domenica 29 dicembre 2013

Dal Venezuela cioccolatini alla cocaina

Riceve un pacco postale proveniente dal Venezuela con all'interno confezioni di cioccolatini contenenti sostanza stupefacente del tipo cocaina per un peso netto di gr. 989,255 con principio attivo pari all'88,41% equivalente a mg. 874636 di cocaina cloridrato pura.

Cassazione penale sez. III Data: 05/03/2013 ( ud. 05/03/2013 , dep.22/05/2013 ) 
Numero: 21901 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
SEZIONE TERZA PENALE 


La vicenda assume un tono incredibile, in quanto la droga veniva smerciata attraverso semplici spedizioni postali ove, celate all'interno di cioccolattini, c'era sostanza stupefacente purissima.


martedì 3 dicembre 2013

Con la scusa di un incidente stradale, l'uomo scende e tocca il seno della donna: é violenza sessuale

Incidente stradale dove vengono coinvolte due persone un uomo ed una donna. L'uomo scende dall'auto e palpa il seno della sfortunata controparte. è violenza sessuale.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 ottobre – 2 dicembre 2031, n. 47812 Presidente Fiale – Relatore Marini 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza del 12/1/2011 emessa al termine di rito abbreviato dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Sassari, il sig. S. fu condannato alla pena di quattro mesi di reclusione per il reato continuato previsto dagli artt.81 e 590 cod. pen. e 186 e 189 del Codice della Strada (capi A, B, C), nonché alla pena di due anni di reclusione per il reato previsto dall'art. 609 bis, comma 3, cod. pen. (capo D). 
2. Il Giudice dell'udienza preliminare ritenne provato che il sig. S. , postosi alla guida in stato di evidente e accertata alterazione alcolica, dette causa a un incidente stradale da cui seguirono lesioni personali in danno della conducente dell'autovettura coinvolta; ritenne provato, altresì, che il sig. S. si era in un primo momento arrestato e, dopo avere contestato alla conduttrice dell'altra vettura la responsabilità della collisione, aveva introdotto le braccia nell'abitacolo e si era spinto a "palpare" il seno della donna dopo di che, respinto dalla vittima che aveva chiuso il finestrino dell'auto, si era allontanato venendo dopo poco tempo fermato dalla polizia giudiziaria che era stata chiamata dalle persone occupanti la vettura investita dall'imputato. 
3. La Corte di appello, ritenute non fondate le proteste dell'imputato in ordine alla insussistenza delle condotte a sfondo sessuale e della condotta di omissione di soccorso (condotta, questa, che va valutata anche in relazione alla condizione di paraplegia di cui è affetta la conducente della vettura investita dal ricorrente), ha valutato che la non gravità della condotta e la non marcata intensità del dolo giustifichino la riduzione della pena inflitta per il capo D. 
4. Avverso tale decisione l'avv. Marco Palmieri propone ricorso in favore del sig. S. , in sintesi lamentando: 
a. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. con riguardo al reato previsto dall'art. 609 bis cod. pen. per avere la Corte di appello omesso di considerare la complessiva condotta del ricorrente, l'atteggiamento amichevole dimostrato anche dal linguaggio utilizzato, l'assenza di elementi che attribuiscano finalità o carattere sessuale al gesto compiuto, che fu quello di appoggiare la mano sulla spalla della donna e non sul seno; 
b. Errata applicazione di legge ex art.606, lett. b) e c), cod. proc. pen. in relazione agli artt.336 e 337 cod. proc. pen. e all'art.590 cod. pen., difettando in querela ogni indicazione circa le lesioni personali subite, con conseguente carenza della condizione di procedibilità per il reato ex art. 590 cod. pen.. 
5. Propone ricorso avverso la sentenza il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Cagliari, Sez. dist. di Sassari, in sintesi lamentando: 
a. errata applicazione di legge ex art. 606, lett. a) cod. proc. pen. in relazione all'art. 609 bis cod. pen. posto che né il Giudice dell'udienza preliminare né la Corte di appello, nel ricostruire come "toccamento" e non come "palpeggiamento" del seno la condotta dell'imputato, abbiano omesso di affrontare il tema della intenzionalità del gesto e dell'elemento soggettivo che lo ha accompagnato, così omettendo di prendere in esame l'ipotesi alternativa prospettata dalla difesa. Inoltre, non ogni gesto che attinge le zone erogene della persona assume automaticamente carattere di illecito penale, così come non ogni gesto simile possiede effettiva offensività, e quanto accaduto consente di ritenere che nel caso di specie l'elemento della offensività concreta difetti; 
b. vizio di motivazione ex art. 606, lett. e) cod. proc. pen. per essere carenti le motivazioni che giustificano il rigetto delle censure difensive. 

Considerato in diritto 

1. Ritiene preliminarmente la Corte che debbano trovare qui applicazione i principi interpretativi in tema di limiti del giudizio di legittimità e di definizione dei concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nonché in tema di travisamento del fatto che sono contenuti nelle sentenze delle Sez. Un., n.2120, del 23 novembre 1995 - 23 febbraio 1996, Fachini, rv 203767, e n. 47289 del 2003, Petrella, rv 226074. In tale prospettiva di ordine generale va, dunque, seguita la costante affermazione giurisprudenziale del principio secondo cui è "preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti" (fra tutte: Sez. 6, sentenza n. 22256 del 26 aprile - 23 giugno 2006, Bosco, rv. 234148). 
2. Inoltre, il contenuto dei ricorsi e le questioni in ordine alla procedibilità hanno imposto alla Corte di verificare il contenuto della querela e delle iniziali dichiarazioni rese dalla persona offesa e dalla persona trasportata, dichiarazioni che accompagnano l'atto di denuncia - querela formato il giorno successivo ai fatti. 
3. Ebbene, si legge nell'atto di querela, accompagnato dal deposito delle certificazioni mediche a sostegno della doglianza per le lesioni subite dalla conducente e dalla passeggera, che la persona offesa ha dichiarato quanto segue: ".... Si è preso la confidenza di allungare le mani, prima cercando di prendere le mie mani, e, poi mettendole sul mio petto, proferiva le seguenti parole: M. , lo sai che sei bellissima. Io ho subito allontanato la mano...." 
4. Ritiene la Corte che correttamente da questi elementi, che la Corte di appello ritiene confermati dalle parole della persona trasportata, i giudici di merito abbiano tratto la convinzione che il toccamento del seno sia stato intenzionale e accompagnato da parole galanti; sia stato non fugace, tanto che la persona offesa dichiara di avere allontanato dal proprio seno la mano del ricorrente; sia stato percepito come aggressivo della sfera sessuale; integri gli estremi del reato contestato. 
5. Ciò considerato, e rilevato che l'atto di appello proposto dal sig. S. non conteneva alcuna censura in ordine al reato di lesioni e censure in tal senso non sono proponibili per la prima volta in sede di legittimità (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.), la Corte ritiene che i motivi di ricorso siano infondati; non si ravvisano, infatti, vizi logici nella motivazione della sentenza impugnata e le censure di entrambi i ricorrenti si dirigono impropriamente avverso le valutazioni di merito che i giudici di appello hanno operato con riguardo alla ricostruzione storica del fatto e all'elemento soggettivo del reato. 
6. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna del sig. S. , ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta i ricorsi e condanna il S. al pagamento delle spese processuali. 

sabato 23 novembre 2013

Condanna e chiusura del bar al gestore che somministra bevande alcoliche a soggetti minori.

