di recente valorizzata quale canone ermeneutico di ricostruzione dei "singoli tipi di reato" da Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, il fondamento della giustapposizione tra il delitto tentato e quello consumato (e del differenziato regime sanzionatorio) risiede nella compromissione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice. 

Affatto coerente risulta, pertanto, l'aggancio della consumazione del furto alla completa rescissione (anche se istantanea) della "signoria che sul bene esercitava il detentore", come esattamente individuato dalla citata sentenza n. 8445 del 2013, Niang. Mentre, di converso, se lo sviluppo dell'azione delittuosa non abbia comportato ancora la uscita del bene dalla sfera di vigilanza e di controllo dell'offeso, è per vero confacente, alla stregua del parametro della offensività, la qualificazione della condotta in termini di tentativo. 

6. La conclusione raggiunta resiste alle obiezioni espresse nelle sentenze che si sono uniformate al contrario indirizzo. 

6.1. Sono ricorrenti nelle pronunce in parola i riferimenti alla amotio della refurtiva da parte dell'agente. 

La teoria della amotio, in linea generale, appare anacronistica in quanto non è confortata dall'addentellato normativo, in precedenza offerto dell'art. 402, comma 1, del codice Zanardelli del 1889. 

Inoltre, con specifico riferimento al caso in esame, il criterio spaziale dello spostamento della cosa "dal luogo in cui si trova" non è certamente applicabile alla apprensione della mercè dal banco di esposizione del negozio in quanto il sistema di vendita selfservice abilita l'avventore al prelievo. 

6.2. L'argomento che la sorveglianza dell'offeso non ha impedito la violazione della norma penale non è nè concludente, nè oltretutto pertinente. 

Ciò che è in discussione non è la sussistenza della attività delittuosa, bensì la relativa definizione giuridica. 

6.3. Neppure appare calzante, per confutare la qualificazione della condotta de qua in termini di tentativo, la obiezione che la concomitante sorveglianza della persona offesa e la correlata possibilità di intervento immediato, a tutela della detenzione, costituiscano "circostanza del tutto estranea all'operato dell'agente": per vero il delitto tentato si caratterizza per la mancata verificazione dell'evento dovuta a cause indipendenti dalla volontà dell'agente (Sez. U, n. 7523 del 21/05/1983, Andreis, Rv. 

160247; Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012, Reina, Rv. 253153), ricorrendo altrimenti la ipotesi alternativa della desistenza prevista dall'art. 56 c.p., comma 3. 

6.4. Gli ulteriori argomenti (non privi di suggestione) in ordine al rilievo della attivazione della persona offesa per il recupero della refurtiva e in ordine alla collocazione della relativa attività "nella fase post delictum" devono essere disattesi per la petizione di principio che sottendono: assumono a premessa la tesi da dimostrare della consumazione del furto colla intervenuta perdita del bene da parte del soggetto passivo; mentre si tratta della difesa della detenzione esercitata dall'offeso in continenti e resa possibile dalla perdurante presenza della res nella sfera di vigilanza e di controllo del detentore. 

7. Le considerazioni che precedono consentono di formulare il seguente principio di diritto: "il monitoraggio nella attualità della azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta osservazione della persona offesa (o dei dipendenti addetti alla sorveglianza o delle forze dell'ordine presenti in loco,), sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, e il conseguente intervento difensivo in continenti, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l'agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo". 

8. In conclusione, alla stregua del principio di diritto enunciato, il ricorso risulta infondato, sicchè esso deve essere rigettato. 
PQM 
P.Q.M. 

Rigetta il ricorso. 

Così deciso in Roma, il 17 aprile 2014. 

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2014 

venerdì 19 dicembre 2014

"Tu sei pazzo" non é reato

Una donna dice al marito separato di una sua amica: ma tu sei pazzo!!! Per la Cassazione non è reato.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 16 settembre – 4 dicembre 2014, n. 50969 Presidente Marasca – Relatore Lignola 

Ritenuto in fatto 

1. Con la sentenza impugnata, il Giudice di pace di Gioiosa Ionica condannava F.C. alla pena di € 258 di multa, per il reato di cui all’articolo 594 cod. pen., per aver pronunciato l’espressione “sei pazzo” alla presenza di D’A.S., così offendendone l’onore ed il decoro. 
2. Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputata, articolando due motivi. 
2.1 Con il primo motivo si deduce violazione dell’articolo 606, lettera B ed E, cod. proc. pen., per vizio di motivazione, consistito nell’omessa considerazione di circostanze e modalità di svolgimento del fatto che escludono la sussistenza del reato, nonché per falsa applicazione dell’articolo 594 cod. pen. 
La ricorrente rileva che la ricostruzione dei fatti è pacifica, e che la frase è stata pronunciata nei locali della caserma dei Carabinieri, ove la sua amica C.C.S. si era recata a sporgere denuncia nei confronti del coniuge separato D’A.S., per reati commessi nei suoi confronti, nell’ambito di un rapporto di conflittualità originato da un provvedimento del Tribunale per i minorenni, che limitava il diritto dell’uomo di incontrare i figli. 
La ricorrente contesta il valore diffamatorio della parola “pazzo”, entrata ormai nel linguaggio parlato di uso comune, tanto da divenire espressione, sintetica ed efficace, rappresentativa di un comportamento fuori dalla buona educazione e dalle righe della pacata discussione. Ancorché poco corretto e disdicevole, l’uso del termine non è tale da superare la soglia del penalmente rilevante, considerato il contesto in cui è stato adoperato e la forma interrogativa utilizzata dall’imputata (“ma tu sei pazzo, chi sei tu?”). Dunque nel caso di specie è assente non solo l’elemento materiale del reato, ma anche l’elemento psicologico, considerato lo stato di profondo disagio causato dal precedente comportamento della persona offesa, descritto anche dal giudice di merito. 
2.2 Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 606, lettera E, cod. proc. pen., in relazione all’art. 599 cod. proc. pen.. Con memoria difensiva ed in sede di discussione, infatti. la difesa aveva invocato l’esimente della provocazione, rappresentata dall’atteggiamento litigioso, contrario al vivere civile, tenuto dall’imputato prima innanzi all’istituto scolastico e, successivamente, fuori e dentro la caserma. 

Considerato in diritto 

1. II ricorso va accolto. 
In particolare risulta fondato il primo motivo, riguardante l’insussistenza del fatto, con conseguente assorbimento del secondo. 
1.1 In via generale va ricordato che, al fine di accertare se l’espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 cod. pen., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia stata pronunciata ed alla coscienza sociale (Sez. 5, n. 32907 del 30/06/2011, Di Coste, Rv. 250941; Sez. 5, n. 21264 dei 19/02/2010, Saroli, Rv. 247473; Sez. 5, n. 39454 del 03/06/2005, Braconi, Rv. 232339). Infatti il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono: se è vero infatti che in linea di principio l’uso abituale di espressioni disdicevoli non può togliere alle stesse l’obiettiva capacità di ledere l’altrui prestigio, ve ne sono alcune che, in relazione proprio al contesto comunicativo, perdono la loro potenzialità lesiva. 
1.2 Come rilevato dalla Suprema Corte anche recentemente (Sez. 5, n. 19223 del 14/12/2012 - dep. 03/05/2013, Fracasso, Rv. 256240), l’utilizzo di un linguaggio più disinvolto, più aggressivo, meno corretto di quello in uso in precedenza caratterizza oggigiorno anche il settore dei rapporti tra i cittadini, derivandone un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale: siffatto modo di esprimersi e di rapportarsi all’altro, infatti, se è certamente censurabile sul piano del costume, è ormai accettato (se non sopportato) dalla maggioranza dei cittadini. 
1.3 L’indubbia carica offensiva dell’espressione “pazzo”, allora, non determina automaticamente la lesione del bene protetto dalla fattispecie di cui all’art. 594, cod. pen., proprio perché la frase incriminata non si è tradotta in un oggettivo giudizio di disvalore sulle qualità personali del D’A., considerato il contesto di conflittualità nel quale è stata pronunciata e la forma interrogativa adoperata dall’imputata. 
1.4 Tale valutazione in sede di legittimità è consentita, poiché dovendosi verificare il significato di una comunicazione testuale, al fine di accertare se un determinato enunciato sia effettivamente offensivo della reputazione altrui, viene in rilievo una questione di qualificazione giuridica, che può essere risolta direttamente anche dal giudice di legittimità (Sez. 5, n. 35548 del 19/09/2007, Grosso, Rv. 237729) 
2. In conclusione, escluso il carattere offensivo della frase incriminata, la impugnata sentenza va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste. 

P.Q.M. 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Dare dello scemo é reato

Dare dello scemo ad una persona è reato. Per la Cassazione ha valenza negativa.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 10 novembre – 15 dicembre 2014, n. 52082 Presidente Dubolino – Relatore Demarchi Albengo 

Ritenuto in fatto 

1. P.D., imputato dei reati di cui agli articoli 612 e 594 del codice penale, commessi nei confronti di Perugini Francesco, è stato condannato dal giudice di pace di Ancona per il reato di ingiuria ed assolto per quello di minaccia. 
2. Contro la predetta sentenza propone ricorso per cassazione l'imputato per erronea applicazione di legge, nonché vizio di motivazione, in merito al riconoscimento della fattispecie delittuosa di cui all'articolo 594 cod. pen.; la motivazione sarebbe contraddittoria perché la condanna si fonda sulle dichiarazioni della persona offesa che sono state ritenute inattendibili per quanto riguarda il reato di cui all'articolo 612 cod. pen.. Lamenta, poi, che non sia stata ritenuta la scriminante della provocazione e contesta che il termine "scemo" abbia valenza ingiuriosa ai sensi della legge penale. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso é infondato; per quanto riguarda la prima censura, è sufficiente precisare che la valutazione frazionata dell'attendibilità del teste persona offesa è stata giustificata con il fatto che sull'ingiuria - intesa come dato di fatto oggettivo - vi è stata l'ammissione dell'imputato, mentre per quanto riguarda le minacce non vi è stato alcun riscontro. 
2. Quanto alla concessione della scriminante della provocazione, non può certo ritenersi tale il mancato raggiungimento di un accordo transattivo, di cui peraltro non si dice nemmeno a chi dei due contendenti sia addebitabile e per quale motivo (rendendo, pertanto, sul punto il ricorso aspecifico). 
3. Infine, quanto alla natura ingiuriosa della parola "scemo", occorre ricordare che Le frasi volgari e offensive sono idonee a integrare gli estremi del reato (di oltraggio) anche se siano divenute di uso corrente in particolari ambienti perché l'abitudine al linguaggio volgare e genericamente offensivo proprio di determinati ceti sociali non toglie alle dette frasi la loro obiettiva capacità di ledere il prestigio del pubblico ufficiale, con danno della pubblica amministrazione da esso rappresentata (nella fattispecie era stata ritenuta oltraggiosa la frase "vieni qui scemo, cretino"; cfr. Sez. 6, n. 6431 del 25/02/1989, CATALDI, Rv. 181175). 
4. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

martedì 18 novembre 2014

Urinare in strada.