Cameriere porta a due minorenni di anni 16 (che avevano mentito sulla loro età) bevande alcoliche. Condannato il gestore del bar per omessa vigilanza sull'operato dei propri dipendenti..

somministrazione di bevande alcooliche a minori.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 giugno – 20 novembre 2013, n. 46334 Presidente Ferrua – Relatore Guardiano 

Fatto e diritto 

1 Con sentenza pronunciata in data 11.7.2012 il giudice di pace di Pesaro condannava S.M. alla pena ritenuta di giustizia in relazione al reato di somministrazione di bevande alcooliche a minori di anni sedici, di cui all'art. 689, c.p., nella sua qualità di esercente del bar "(omissis)". 

2. Avverso tale decisione, di cui chiedono l'annullamento, hanno proposto ricorso per Cassazione congiuntamente l'imputato ed il suo difensore di fiducia, articolando due motivi di impugnazione. 
3. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 689, 43 e 47, c.p., rilevando: a) che nessuna responsabilità a titolo di colpa può essere attribuita al S. , assente dal locale quando le bevande alcoliche vennero somministrate a due ragazze minori di anni sedici da uno dei camerieri in servizio, in quanto l'errore in cui era caduto quest'ultimo, nel fidarsi della risposta delle ragazze di avere più di sedici anni di età, prima di somministrare loro le bevande alcooliche che avevano ordinato, deve ritenersi assolutamente scusabile, ai sensi dell'art. 47, c.p., in mancanza di una norma che imponga a carico dei titolari e dei dipendenti di pubblici spacci di bevande di chiedere l'esibizione di un documento di identità a conferma delle generalità dichiarate dal cliente; b) che il giudice di pace ha omesso ogni motivazione in ordine alla verifica del processo valutativo compiuto dal cameriere ed all'errore scusabile in cui quest'ultimo è incorso all'atto della somministrazione alle minorenni delle bevande alcoliche. 
4. Con il secondo motivo di ricorso, l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 689, co. 3, 20 e 35, c.p., in quanto la pena accessoria della sospensione dall'esercizio prevista dal menzionato art. 689, co. 3, c.p., opera quale conseguenza automatica della intervenuta condanna, senza consentire al giudice, da un lato ed in violazione del principio generale fissato in tema di sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte dall'art. 35, co. 3, c.p., di verificare se la contravvenzione sia stata commessa o meno con abuso della professione o del commercio ovvero in violazione dei doveri ad essi inerenti, dall'altro di operare una valutazione sulla eventuale sussistenza di ragioni idonee ad escluderne l'applicazione, riconducibili a valori costituzionalmente garantiti, come la tutela del lavoro e dell'iniziativa economica privata. 
Con particolare riferimento a quest'ultimo profilo, pertanto, il ricorrente eccepisce la questione di legittimità costituzionale dell'art. 689, co. 3, c.p., indicando come parametri violati quelli di cui agli artt. 1, 3, 4, 35, 41, 27, co. 3, della Costituzione. 
5. Con i motivi aggiunti depositati l'11.6.2013, infine, il ricorrente deduce che il fatto contemplato dall'art. 689, c.p., non è più previsto dalla legge come reato, ai sensi dell'art. 14 ter, L. 8.11.2012, n. 189, di conversione del d.l. n. 158 del 2012, secondo il quale chiunque (quindi, evidenzia l'imputato, anche l'esercente di un'osteria o di un altro pubblico esercizio destinato allo spaccio di cibi o di bevande) vende bevande alcooliche a minori di anni diciotto è sottoposto alla sanzione amministrativa da 250,00 a 1000,00 Euro. 
6. Il ricorso del S. non può essere accolto, essendo infondati i motivi che lo sostengono. 
7. Infondato, in particolare, appare il primo motivo di ricorso, in quanto l'imputato, nella sua qualità di esercente l'esercizio commerciale in cui è avvenuta la somministrazione di bevande alcoliche alle due minorenni, non può giovarsi, al fine di andare esente da responsabilità penale, del preteso errore in cui sarebbe caduto il suo dipendente, che, in realtà, non può essere qualificato in termini di errore scusabile. La natura di reato di pericolo della fattispecie in esame, infatti, impone una effettiva e necessaria diligenza nell'accertamento dell'età del consumatore, atteggiamento che, nel caso, come quello in esame, in cui la somministrazione è stata preceduta dalla richiesta, da parte del cameriere addetto alle consumazioni, dell'età dell'avventore, non può essere soddisfatto né dalla presenza nel locale di cartelli indicanti il divieto di erogazione di bevande alcooliche ai minori, né limitandosi a prendere atto della risposta del cliente sul superamento dell'età richiesta, ove ciò non corrisponda al vero (cfr. Cass., sez. 5, 2/12/2010, n. 7021, R. e altro, rv. 249830; Cass., sez. 5, 5.5.2009, n. 27916, B., rv. 244206). 
Si tratta di un obbligo che grava innanzitutto sul soggetto che gestisce l'esercizio commerciale in cui si pratica la vendita al pubblico di bevande alcoliche, assicurandone la somministrazione, su richiesta dei clienti, personalmente o attraverso forme di organizzazione del lavoro incentrate sull'impiego di uno o più dipendenti retribuiti. 
In questo caso appare evidente che su tale soggetto grava una peculiare responsabilità, avendolo collocato il precetto di cui all'art. 689, c.p., in una specifica posizione di garanzia a tutela di interessi diffusi (cfr. Cass., sez. 5, 5/5/2009, n. 27916, B., rv. 244206; Cass., sez. 5, 6/11/2012, n. 4320, C, rv. 254391). 
Ne consegue, come correttamente osservato dal giudice di primo grado, che la valutazione dei parametri di imputazione - negligenza ed imprudenza - deve essere assunta con severità, non potendo il gestore delegare al personale dipendente l'accertamento della effettiva età del consumatore, ma dovendo, invece, egli vigilare affinché i lavoratori alle sue dipendenze svolgano con la dovuta diligenza i loro compiti ed osservino scrupolosamente le istruzioni al riguardo loro fornite dal gestore. 
Tale obbligo non è stato adempiuto dal S. , la cui censura sul punto non può pertanto essere accolta. 
8. Anche il secondo motivo di ricorso deve ritenersi infondato. 
La pena accessoria della sospensione dall'esercizio di cui all'art. 689, co. 3, c.p., consegue alla sentenza di condanna anche se la pena inflitta è inferiore ad un anno di arresto, in ciò solo consistendo la deroga alla previsione di cui all'art. 35, co. 3, c.p., e fermo restando il limite sulla durata di tale sospensione fissato in generale dall'art. 37, c.p., posto che non appare revocabile in dubbio che la contravvenzione di cui si discute sia commessa con violazione dei doveri inerenti all'esercizio di una professione o, più propriamente, di un'attività commerciale, giusto il disposto del citato art. 35, co. 3, c.p.. 
8.1 Manifestamente infondata è, poi, la questione di legittimità costituzionale di cui si sollecita la rimessione, in considerazione della assoluta genericità dei parametri costituzionali, di cui si assume la violazione, non essendo specificamente indicati, se non attraverso un richiamo, per l'appunto generico, alla "tutela del lavoro e dell'iniziativa economica privata" ed alla finalità rieducativa della pena, i diversi interessi, oggetto di protezione costituzionale, implicati nel processo, la cui valutazione e bilanciamento sarebbero preclusi al giudice dall'automatismo dell'applicazione della pena accessoria. Inconferente, al riguardo, è il richiamo alla sentenza 23/2/2012, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di ragionevolezza, l'art. 569 c.p., nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato, previsto dall'art. 567, comma 2, c.p., consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell'interesse del minore nel caso concreto. 
Da tale pronuncia non può, infatti, desumersi l'illegittimità costituzionale di tutte le disposizioni che fanno derivare da una sentenza di condanna l'applicazione "automatica" di sanzioni accessorie, in quanto essa si fonda su di una particolare considerazione delle esigenze del minore, oggetto di tutela costituzionale (art. 30) e di convenzioni internazionali, cui dare la prevalenza, in relazione ai caratteri propri del delitto di cui all'art. 567, co. 2, c.p., che, come osservato dal giudice delle leggi, "diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, non reca in sé una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro interessi morali e materiali, tale da indurre a ravvisare sempre l'inidoneità del genitore all'esercizio della potestà genitoriale", per cui "è ragionevole affermare che il giudice possa valutare, nel caso concreto, la sussistenza di detta idoneità in funzione della tutela dell'interesse del minore". 
9. Infondato è, infine, anche il motivo aggiunto. 
Nessuna depenalizzazione, infatti, è intervenuta della fattispecie di cui all'art. 689, co. 1, c.p.. 
Ed invero in seguito alla modificazioni apportate, in sede di conversione, al decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, all'art. 7, dopo il comma 3, sono stati inseriti, tra l'altro, il comma 3 bis, secondo cui "Dopo l'articolo 14-bis della legge 30 marzo 2001, n. 125, è inserito il seguente: Art. 14-ter. (Introduzione del divieto di vendita di bevande alcoliche a minori)- 1. Chiunque vende bevande alcoliche ha l'obbligo di chiedere all'acquirente, all'atto dell'acquisto, l'esibizione di un documento di identità, tranne che nei casi in cui la maggiore età dell'acquirente sia manifesta. 
2. Salvo che il fatto non costituisca reato, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1.000 Euro a chiunque vende bevande alcoliche ai minori di anni diciotto. Se il fatto è commesso più di una volta si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 2.000 Euro con la sospensione dell'attività per tre mesi", nonché il comma 3-ter, secondo cui "All'articolo 689 del codice penale, dopo il primo comma sono inseriti i seguenti: 
"La stessa pena di cui al primo comma si applica a chi pone in essere una delle condotte di cui al medesimo comma, attraverso distributori automatici che non consentano la rilevazione dei dati anagrafici dell'utilizzatore mediante sistemi di lettura ottica dei documenti. La pena di cui al periodo precedente non si applica qualora sia presente sul posto personale incaricato di effettuare il controllo dei dati anagrafici. Se il fatto di cui al primo comma è commesso più di una volta si applica anche la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 Euro a 25.000 Euro con la sospensione dell'attività per tre mesi". 
Appare, dunque, evidente, proprio dalla lettura del combinato disposto dei menzionati co 3-ter e art. 14 ter, co. 2, che l'intervento riformatore non ha riguardato la previsione di cui al primo comma dell'art. 689, c.p., di cui è fatta salvezza. 
Anzi tale fattispecie viene rafforzata nei suoi effetti afflittivi, in quanto, da un lato essa si estende al caso in cui la somministrazione di bevande alcoliche avvenga a mezzo di distributori automatici sforniti di sistemi di lettura ottica dei documenti che consentano la rilevazione dei dati anagrafici dell'utilizzatore, ad eccezione del caso in cui sia presente sul posto personale incaricato di effettuare il controllo dei dati anagrafici di chi accede al distributore automatico; dall'altro, ove la somministrazione di bevande alcoliche ai minori degli anni sedici ed agli infermi di mente sia commessa più volte, alla sanzione penale si aggiungono le menzionate sanzioni amministrative, tra cui quella della sospensione dell'attività per il periodo predeterminato di tre mesi. L'intervento del legislatore si spiega agevolmente in un'ottica di prevenzione, volta a sottoporre a sanzione, sia pure amministrativa, quelle condotte, potenzialmente pregiudizievoli per la salute, di vendita di alcolici a minorenni, che, realizzandosi in assenza delle condizioni previste dall'art. 689, co. 1, c.p., erano sottratte ad una efficace risposta da parte dello Stato. 
8. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell'interesse del S. va, dunque, rigettato, con condanna di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento. 