Un uomo fa la pipì vicino all’ingresso di un'abitazione. Atto disgustoso ma non è reato, manca l'elemento soggettivo.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 maggio – 17 novembre 2014, n. 47244 Presidente Teresi – Relatore Gentili 

Ritenuto in fatto 

II giudice di pace di Bergamo, con sentenza del 9 maggio 2013, ha assolto, per non aver commesso il fatto, C.G.F., imputato del reato di cui all'art. 726 cod. pen., per avere compiuto atti contrari alla pubblica decenza, consistenti nell'avere orinato vicino all'ingresso della abitazione di tale R. F.M.sita in Bergamo. 
La sentenza assolutoria era motivata attraverso il richiamo della testimonianza di tale C.G., alla luce della quale, sostiene il giudicante, emergerebbe che, stanti le sue modalità, il fatto non costituirebbe reato, e di tale B.N., verosimilmente appartenente alle forze dell'ordine, il quale ha dichiarato di essere stato mandato sul posto dalla centrale operativa e di avere riscontrato che era in corso una lite fra il C. ed il R.F.. 
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Corte di appello di Brescia, il quale ha dedotto la manifesta illogicità della sentenza per non avere il Giudice di pace tenuto conto dei fatto che lo stesso C. nel verbale di querela orale da lui sporta, peraltro in data imprecisata, avrebbe ammesso i fatti nella loro materialità. 
Peraltro, aggiunge il ricorrente, la sentenza, in modo contraddittorio, dapprima sembra avvalorare una formula assolutoria per assenza dell'elemento soggettivo, salvo poi, in dispositivo, propendere per la formula del "non aver commesso il fatto". 

Considerato in diritto 

Il ricorso, risultato infondato non è, pertanto, meritevole di accoglimento. 
Osserva il Collegio, in linea di principio, che per giurisprudenza pacifica di questa Corte "sono atti contrari alla pubblica decenza tutti quelli che in spregio ai criteri di convivenza e di decoro che debbono essere osservati nei rapporti tra i consociati, provocano in questi ultimi disgusto o disapprovazione come l'urinare in luogo pubblico. Né la norma dell'art. 726 cod. pen., esige che l'atto abbia effettivamente offeso in qualcuno la pubblica decenza e neppure che sia stato percepito da alcuno, quando si sia verificata la condizione di luogo, cioè la possibilità che qualcuno potesse percepire l'atto" (cfr. ex multis: Corte di cassazione, Sezione V penale, 28 aprile 1986, n. 3254; idem Sezione III penale, 25 ottobre 2005 n. 45284; più di recente: idem Sezione III penale, 25 marzo 2010 n. 15678; nonché, da ultimo: idem Sezione III penale, 16 settembre 2013, n. 37823). 
Il reato in questione poi si differenzia da quello di cui all'art. 527 cod. pen., in quanto la distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave il pudore sessuale, suscitando nell'osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono in via esclusiva il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 marzo 1985, n. 2447). 
Ciò posto osserva il Collegio che, secondo quanto risulta dal tenore della impugnazione proposta dal PG, questi si duole dei fatto che il Giudice di pace, dopo avere affermato che, alla luce delle risultanze istruttorie e della documentazione acquisita, era emerso che, tenuto conto delle modalità dell'accadimento, il fatto non costituiva reato, abbia poi provveduto ad assolvere l'imputato per non aver commesso il fatto. 
Invero, rileva la Corte, al netto di una certa imprecisione terminologica di cui è sicuramente vittima l'estensore della sentenza impugnata, è ben chiaro che l'apparente antinomia fra motivazione e dispositivo della sentenza è risolvibile ritenendo che la formula utilizzata nel dispositivo (peraltro non riportata fedelmente nel suo ricorso neppure dal Pg), secondo la quale l'imputato deve essere mandato assolto dal reato di cui all'art. 726 cod. pen. "perché non lo ha commesso", va intesa non, certamente, nel senso che il reato è stato commesso da altri, ma nel senso che la condotta del C. non integra gli estremi del reato, cioè, essa non costituisce reato, così come riportato in sentenza. 
D'altra parte il riferimento alle modalità dell'accadimento presente nella sentenza offre più di un elemento per ritenere che il Giudice di pace di Bergamo abbia ritenuto carente dell'elemento soggettivo, anche con riferimento al profilo della sola colpa, la condotta (l'accadimento) pur realizzata dal C.. 
Deve, infine, rilevarsi che non vi è, per costante giurisprudenza di questa Corte, un apprezzabile interesse alla impugnazione della sentenza ad opera della parte pubblica-laddove la impugnazione abbia ad oggetto la erroneità della formula assolutoria adottata dal giudicante (Corte di cassazione, Sezione III penale, 20 marzo 2009, n. 12482). 
Deve, conclusivamente, rigettarsi il ricorso del Procuratore generale. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Brescia. 

Guida in stato di ebbrezza: confisca veicolo anche se in comproprietà

Guida in stato di ebbrezza. Comproprietà veicolo? Il veicolo va confiscato.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 25 settembre – 13 novembre 2014, n. 47024 Presidente Brusco – Relatore Zoso 

Ritenuto in fatto 

R. Luca era imputato della contravvenzione di cui all'articolo 186, commi primo e secondo lettera c e secondo sexies del decreto legislativo 30 aprile 1992 numero 385 perché era stato colto alla guida dell'autovettura Mito targata EDXXXXX in stato di ebbrezza dovuto all'uso di bevande alcoliche con valore di tasso alcolemico oltre 1,5 g per litro in T.B. alle ore 00.56 del 6 gennaio 2013. 
L'imputato chiedeva di definire il giudizio mediante applicazione della pena ex articolo 447 c.p.c. ed il tribunale di Arezzo, avendo il pubblico ministero prestato il consenso, riconosciute le attenuanti generiche ed operata la diminuzione per la scelta del rito, applicava la pena di mesi due e giorni 24 di arresto ed euro 872 di ammenda, sostituita a norma dell'articolo 186, comma 9 bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992 numero 385, con la pena del lavoro di pubblica utilità da effettuarsi presso la Confraternita di Misericordia di Montevarchi per la durata di giorni 84; applicava, poi, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per la durata di anni tre. Osservava il tribunale che la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida andava determinata nella durata di anni uno e mesi sei, dovendosi ritenere tale periodo proporzionato ai valori alcolimetrici riscontrati pari a 2,02 e 2,09 grammi per litro, e doveva essere raddoppiata poiché il veicolo apparteneva a persona estranea al reato. 
Avverso la sentenza proponeva ricorso per cassazione R.L. svolgendo due motivi di doglianza. 
Con il primo motivo deduceva erronea applicazione della legge penale sostanziale in relazione alla previsione dell'articolo 186, comma due, lettera C, decreto legislativo 285/92 e mancanza e/o manifesta illogicità e/o contraddittorietà della motivazione risultante dal testo della sentenza per avere il tribunale travisato le risultanze probatorie. Sosteneva il ricorrente che l'autovettura da lui guidata era cointestata a sé medesimo ed alla convivente A.O. ed il tribunale di Arezzo, contravvenendo alla norma di cui all'articolo 186 del decreto legislativo 285/92, aveva disposto il raddoppio della durata della sospensione della patente di guida benché la vettura fosse cointestata al guidatore. La motivazione addotta dal tribunale a sostegno della decisione era illogica e contraddittoria in quanto risultava dal PRA la cointestazione dell'auto ed il giudicante aveva ritenuto superata la presunzione di comproprietà del veicolo, prevista dall'articolo 6 del RDL 15 marzo 1927 numero 436, per il fatto che la polizia giudiziaria non aveva disposto il sequestro del veicolo. 
Con il secondo motivo di doglianza il ricorrente deduceva inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale in relazione alla previsione di cui all'articolo 186, comma secondo, lettera C del Codice della Strada essendo eccessivo e sproporzionato il periodo di sospensione della patente di 
guida inflitto e facendo difetto la motivazione in relazione alla commisurazione della sanzione medesima. 
Il procuratore generale concludeva chiedendo l'accoglimento del ricorso con riguardo al primo motivo, dovendosi ritenere infondato il secondo, con conseguente pronuncia di annullamento con rinvio ad altro giudice dello stesso tribunale. 