P.Q.M. 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

giovedì 14 novembre 2013

Giusta conferma condanna per un uomo che abusa una donna per tanti anni mettendola addirittura incinta !

Una ragazza denuncia il padre per reiterate violenze sessuali, minacce e maltrattamenti, sostenendo di essere stata costretta, fin dall'età di tredici anni, a subire vessazioni di ogni tipo sotto la costante minaccia dell'uomo.


Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 luglio - 11 novembre 2013, n. 45300 
Presidente Teresi – Relatore Andronio 

Ritenuto in fatto 

1. - Con sentenza del 16 novembre 2011 pronunciata all'esito di giudizio abbreviato, il Gip del Tribunale di Frosinone ha condannato l'imputato, anche al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, in relazione ai reati di cui: A) agli artt. 81, secondo comma, 609 bis, primo e secondo comma, n. 1), cod. pen., perché, con violenza e minaccia e con abuso delle condizioni di inferiorità psichica di M.T. (nata il (omissis) ), figlia con lui convivente, costringeva la stessa a compiere e subire atti sessuali e, in particolare, dopo averne abusato all'età di 13 anni con rapporti sessuali completi a seguito dei quali la stessa rimaneva incinta e partoriva la figlia S. ((omissis) ), nonché tentativi di rapporti anali e, dopo averla costretta, appena appresa la notizia della gravidanza, ad allontanarsi dall'abitazione familiare nella quale aveva vissuto fino a quel momento con la madre gli altri fratelli, continuava a costringere la figlia nel corso di tutta la convivenza durata per 33 anni e fino a (omissis) ad avere rapporti sessuali completi contro la sua volontà, a volte con violenza fisica, a volte con minaccia consistite nel dirle che avrebbe divulgato la fonoregistrazione di precedenti rapporti sessuali e la notizia che S. era in realtà sua figlia e non sua nipote, in particolare a uomini con i quali la donna tentava di intrattenere relazioni affettive, a volte con minaccia consistite nell'impedirle di uscire con altri uomini se prima non avesse avuto con lui rapporti sessuali, in un'occasione puntandole una pistola alla tempia e intimandole di cessare ogni relazione con il fidanzato, con abusi determinati dalla dipendenza economica e psicologica e dalla rassegnata prospettiva della vittima di non poter più vivere una normale vita di relazione; B) all'art. 572 cod. pen., perché, con le condotte descritte al capo precedente, imponendole nel corso degli anni rapporti sessuali completi contro la sua volontà, impedendole di uscire per incontrare persone con cui instaurare relazioni sentimentali, a volte strattonandola, in un'occasione puntandole la pistola alla testa, pedinandola, posizionando la sua macchina davanti a quella di lei per costringerla a non uscire di casa, stampando abusivamente il contenuto della sua corrispondenza telematica, nascondendo un'auto nel registratore di lei, minacciando di ucciderla se avesse incontrato degli uomini, offendendola ripetutamente, impedendole di andare a lavorare, maltrattava la figlia M.T. sottoponendola a continue vessazioni; e, inoltre, nonostante il suo arresto per detenzione illegale di munizioni da guerra e dopo la denuncia dei fatti per i quali è processo, appena in libertà continuava a minacciarla e a molestarla tentando di chiamarla al telefono, recandosi presso il negozio di parrucchiere della sorella, dove lavorava, minacciando anche quest'ultima di far chiudere l'attività; C) all'art. 2 della legge n. 865 del 1967, perché illegalmente deteneva un'arma da guerra della quale venivano rinvenuti 6 proiettili calibro 9 e il foglio di istruzioni per l'uso a seguito di perquisizione. 
La Corte d'appello, con sentenza dell'8 gennaio 2013, ha dichiarato, quanto al capo A), estinte per prescrizione le condotte antecedenti al 25 marzo 2001, e ha conseguentemente rideterminato la pena in diminuzione, confermando nel resto le statuizioni di primo grado. 
2. - Avverso quest'ultima sentenza l'imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 
2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si rilevano la manifesta illogicità e la mancanza di motivazione in relazione all'istanza di integrazione probatoria d'ufficio con l'esame di M.S. , circa i rapporti intercorrenti tra la stessa e la di lei madre, M.T. , e tra quest'ultima e l'imputato e circa la circostanza che M.T. godeva di ampia libertà nella frequentazione di uomini non appartenenti al nucleo familiare. La Corte d'appello aveva ritenuto non indispensabile l'integrazione istruttoria ritenendo verosimile che la testimone non potesse dichiarare più di quanto già riferito a sommarie informazioni, in quanto non aveva avuto diretta contezza del dato centrale processuale, ovvero dei rapporti sessuali intercorsi fra la madre dell'imputato, che lei credeva essere semplicemente suo nonno. La stessa Corte d'appello avrebbe omesso di valutare che M.S. aveva definito i rapporti tra imputato persona offesa normali, specificando che i litigi non erano frequenti e rientravano nell'ordinarietà di qualsiasi famiglia ed aveva affermato che M.T. non aveva subito sopraffazioni, ingiurie o violenze di alcun genere. 
2.2. - Si denunciano, in secondo luogo, la manifesta illogicità della motivazione e il travisamento della prova in relazione alla violenza e alla minaccia finalizzate all'ottenimento di rapporti sessuali. Il ricorrente, premesso che il susseguirsi di rapporti sessuali tra le parti e la paternità incestuosa di M.S. sono incontestati, sostiene che la Corte d'appello avrebbe confermato la penale responsabilità sul presupposto che M.T. non aveva mai espresso al padre un consenso scriminante, perché costretta con violenza o minaccia e perché in stato di soggezione psicologica. Sarebbero state valorizzate, a tal fine, le affermazioni di M.R. e M.A. , che - secondo il ricorrente - non costituiscono un contributo probatorio, perché riferite a meri sospetti circa le attenzioni sessuali del padre nei confronti della persona offesa. La Corte distrettuale non avrebbe valutato le censure difensive circa l'attendibilità delle