Considerato in diritto 

In ordine al primo motivo di ricorso, si osserva quanto segue. 
Nella motivazione della sentenza si legge: "Non può conseguire la confisca amministrativa del veicolo giacché esso risulta al PRA cointestato al R. ed a tale A.O. ma non vi sono elementi che consentano di ritenere che sia civilisticamente di comproprietà del primo ( ed infatti non consta che la polizia giudiziaria abbia proceduto al sequestro amministrativo )." La motivazione in sè appare illogica considerato che questa Corte di legittimità ha affermato il principio che "È ammissibile la confiscabilità parziale di un compendio sequestrato allorché una sola parte di esso sia di proprietà del condannato e la confisca dell'intero verrebbe a sacrificare i diritti di terzi estranei al reato, quali sono gli eredi dell'imputato prosciolto da esso per morte. Al riguardo non va confusa l'applicabilità della misura di sicurezza che trova la sua disciplina nell'art. 240 cod. pen. con le modalità di esecuzione di essa quando un compendio di beni sia indivisibile o indiviso e possa comportare una incidentale comunione tra lo stato ed altri soggetti rispettivamente nella parte (o nella quota) soggetta alla misura ed altra cui essa non è estensibile" (Sez. III 17.10.1984 n.1650 rv. 167059). Principio ribadito da questa stessa sezione sez IV 27.1.2011n. 2819; IV 3.7.2009 n.41870 rv 245439; massime precedenti conformi: N. 2887 dei 2008 Rv. 238592, N. 28189 del 2009 Rv. 244690). Ciò posto, da un lato il tribunale ha affermato che il veicolo, secondo quanto risulta dal PRA, è cointestato all'imputato, dall'altro ha ritenuto che dal fatto che la polizia giudiziaria non aveva proceduto al sequestro si doveva dedurre la prova dell'insussistenza della comproprietà. Sennonché, come affermato da questa corte di legittimità ( Sez. 3 civ. n. 9314 del 20/04/2010, Rv. 612775) l'iscrizione nel pubblico registro automobilistico (p.r.a.) del trasferimento di proprietà di un'autovettura, prevista dall'art. 6 dei r.d.l. 15 marzo 1927, n. 436, convertito nella legge 19 febbraio 1928, n. 510, pur essendo volta a dirimere i conflitti tra aventi causa dal medesimo venditore, assume, altresì, valore di prova presuntiva in ordine all'individuazione del proprietario del veicolo. Ne consegue che la prova contraria dell'insussistenza del diritto di comproprietà del veicolo in capo al R. non può derivare dalla mera constatazione del non avere la polizia giudiziaria proceduto al sequestro del medesimo. Da ciò deriva che il veicolo avrebbe dovuto essere confiscato e la durata della sanzione accessoria della sospensione della patente di guida non avrebbe dovuto essere raddoppiata. 
Sennonché, in difetto di ricorso incidentale del Procuratore Generale, la confisca non può essere disposta e la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla durata della sospensione patente di guida che va determinata in anni uno e mesi sei, con esclusione del raddoppio. E non è ravvisabile il vizio di violazione di legge nella sentenza impugnata relativamente alla durata della sospensione della patente di guida in quanto tale sanzione accessoria, determinata nella durata di anni uno e mesi sei, ancorché erroneamente raddoppiata per la ritenuta non cointestazione del veicolo in capo al R., è contenuta entro i limiti previsti dalla norma; neppure è ravvisabile il difetto di motivazione poiché il tribunale, con motivazione esaustiva ed esente da vizi logici, ha ritenuto proporzionata la sanzione accessoria così determinata ai valori alcolimetrici riscontrati ( 2,02 e 2,09 g/I ), superiori di un terzo rispetto al valore minimo di riferimento indicato dall'art. 186, comma secondo, lettera c del C.d.S.. Tale motivazione è idonea a supportare la decisione e l'analisi di ulteriori elementi si risolverebbe in un giudizio di merito che è precluso in questo giudizio di legittimità. 

P.Q.M. 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata della sospensione della patente di guida; durata che determina in anni uno e mesi sei. Rigetta il ricorso nel resto. Così deciso il 25.9.2014.

giovedì 23 ottobre 2014

Finalmente alle sezioni unite la questione sull'accertamento alcooltest

L’autista che non viene informato dalla polizia della facoltà di farsi assistere da un legale prima di sottoporsi al controllo per guida alterata dall’alcol può eccepire la nullità del procedimento anche in sede di decreto penale di condanna. La questione alle Sezioni Unite.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 26 settembre – 21 ottobre 2014, n. 43847 Presidente Brusco – Relatore Piccialli 

Ritenuto in fatto 

Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia ricorre avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Treviso, in sede di opposizione a decreto penale di condanna emesso nei confronti di B.M. per la contravvenzione di cui all'articolo 186, comma 2 del codice della strada (fatto accertato in data (omissis) ), pronunciava sentenza di assoluzione dell'imputato con la formula perché il fatto non sussiste. 
Il giudicante - accogliendo l'eccezione difensiva svolta nella memoria depositata il 30 novembre 2011 (considerata quale primo atto difensivo concretamente esperibile contestuale all'atto di nomina a difensore fiduciario) - ha fondato tale decisione sulla ritenuta ricorrenza di una ipotesi di nullità a regime intermedio per essere stato omesso, da parte della polizia operante, previamente all'esecuzione dell'alcoltest, l'avviso all'indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore. Stante l'inutilizzabilità dell'atto, il giudice ha ritenuto mancante la prova della condotta tipica, ricorrendo alla formula assolutoria sopra richiamata. 
Con l'impugnazione il ricorrente deduce violazione di legge, perché, il giudicante, pur avendo correttamente qualificate come intermedia la nullità derivante dall'omesso avviso all'indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore, ha ritenuto l'inutilizzabilità dell'atto, pur essendo la stessa sanata ai sensi dell'art. 182 cod. proc. pen.. Nel caso di specie non risultava infatti che l'eccezione fosse stata formulata nei termini indicati da un consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale la citata nullità, avente natura incontestabilmente intermedia, deve ritenersi sanata se non dedotta prima ovvero immediatamente dopo il compimento dell'atto da parte dell'interessato, non ricorrendo facoltà processuali comportanti cognizioni tecniche professionali proprie del difensore (v. da ultimo Sezione IV, 4 giugno 2013, Proc. gen. App. Bologna in proc. Martelli, rv. 255989). 

Considerato in diritto 

Come è noto, in tema di guida in stato di ebbrezza, il cosiddetto alcool test, eseguito dall'agente accertatore, costituisce la prova "regina" a fondamento della responsabilità del conducente, anche perché solo attraverso l'esame alcolimetrico è possibile verificare quale delle tre ipotesi previste rispettivamente dalle lettere a), b) e c) del comma 2 dell'articolo 186 del codice della strada risulti integrata: la prima delle quali è di rilievo solo amministrativo. 
Il tema da affrontare è quello delle facoltà difensive attribuite all'interessato in occasione della sottoposizione all'esame tecnico, con particolare riferimento all'eventuale mancato avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell'articolo 114 delle disposizioni di attuazione cod. proc. pen.. 
Deve, invero, innanzitutto rilevarsi, sotto un profilo di ordine generale che l'atto in questione (il rilievo del tasso alcol emico mediante il c.d. alcol-test) è sussumibile nella previsione dell'art. 354 cod. proc. pen., concernente l'accertamento urgente e la conservazione delle tracce del reato, e che, ai sensi dell'art. 356 cod. proc. pen., il difensore dell'indagato "ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato", ai sensi, poi, dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., la polizia giudiziaria, nel compimento degli atti di cui all'art. 356 cod. proc. pen. avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia; in mancanza di questo, non è prevista per il compimento di tali atti la nomina di un difensore di ufficio come disposto per altri atti (tra gli altri, v. artt. 340,364 cod. proc. pen.). 
Ciò posto, per l'orientamento giurisprudenziale prevalente (v. da ultimo, Sezione IV, 4 giugno 2013, n.36009, P.G ed altro e, da ultimo, 11 marzo 2014, Pittiani, non massimata), il mancato avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell'articolo 114 delle disposizioni di attuazione cod.proc. pen., da luogo ad un nullità a regime intermedio, soggetta pertanto alla disciplina dettata dagli articoli 178, lettera c), 180 e 182 cod. proc. pen. Tale nullità deve, pertanto, ritenersi sanata se non è dedotta prima del compimento dell'atto, oppure, se ciò non è possibile, immediatamente dopo il compimento dell'atto al quale la parte ha partecipato, ai sensi dell'articolo 182, comma 2, cod. proc. pen., anche mediante lo strumento delle memorie o richieste, senza quindi attendere il compimento di un successivo atto del procedimento. 
Come emerge anche dall'ultima relazione sul tema dell'Ufficio del Ruolo e del Massimario n. 12 del 6 febbraio 2014, la giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nell'inquadramento della nullità predetta tra quelle generali a regime intermedio, dovendosi ritenere superate le diverse opzioni interpretative, secondo le quali tale nullità doveva essere qualificata come relativa (v. in tal senso, tra le altre, Sezione IV, 16 settembre 2003, n. 42020, P.M. in proc Della Luna, rv. 227294) e quelle decisioni che, invece, affermavano, sia pure con riferimento a fattispecie diverse da quella in esame, che il ritardato deposito del verbale contenente l'accertamento strumentale dell'alcoltest comportasse una mera irregolarità (v. Sezione IV, 5 marzo 2008, n. 15272, Ardolino, rv. 239538; 18 dicembre 2009, n. 1855/10, Testani, n.n.), ulteriormente precisando, in taluni casi, che il verbale contenente gli esiti del c.d. alcoltest non è soggetto al deposito ex articolo 366 c.p.p. e conseguentemente ritenevano non configurabile la nullità dell'accertamento urgente derivante dall'omesso deposito (v. Sezione IV, 7 febbraio 2006, n. 26738, Belogi, rv. 234512 e per altri riferimenti, anche la relazione del Massimario preliminare alla trattazione del procedimento Zedda rimesso alle Sezioni unite all'udienza del 25 marzo 2010 per la stessa questione, in caso identico a quello in esame, che non venne affrontata, in ragione dell'abnormità della sentenza impugnata). 
Inquadrata, alla luce della consolidata giurisprudenza sopra richiamata, la predetta nullità tra quelle a regime intermedio, va, invece, rilevata una diversità di interpretazioni nell'ambito della giurisprudenza di legittimità quanto al limite temporale entro il quale è utilmente proponibile l'eccezione di nullità. 
Sulla questione sono ravvisabili due distinti orientamenti. 
Il primo, più restrittivo, che parte da una interpretazione rigorosa della lettera dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., ritiene che l'assistenza della parte (nel caso di specie, l'imputato, presente all'atto dell'accertamento del tasso alcol emico) comporti la necessità di procedere immediatamente a sollevare l'eccezione (ossia, prima del compimento dell'atto) oppure, nel caso di impossibilità (da intendersi, soggettiva, in quanto impedito dalla mancata conoscenza della facoltà di farsi assistere dal suo difensore, proprio perché non preventivamente avvisato dalla polizia giudiziaria in base all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen.) di doverla sollevare "immediatamente dopo", nel senso di non poter attendere il primo atto del procedimento ma di dovervi provvedere attraverso il meccanismo delle memorie ex art. 121 cod. proc. pen.. 
In conseguenza, proprio con riferimento all'esecuzione di alcoltest, è stata considerata tardivamente proposta l'eccezione di nullità per l'omesso avviso previsto dall'art. 114 disp att. cod. proc.pen., allorché la parte, invece di sollevare l'eccezione immediatamente dopo il compimento dell'atto, abbia atteso il compimento di un successivo atto del procedimento (v. Sezione IV, 11 ottobre 2012, n. 44840, PG in proc. Tedeschi, rv. 254959; 19 settembre 2012, n. 38003, Avventuroso, rv. 254374; 08/05/2007, n. 27736, Nania, rv. 236934). 