dichiarazioni di tali testi, influenzati da rancore nei confronti della pessima figura paterna. Si sarebbero travisate inoltre le risultanze delle fonoregistrazioni, da cui era emerso che l'imputato aveva ammesso di avere preso con forza la figlia e che quest'ultima piangeva mentre subiva un rapporto anale. Il ricorrente propone interpretazioni alternative dell'affermazione da lui fatta, e risultante dalla registrazione, secondo cui aveva preso la figlia con violenza, sostenendo che gli interlocutori intendessero indicare un particolare trasporto e una particolare eccitazione a seguito della quale l'atto sessuale era stato consumato con veemenza. Non si sarebbe considerato, poi, che le dichiarazioni della persona offesa erano vaghe sulla frequenza dei rapporti e su come tale frequenza era mutata nel corso degli anni di convivenza; né vi sarebbe prova che l'imputato avesse registrato i rapporti sessuali allo scopo di ricattare la figlia. Non potrebbe essere considerata minacciosa la richiesta dell'imputato di provare con lui lo stesso trasporto emotivo impiegato dalla persona offesa nei rapporti sessuali con altro soggetto, dovendo questa essere inquadrata nella peculiarità della relazione incestuosa intercorrente fra i due. 
2.3. - Si denunciano, in terzo luogo, l'erronea applicazione della disposizione incriminatrice e la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con specifico riferimento alle condizioni di inferiorità psichica e alle nozioni di abuso e induzione. Si lamenta, in particolare, che la Corte distrettuale avrebbe desunto il vizio del consenso della persona offesa dalla sua situazione di soggezione psicologica, ma nulla avrebbe precisato circa l'induzione mediante abuso delle condizioni di inferiorità. Non si sarebbe tenuto conto, in particolare, del tenore delle conversazioni registrate, nelle quali M.T. acconsente a rapporti sessuali con toni scherzosi e provocatori, invitando il padre ad eseguire l'atto sessuale secondo il suo modo di fare, oppure paragonando il suo membro a quello di un altro soggetto. Dalle conversazioni registrate emergerebbe, insomma, un rapporto paritario tra imputato persona offesa, nel quale quest'ultima mostrava autonomia di giudizio e capacità di disporre della propria vita e delle proprie scelte. 
2.4. - Con un quarto motivo di gravame, si lamentano l'erronea applicazione dell'art. 572 cod. pen. e la manifesta illogicità della motivazione, sul rilievo della mancanza di prova di presunti tentativi dell'imputato di contattare la figlia tramite altra persona all'utenza telefonica dell'abitazione. Tali tentativi - secondo la prospettazione difensiva - non potevano assurgere ad un comportamento valutabile in termini di maltrattamento e non avevano tono minatorio o molesto. La motivazione fornita Corte d'appello sarebbe insufficiente nella parte in cui questa si basa sulle deposizioni della persona offesa e dei fratelli A. e R. , soggetti questi ultimi non conviventi con l'imputato e la persona offesa e privi di una conoscenza diretta dei fatti. Né si sarebbe sufficientemente apprezzato il fatto che M.S. aveva definito normali i rapporti fra imputato e persona offesa. In punto di diritto, poi, non si sarebbe considerato che, essendovi piena coincidenza fra le contestate condotte di violenza sessuale e maltrattamenti, quest'ultimo reato avrebbe dovuto essere ritenuto assorbito. 
2.5. - Con un quinto motivo di doglianza si denunciano la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all'art. 2 della legge n. 865 del 1967 (capo C). Si lamenta, in particolare, che la Corte territoriale ha ritenuto condivisibili le conclusioni del giudice di primo grado circa la prova del possesso dell'arma, sebbene la medesima non sia mai stata rinvenuta. Non si sarebbe considerata, sul punto, l'ambiguità del quadro probatorio, costituito dal sequestro delle munizioni, dalle dichiarazioni di M.C. e M.T. , le quali avevano sostenuto di aver appreso della disponibilità dell'arma, dal contenuto di una registrazione, nella quale l'imputato aveva minacciato M.T. di usare l'arma contro di lei. 
2.6. - Si denunciano, in sesto luogo, l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione in relazione al mancato assorbimento del reato di detenzione di arma nel reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza resa in data 7 marzo 2011 dal Tribunale di Frosinone. Precisa il ricorrente che, per la detenzione delle munizioni, che sono le stesse dalle quali si desunta la detenzione dell'arma, egli è stato già condannato a seguito di processo per direttissima. La sentenza di condanna era stata allegata all'atto d'appello allo scopo di sostenere l'identità dei fatti, sul rilievo che la detenzione contemporanea di un'arma da sparo e delle munizioni costituenti la dotazione della stessa costituisce un'unica ipotesi di reato. La Corte d'appello aveva rigettato tale richiesta, ritenendo non ravvisabile l'unicità del reato, mancando la contemporaneità tra le due condotte. 
2.7. - Con un settimo motivo di ricorso, si denunciano - in via subordinata - l'erronea applicazione dell'art. 81 cod. pen. e il vizio della motivazione per il mancato riconoscimento della continuazione tra il reato di cui al capo C) del presente procedimento e reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza di condanna del 7 marzo 2011 del Tribunale di Frosinone. Si lamenta, sul punto, che la Corte territoriale non ha riconosciuto la continuazione senza fornire sul punto alcuna adeguata motivazione. 
2.8. - Con l'ottavo motivo di gravame, la sentenza è censurata in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche e all'eccessività della pena, sul rilievo che la stessa non offrirebbe alcuna motivazione sulle circostanze dell'azione e sullo stato personale e psicologico dell'imputato. 
3. - All'udienza di discussione davanti a questa Corte, la parte civile, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ha depositato, tramite il difensore, conclusioni scritte con le quali chiede il rigetto del ricorso, e nota spese, chiedendone la distrazione in favore dello Stato. 

Considerato in diritto 

4. - Il ricorso è fondato limitatamente alla continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato con la sentenza del 7 marzo 2011 del Tribunale di Frosinone e quello di cui al capo C) dell'imputazione. 
4.1. - Il primo motivo di doglianza, con cui si contesta la motivazione adottata dalla Corte d'appello in relazione al rigetto della richiesta di integrazione probatoria costituita dalla audizione di M.S. , è inammissibile, perché formulato in modo non sufficientemente specifico e, comunque, diretto ad ottenere da questa Corte una rivalutazione di un profilo di fatto già ampiamente esaminato in primo e secondo grado. 
Sul punto, con motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente, il GUP aveva osservato che la teste era già stata sentita in istruttoria ed aveva una conoscenza solo parziale dei fatti. Sulla stessa linea si colloca la Corte d'appello, la quale rileva che M.S. aveva già raccontato nel corso delle indagini preliminari quanto a sua conoscenza circa la vita familiare e i rapporti della madre con l'imputato e non aveva diretta contezza del dato centrale del processo, ovvero dei rapporti sessuali intercorsi fra i due. Quanto al profilo relativo ai maltrattamenti, la stessa M.S. aveva dettagliatamente evidenziato le circostanze nelle quali gli stessi erano avvenuti (puntualmente riportate alla pagina 7 della sentenza impugnata), facendo emergere un quadro di soprusi reiterati, di violenze, di minacce, nonché di gelosie per la relazione sentimentale che la persona offesa stava cercando di intrattenere con un uomo. 
4.2. - Il secondo e il terzo motivo di doglianza - che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono alla motivazione della sentenza impugnata circa la violenza sessuale continuata e circa l'abuso della condizione di soggezione psicologica della persona offesa - sono inammissibili, perché diretti ad ottenere da questa Corte una rivalutazione del quadro probatorio attraverso la mera riproposizione di censure già esaminate e motivatamente disattese in primo e secondo grado. 
Logiche e coerenti sono, del resto, le argomentazioni adottate dai giudici di merito a sostegno della ritenuta responsabilità penale dell'imputato. Si evidenzia, infatti, che il copioso quadro probatorio - che si inserisce sul dato incontestato del susseguirsi di rapporti sessuali tra le parti per più di trenta anni e della paternità incestuosa di M.S. - è rappresentato: dalle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, le quali risultano precise, specifiche e circostanziate; dai riscontri costituiti dalle dichiarazioni di M.S. circa la situazione familiare e i maltrattamenti ai quali la persona offesa era sottoposta; dalle affermazioni accusatorie di M.R. e M.A. , in parte riferite a dati da questi direttamente appresi in parte riferite a fatti e situazioni conosciuti de relato; dalle fonoregistrazioni delle conversazioni fra imputato e persona offesa, dalle quali emerge la violenza cui i rapporti sessuali erano improntati. 
Sotto tale ultimo profilo, le interpretazioni fornite dall'imputato costituiscono delle mere rivisitazioni di quanto già accertato dal GUP e dalla Corte d'appello, risolvendosi in un tentativo di dare all'affermazione da lui fatta circa la violenza usata alla figlia un valenza alternativa manifestamente implausibile. 
Quanto allo specifico aspetto dell'abuso della soggezione psicologica della persona offesa, a fronte di rilievi difensivi diretti - come già osservato - a sollecitare a questa Corte una inammissibile rivisitazione del quadro probatorio, i giudici di merito hanno evidenziato che la persona offesa aveva chiaramente riferito di rapporti sessuali che erano pretesi dal padre con violenza e minacce ed aveva raccontato l'episodio in cui il padre l'aveva trascinata via di casa, incinta e in lacrime, mentre lei chiedeva ripetutamente aiuto alla madre e fratelli senza ottenerlo. Gli stessi giudici hanno altresì attribuito rilievo alle conversazioni telefoniche intercettate e alla lunghezza della convivenza incestuosa fra padre e figlia, dati dai quali hanno correttamente desunto la presenza di uno stato di soggezione psicologica che ha impedito alla persona offesa di abbandonare l'abitazione paterna e di opporre un rifiuto ai rapporti sessuali, alcuni dei quali connotati anche da ulteriori violenze e minacce. A ciò gli stessi giudici aggiungono l'ulteriore elemento degli impedimenti posti dall'imputato alle relazioni sentimentali che la persona offesa cercava di intraprendere con altri soggetti, in modo da realizzare quella segregazione psicologica e affettiva che ha costituito la base della soggezione psicologica di questa. 
4.3. - Inammissibile, per le stesse ragioni, è il quarto motivo di doglianza, relativo alla motivazione della sentenza impugnata circa il reato di cui all'art. 572 cod. pen. Anche con tale doglianza, infatti, si tenta di reiterare la critica al discorso giustificativo delle sentenze di primo e secondo grado sulla base di elementi già ampiamente valutati e disattesi dai giudici di merito. Sinteticamente, la sentenza di secondo grado conclude, con iter logico del tutto corretto, che: a) la prova certa dei maltrattamenti emerge dalle dichiarazioni della persona offesa e dei fratelli A. , R. e C. ; b) in particolare, l'imputato, venuto a conoscenza di una relazione sentimentale della persona offesa con un soggetto, le vietava di incontrarlo, la pedinava, la spiava, avendo posizionato un registratore nella sua autovettura; c) la figlia S. aveva analiticamente confermato tale ricostruzione, aggiungendovi significativi particolari (cfr. supra 4.1.); d) i maltrattamenti sono costituiti da comportamenti ripetuti e ulteriori rispetto alle già gravissime violenze sessuale posti in essere. 
4.4. - Del tutto generici e, dunque, inammissibili sono i rilievi svolti dal ricorrente con il quinto motivo di ricorso circa la pretesa manifesta illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del reato di cui all'art. 2 della legge n. 865 del 1967 (capo C). 
Deve rilevarsi, del resto, che la Corte d'appello - in totale continuità con quanto già ritenuto dal GUP - ha evidenziato che il possesso dell'arma poteva essere ritenuto provato, pur in assenza del ritrovamento della stessa, in base: al sequestro delle munizioni e al rinvenimento delle istruzioni per l'impiego di un'arma del tipo di quella in contestazione; alle convergenti dichiarazioni di M.T. e M.C. , le quali direttamente dal padre avevano avuto notizia dell'esistenza dell'arma; alla registrazione in atti, da cui si evince che l'imputato minacciava la figlia di ucciderla proprio con una pistola. 
4.5. - Infondato è il sesto motivo di ricorso, con cui si denuncia che la Corte d'appello non avrebbe ritenuto assorbito nel reato di detenzione di arma il reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza resa in data 7 marzo 2011 dal Tribunale di Frosinone. Se non vi è dubbio, infatti, che la detenzione contemporanea di un'arma da sparo e delle munizioni costituenti la dotazione della stessa costituisce un'unica ipotesi di reato, deve nondimeno rilevarsi che nella sentenza impugnata si da correttamente atto del fatto che nel caso di specie la contemporaneità della detenzione dell'arma e delle munizioni mancavano, perché risulta provato che l'imputato aveva continuato a detenere l'arma anche ampiamente dopo il sequestro delle munizioni. 
4.6. - Fondato è, invece, il settimo motivo di ricorso, con cui si denunciano l'erronea applicazione dell'art. 81 cod. pen. e il vizio della motivazione per il mancato riconoscimento della continuazione tra il reato di cui al capo C) del presente procedimento e reato di detenzione di munizioni di cui alla sentenza di condanna del 7 marzo 2011 del Tribunale di Frosinone. 
La Corte d'appello fornisce, infatti, sul punto una motivazione non corretta, perché esclude il riconoscimento della continuazione con il reato oggetto di tale ultima sentenza di condanna sul rilievo che era già stata riconosciuta la continuazione fra il reato sub C) e quello più grave sub A). Così facendo, la stessa Corte non considera che il riconoscimento della continuazione fra i reati oggetto dell'imputazione in un procedimento non impedisce di per sé che sia riconosciuta la continuazione anche con reati oggetto di altro procedimento. 
La sentenza deve, pertanto, essere annullata limitatamente a tali profili, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, la quale, facendo corretta applicazione del principio di diritto appena enunciato, valuterà in concreto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato e quello di cui al capo C) del presente giudizio e procederà alla consequenziale determinazione del trattamento sanzionatorio. 
4.7. - Inammissibile, per genericità, è l'ultimo motivo di ricorso, relativo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e all'eccessività della pena. A fronte delle mere indimostrate asserzioni difensive sul punto, la Corte d'appello - ponendosi in continuità con quanto già rilevato in primo grado - evidenzia, con adeguata motivazione, che i fatti sono di estrema gravità, per il rilevante danno provocato alla persona offesa dalla lunghissima convivenza con l'imputato, con la nascita di una bambina prodotto dell'incesto, con limitazioni della libertà fisica e di autodeterminazione, con una continua oppressione realizzata attraverso minacce, pedinamenti e registrazioni. 
5. - La sentenza impugnata deve, in conclusione, essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, limitatamente alla continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato e quello di cui al capo C) del presente giudizio e alla consequenziale determinazione del trattamento sanzionatorio. Il ricorso deve essere rigettato nel resto, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, in favore dello Stato, da liquidarsi in Euro 3500,00, oltre accessori di legge. 

P.Q.M. 

Annulla la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma, limitatamente alla continuazione tra il reato di detenzione di munizioni già giudicato e quello di cui al capo C) del presente giudizio e alla consequenziale determinazione del trattamento sanzionatorio. 
Rigetta il ricorso nel resto e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado della parte civile, in favore dello Stato, liquidandole in Euro 3500,00 oltre accessori di legge. 