Nello stesso senso, è stato ulteriormente precisato (v. Sezione II, 9 febbraio 2012, n. 14873, Rispo rv. 252397; Sezione IV, 14 marzo 2008, n. 15739, Alberti, rv. 299737), sempre con riferimento alla violazione da parte della polizia giudiziaria all'obbligo di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., avvenuta però nel corso di una perquisizione, che l’espressione "immediatamente dopo" va intesa nel senso che la nullità deve essere eccepita dal difensore subito dopo la sua nomina, ovvero entro il termine di cinque giorni che l'art. 366 cod. proc. pen. concede a quest'ultimo per l'esame degli atti. 
A questa tesi se ne affianca una meno rigorosa che muovendo da una lettura costituzionalmente orientata del combinato disposto degli articoli 354, 356, 366 cod. proc. pen. e 114 disp. att. cod. proc. pen. giunge all'opposta conclusione di considerare come tempestiva l'eccezione di nullità sollevata con il primo atto procedimentale utile (che, nel caso di specie sarebbe costituito dall'opposizione al decreto penale di condanna), non essendo pertinente il richiamo all'art. 121 cod.proc.pen., né potendosi considerare intempestiva un'eccezione di nullità sollevata in sede di opposizione, tenuto conto della brevità dei termini previsti dalla legge processuale per impugnare il provvedimento emesso inaudita altera parte (v. in tal senso, Sezione V, 9 febbraio 2012, n. 7654, Masella, rv. 252172; Sezione III, 14 maggio 2009, n. 26588, Di Sturco, rv. 244370; Sezione III, 12 luglio 2005, n. 33517, Rubino, rv. 233164, secondo le quali la nullità derivante dall'omesso avviso all'indagato - da parte della polizia giudiziaria che proceda al sequestro del corpo di reato - della facoltà di farsi assistere dal difensore può essere fatta valere anche in sede di richiesta di riesame). 
Si segnala, in particolare, per l'argomentata motivazione la sentenza Rubino concentrata su una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., al fine di individuare la soluzione ermeneutica più conforme al dettato legislativo ed allo stesso tempo più adeguatrice rispetto al fondamentale ed inviolabile principio del diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost.. 
In particolare, partendo dall'interpretazione letterale dell'art. 182 cod. proc. pen. si evidenzia come il presupposto per potersi applicare il primo periodo del secondo comma dell'art. 182 cod. proc. pen. (ovvero che la nullità di un atto deve essere eccepita, quando la parte vi assista, prima del suo compimento ovvero, se ciò non sia possibile, immediatamente dopo) è la circostanza che la parte assista al compimento dell'atto nullo. Nell'interpretare la disposizione in esame nella parte in cui impone all'indagato di sollevare l'eccezione "prima del suo compimento" dell'atto, la Corte evidenzia che la stessa presuppone anche che la parte che vi assiste sia in grado di eccepire la nullità prima del compimento dell'atto, ossia che possa presumersi che essa sia a conoscenza o sia comunque in grado di essere a conoscenza dell'atto che si sta per compiere, così come presuppone che la parte stessa non decada dal diritto di eccepire la nullità dell'atto dopo il suo compimento fino a quando non possa ritenersi provato che essa abbia avuto conoscenza o almeno la possibilità di avere conoscenza della nullità dell'atto e sia quindi in grado di eccepirne immediatamente la nullità. E difatti, in tanto il legislatore impone l'obbligo alla polizia giudiziaria di avvisare l'indagato che ha facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia proprio in quanto presuppone che normalmente l'indagato non sia e non debba essere a conoscenza di questa facoltà e quindi impone alla polizia giudiziaria di avvisarlo appunto perché egli possa esercitare il suo diritto di difesa e per evitare una violazione dell'art. 24 Cost.. 
Nell'affrontare la questione dell'applicabilità della medesima disposizione nella parte in cui impone all'indagato di eccepire la nullità immediatamente dopo il compimento dell'atto nullo e nello stabilire quando l'eccezione debba considerarsi tardiva, la Corte, sottolinea che l'ignoranza della parte non viene meno solo perché l'atto è stato compiuto e quindi deve logicamente presumersi che la parte continui ad ignorare la sussistenza della nullità e non possa quindi eccepirla almeno sino a quando non sia provato o possa presumersi che essa ne sia venuta a conoscenza o almeno sia stata in grado di venirne a conoscenza, il che generalmente avviene solo nel momento in cui si ha la prova che l'indagato abbia contattato un difensore e possa perciò ritenersi che questi lo abbia messo a conoscenza della nullità ed in condizione di eccepirla. La sentenza indicata, nel sottoporre a critica l'opposto orientamento, sottolinea l'esigenza di ancorare la presunzione di conoscenza o della nullità che inficiava l'atto ad un momento ben preciso ed alla presenza di un atto che possa dare una qualche sicurezza sul punto, derivandone altrimenti la più assoluta incertezza, diversità ed arbitrarietà di opinioni e di soluzioni. 
È tematica peraltro meritevole di ulteriore approfondimento, nell'ottica di una effettiva soddisfazione delle esigenze difensive, ove si consideri che, in assenza dell'assistenza del difensore, è fin troppo ovvio che si determini la sanatoria della nullità per il formarsi delle condizioni di cui sopra. 
Ciò a fronte di quell'orientamento secondo cui l'eccezione può e deve essere formalizzata dallo stesso interessato, non essendo necessario l'intervento del difensore, in quanto non ricorrono facoltà processuali che comportino la cognizione di elementi tecnici rientranti nelle specifiche competenze professionali del difensore (Sezione IV, 4 giugno 2013, Proc. gen. App. Bologna in proc. Martelli). 
È necessario allora un intervento chiarificatore, ove si consideri che il richiamato orientamento che accredita la capacità diretta dell'interessato presenta profili di dubbia corrispondenza con i principi del diritto di difesa, trascurando di considerare a tacer d'altro proprio le condizioni pregiudicate in cui si trova, nel contesto dell'accertamento, il trasgressore e, in ogni caso, trascura di considerare il ruolo della difesa tecnica di cui svaluta la portata e il significato. 
In questa prospettiva, il tema centrale della questione ruota intorno alla tutela del diritto alla difesa e, ad avviso del Collegio, ai fini della soluzione del quesito non può prescindersi dalla instaurazione del rapporto tra l'indagato/imputato ed il difensore. 
Appare utile richiamare in proposito alcune decisione del Giudice delle Leggi in materia. Chiamata a verificare la legittimità costituzionale, in rapporto all'art. 24 Cost., comma 2, dell'art. 401 codice di rito 1930 nella parte in cui faceva decorrere il termine di cinque giorni per la deduzione delle nullità relative intercorse nell'istruzione sommaria dalla notifica all'imputato del decreto di citazione a giudizio, anziché dalla notificazione al difensore dell'avviso della data fissata per il dibattimento, la Corte costituzionale, ha puntualizzato che "il diritto di difesa deve essere garantito in modo adeguato alle circostanze, con modalità che a queste si adattino, esplicandosi anche come effettiva potestà di assistenza tecnica e professionale". Pertanto il principio costituzionale invocato è stato ritenuto violato dalla previsione di un breve termine decorrente dalla conoscibilità del decreto di citazione a giudizio da parte del diretto interessato piuttosto che del suo difensore, benché la cognizione di elementi tecnici rientranti nella specifica competenza professionale del difensore fosse indispensabile per rendersi conto delle nullità e far rilevare i vizi invalidanti (C. cost. sent. n. 162 del 17/06/1975, n. 162). 
Il principio è stato ribadito in successive pronunce, tra le quali merita di essere ricordata in questa sede la sentenza n. 120 del 2002, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 458 c.p.p., comma 1, nella parte in cui prevede che il termine entro cui l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato decorre dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, anziché dall'ultima notificazione, all'imputato o al difensore, rispettivamente del decreto ovvero dell'avviso della data fissata per il giudizio immediato. In tale occasione la Corte ha evidenziato come il nucleo centrale della questione di legittimità costituzionale attenesse alla violazione del diritto alla difesa tecnica, in quanto la disciplina censurata era congegnata in maniera tale che il termine stabilito a pena di decadenza per presentare richiesta di giudizio abbreviato poteva scadere senza che il difensore avesse potuto illustrare al proprio assistito le opzioni difensive rispettivamente collegate al giudizio abbreviato e alla celebrazione del dibattimento. Tanto rilevato i giudici della Consulta hanno ribadito che il diritto di difesa, inteso come effettiva possibilità di ricorrere all'assistenza tecnica del difensore, risulta violato in ogni caso in cui, "ai fini dell'esercizio di facoltà processuali che comportano la cognizione di elementi tecnici rientranti nelle specifiche competenze professionali del difensore", venga posto a pena di decadenza un termine decorrente dalla notificazione all'imputato, anziché al difensore, dell'atto da cui tali facoltà conseguono (C. cost. 26/02/2002, n. 120). 
Alla luce delle puntualizzazioni operate dalla Consulta va, pertanto, esaminato se la verifica del rispetto del diritto di difesa vada condotta tenuto conto della semplicità/complessità delle cognizioni richieste dalla proposizione dell'eccezione (v. da ultimo, in tal senso, la già richiamata sentenza n. 36009/2013, che, proprio con riferimento all'ipotesi dei test previsti dall'art. 186 C.d.S., commi 3 e 4, ha ritenuto che la deduzione dell'omesso avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore non richiede necessariamente l'intervento del difensore medesimo. Ciò perché l'avviso intende garantire la semplice conoscenza da parte del difensore del compimento dell'atto, che non deve essere ritardato in attesa che egli giunga, ove abbia deciso di assistervi. Ed inoltre perché l'accertamento non è invasivo e non scaturisce da attività pregresse la cui conoscenza è essenziale per l'esercizio della difesa) sicché il termine decadenziale per la formulazione di una eccezione di nullità intermedia prescinde dalla instaurazione del rapporto tra l'indagato/imputato ed il difensore oppure, secondo la soluzione più garantista, che, secondo questo Collegio, appare meglio tutelare le esigenze difensive, tale termine abbia corso solo dopo la nomina di un difensore o, comunque, dal compimento di un atto difensivo (per es. l'opposizione a decreto penale). 
In conclusione, per tutte le ragioni che si son sinora esposte, la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, afferente il regolamento di un diritto di rilievo costituzionale, quale il diritto alla difesa, sembra imporre l'intervento regolatore delle Sezioni unite di questa Corte, sulla seguente questione: "se in tema di accertamento della contravvenzione di guida sotto l'influenza dell'alcol (art. 186 c.d.s.), nel caso di mancato avvertimento alla persona da sottoporre al controllo alcoli metrico della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia in violazione dell'art. 114 disp.att. cod. proc. pen., tale nullità- da ritenere a regime intermedio - possa ritenersi sanata se non eccepita dall'interessato prima del compimento dell'atto ovvero immediatamente dopo ai sensi dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen; nel caso in cui si ritenga verificata la decadenza entro quale termine e con quali mezzi la nullità possa essere eccepita". 

P.Q.M. 

Dispone trasmettersi gli atti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.