Reazione ad una rapina. Tentato omicidio del derubato

Titolare di un negozio per evitare che due ladri commettano un furto nell'esercizio colpisce uno dei due con un coltello: non può ritenersi configurabile il pericolo di reiterazione del reato.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 26 settembre – 8 novembre 2013, n. 45248 Presidente Giordano – Relatore Caiazzo 

Rilevato in fatto 

Con ordinanza in data 4.2.2013 il Tribunale del riesame di Bologna, in accoglimento dell'appello del P.M. avverso l'ordinanza del GIP del Tribunale di Reggio Emilia in data 7.1.2013 che aveva rigettato la richiesta di applicazione della custodia in carcere nei confronti di T.G. , applicava al predetto la misura degli arresti domiciliari in relazione al delitto di tentato omicidio perché, dopo essersi accorto del tentativo di furto di notte che due individui stavano effettuando in danno del suo minimarket, manomettendo la saracinesca, apriva all'improvviso la porta armato di coltello e colpiva con un fendente al petto uno dei due soggetti, così compiendo atti idonei diretti in modo non equivoco a provocare la morte di V.A. ; in (omissis) .
Il GIP aveva ritenuto che a carico di T.G. non fossero stati raccolti gravi indizi di colpevolezza in ordine al contestato delitto di tentato omicidio, in quanto appariva possibile l'alternativa che V.A. si fosse procurato accidentalmente la ferita penetrante in zona mammaria con uno dei cacciavite utilizzati per forzare la saracinesca del negozio. Il Tribunale escludeva l'accidentalità del colpo dopo aver esaminato la documentazione medica e le caratteristiche delle lesioni interne provocate dal colpo; il contenuto di conversazioni intercettate in ospedale tra il V. e M.G. (il complice del V. nel compimento del tentato furto); le dichiarazioni spontanee rese il 10.1.2013 dal T. alla Polizia giudiziaria (l'indagato aveva dichiarato che aveva ripetutamente chiesto l'intervento dei Carabinieri; che aveva compiuto manovre per far comprendere ai ladri che era presente nel negozio; che li aveva anche avvertiti che stavano per arrivare i Carabinieri; che avendo visto uno dei due soggetti estrarre un oggetto oscuro, che gli era sembrato una pistola o un mitra, e che a quel punto aveva menato alcuni fendenti nella sua direzione, senza essersi accorto di averlo colpito). 
Riteneva che le dichiarazioni del T. fossero smentite dalle suddette conversazioni, captate all'insaputa degli interlocutori, e dalle altre risultanze, dalle quali risultava che l'indagato aveva compiuto un agguato, sfruttando l'effetto sorpresa mentre uno dei soggetti era ancora accovacciato (l'altro aveva fatto in tempo ad accorgersi della presenza di qualcuno all'interno del locale e a fuggire). 
Riteneva altresì non sussistente lo stato di legittima difesa, reale o putativa, ovvero l'eccesso colposo, poiché l'indagato avrebbe potuto difendersi palesando la sua presenza ed aveva invece dolosamente scelto di colpire con il coltello, aprendo all'improvviso la porta d'ingresso del negozio. 
Riteneva, infine, che la personalità dell'indagato destasse allarme per la sua incapacità di astenersi da n'affronta re con la violenza situazioni stressanti, anche se la reazione risultava frutto di una contingenza che difficilmente si potrebbe verificare negli stessi termini, e che la suddetta pericolosità poteva essere però controllata anche con la misura degli arresti domiciliari. 
Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi. 
Con il primo motivo di ricorso ha dedotto che con motivazione manifestamente illogica e contraddittoria erano stati ritenuti sussistenti gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di tentato omicidio. 
Il Tribunale aveva travisato la documentazione medica, ritenendo che i medici avessero constatato in V.A. solo una ferita al petto, mentre erano state descritte tre lesioni esterne presenti sul torace. Aveva assunto come genuino il contenuto delle intercettazioni ambientali, mentre dalle stesse risultava che gli interlocutori si erano accorti che le loro conversazione erano intercettate. Aveva travisato anche il contenuto delle dichiarazioni spontanee rese dal T. , perché questi non aveva mai dichiarato di aver menato alcuni fendenti senza essersi accorto di aver colpito il V. , avendo invece dichiarato che si era tolto dalla linea di fuoco e aveva dato un fendente alla cieca che aveva ritenuto che non fosse giunto a segno. 
Con il secondo motivo ha sostenuto che con alto grado di probabilità risultava che il ricorrente aveva agito in stato di legittima difesa nell'ipotesi di cui all'art. 52/2 e 3 comma c.p., e quindi non poteva essere emessa nei suoi confronti una qualsiasi misura cautelare. 
Era risultato, infatti, che aveva avvisato i Carabinieri; che aveva acceso la luce del retro per palesare la sua presenza nel negozio; che aveva mostrato la sua presenza ai ladri, tant'è che M.G. era scappato ed aveva esortato il suo complice V. a scappare. 
Con il terzo motivo ha eccepito la nullità dell'ordinanza impugnata, perché aveva omesso di esporre i motivi per i quali aveva ritenuto irrilevanti gli elementi forniti dalla difesa, e in particolare la planimetria e la documentazione fotografica del luogo in cui si era svolto il fatto, dalle quali risultava che il locale era dotato di un unico ingresso e che quindi il T. era obbligato ad affrontare i ladri che stavano forzando la saracinesca. 
Con il quarto motivo ha denunciato la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui aveva ritenuto sussistenti le esigenze cautelari, per il pericolo di reiterazione della condotta, 
nonostante lo stesso Tribunale avesse ritenuto l'eccezionalità del fatto di cui al presente procedimento e l'assenza di atti violenti da parte dell'indagato, anche in occasione di precedenti furti subiti. 

Considerato in diritto 

Risulta fondato solo il motivo di ricorso con il quale è stata criticata la motivazione dell'ordinanza nella parte in cui ha ritenuto sussistente la pericolosità dell'indagato. Non sussistono, innanzi tutto, i denunciati travisamenti delle risultanze probatorie, con riferimento alla documentazione medica (dalla quale, secondo il ricorrente, risulterebbero tre lesioni al torace e non una sola ferita, come ritenuto dal Tribunale), al contenuto dell'intercettazione della conversazione in ospedale tra il V. e il M. e alle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato il 10.1.2013 alla Polizia giudiziaria. 
È opportuno, prima di esaminare i denunciati travisamenti delle prove, sintetizzare in quali limiti la giurisprudenza di questa Corte ritiene ammissibile il ricorso per il travisamento della prova. 
In virtù della previsione di cui all'art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen., novellata dall'art. 8 della L. n. 46 del 2006, costituisce vizio denunciabile in cassazione la contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ovvero da altri atti del processo indicati nei motivi di gravame e, pertanto, l'errore cosiddetto revocatorio che cadendo sul significante e non sul significato della prova si traduce nell'utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall'atto istruttorie (V. Sez. 5 sentenza n. 18542 del 21.1.2011, Rv. 250168). 
Questa Corte ha anche precisato che il ricorso per cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l'erronea interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l'omessa valutazione di circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di verificare l'eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l'esistenza della decisiva difformità, fermo restando il divieto di operare una diversa ricostruzione del fatto, quando si tratti di elementi privi di significato indiscutibilmente univoco (V. Sez. 4 sentenza n. 14732 dell'I.3.2011, Rv. 250133). E quindi non è controverso il principio, più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che non da luogo al vizio di travisamento della prova la scelta, ad opera del giudice, di un'interpretazione delle dichiarazioni testimoniali in luogo di altra e diversa interpretazione (V. Sez. 3 sentenza n. 46451 del 7.10.2009, Rv. 2456119). 
In tema di ricorso per cassazione, pertanto, la possibilità di dedurre il vizio di motivazione per travisamento della prova è limitata all'ipotesi in cui il giudice del merito abbia fondato il suo convincimento su di una prova inesistente ovvero su di un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale, con la conseguenza che, qualora la prova che si assume travisata provenga dall'escussione di una fonte dichiarativa, l'oggetto della stessa deve essere del tutto definito o attenere alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile. 
Tanto premesso, risulta dalla documentazione medica allegata al ricorso che le tre soluzioni di continuo della parete toracica sono state descritte nell'ambito dell'esplorazione interna del cavo pleurico, e quindi non si riferiscono a ferite presenti all'esterno del torace; peraltro nel referto e nell'esame obiettivo si descrive una sola ferita da arma bianca di circa 1,5 centimetri e la diagnosi riportata nella cartella clinica è di "ferita penetrante emitorace sinistro". Per quanto riguarda, invece, il contenuto della suddetta intercettazione ambientale e delle dichiarazioni spontanee dell'indagato, non è questione riguardante il travisamento della prova il valore probatorio che è stato dato alla conversazione in ospedale tra gli autori del tentato furto in danno del negozio dell'indagato (ritenuta genuina dal Tribunale e artefatta dal ricorrente) ed è in sostanza una questione di interpretazione della prova aver dato, tenuto conto del contesto, un certo significato - piuttosto che quello sostenuto dalla difesa – alle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato alla Polizia giudiziaria. 
Il Tribunale, ricostruendo la vicenda sulla base del complesso delle risultanze, ha ritenuto che non fosse attendibile la versione data alla Polizia giudiziaria dal T. . 
Il predetto, secondo il Tribunale, si sarebbe perfettamente reso conto che due persone stavano forzando la saracinesca del suo negozio; non aveva però né avvertito i due ladri della sua presenza all'interno del negozio né, conseguentemente, del fatto che aveva già chiamato la Polizia; aveva ritenuto di meglio risolvere la situazione intervenendo direttamente e all'improvviso contro i due: si era armato di un coltello, aveva aperto d'improvviso la saracinesca e aveva colpito al petto quello dei due che, essendo accovacciato e intento a forzare la saracinesca, non si era reso conto della presenza dell'indagato; il complice, invece, essendosi accorto all'ultimo momento della presenza dell'indagato all'interno del negozio, era riuscito a fuggire. 
La ricostruzione della dinamica del fatto da parte del Tribunale non presenta alcun vizio sotto l'aspetto logico e, in questa sede di legittimità, non può essere dato alcun rilievo alla diversa ricostruzione del fatto da parte della difesa, basata su una diversa interpretazione delle prove che non è compito di questa Corte verificare. 
Assunto il fatto come ricostruito dal Tribunale, è evidente che l'imputato non ha agito in stato di legittima difesa reale o putativa, in quanto non era costretto ad intervenire nel modo suddetto, poiché ben avrebbe potuto, in quella fase (mentre i ladri cercavano di forzare la saracinesca), rivelare la sua presenza e provocare la fuga dei due malintenzionati. 
È insussistente l'eccepita nullità dell'ordinanza impugnata - per omessa motivazione sulla documentazione planimetrica e fotografica prodotta dalla difesa - in quanto il Tribunale ha ritenuto che l'indagato non fosse costretto a comportarsi come sopra descritto ed ha ritenuto anche che abbia scelto dolosamente di colpire con il coltello colui che voleva commettere un furto in danno del suo negozio, mentre avrebbe potuto scegliere di mettere in fuga i ladri, palesando la sua presenza all'interno del negozio; quindi era irrilevante, alla luce della ricostruzione del Tribunale, il fatto che il locale avesse un unico ingresso o la planimetria dei luoghi. 
Deve essere, invece, accolto il motivo di ricorso con il quale si è contestata la motivazione con la quale il Tribunale ha ritenuto sussistente la pericolosità del ricorrente, risultando effettivamente carente e soprattutto contraddittoria la motivazione con la quale è stato ritenuto concreto il pericolo di reiterazione di condotte analoghe, nonostante nella stessa ordinanza si sia affermato che la reazione dell'indagato risulta frutto di una contingenza che difficilmente si verificherà nuovamente negli stessi termini. 
Pertanto, la sentenza deve essere annullata limitatamente alle esigenze cautelari, con rinvio per nuovo esame al riguardo al Tribunale del riesame di Bologna. 

P.Q.M. 

Annulla l'ordinanza impugnata limitatamente alle esigenze cautelari e rinvia per nuovo esame al riguardo al Tribunale di Bologna. 
Rigetta nel resto il ricorso.

mercoledì 13 novembre 2013

Ristorante rumoroso con musica alta. Chiamato a giudizio

In un ristorante musica troppo alta, ma a lamentarsi è solo una condomina mentre gli altri hanno continuato a vivere tranquillamente. Nessun reato per la Cassazione.

Disturbo della quiete pubblica
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 14 ottobre – 13 novembre 2013, n. 45616 Presidente Chieffi – Relatore Caprioglio 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza del 18.1.2013 del Tribunale di Catania, V.S. e P.R. venivano dichiarati colpevoli del reato di cui all'art. 659 cod.pen. e venivano condannati alla pena di euro 300 di ammenda ciascuno, per avere, quali gestori del ristorante "Charleston", tollerato che venissero prodotti rumori al di sopra dei limite di tollerabilità attraverso l'impianto di amplificazione della musica. L'affermazione di colpevolezza era seguita ad un accertamento tecnico, in esito al quale era emerso che la diffusione sonora collocata all’interno del locale era tollerabile, mentre con l'impianto installato nel cortile esterno risultava accertato il superamento del normale limite di tollerabilità all'interno dell'abitazione della denunciante S.T., anche a finestre chiuse del suo appartamento, con evidenti disagi alla vita quotidiana. Le indagini tecniche erano state condotte nel maggio 2009, ma anche nel settembre 2009 si era verificata la necessità di fare intervenire i carabinieri ad opera della S., titolare di un provvedimento del giudice civile che aveva disposto a suo favore il divieto di diffusione di musica e di amplificazione e che il brig. L. aveva dichiarato di essere intervenuto presso i gestori per fare interrompere i rumori. Per questo veniva ritenuto che anche in quella occasione il rumore superasse i limiti della tollerabilità, non solo per la S. che aveva sollecitato l'intervento delle forze dell'ordine. In ogni caso la condotta non poteva dirsi giustificata solo in considerazione del fatto che si trattava di un giorno di festa patronale e palesi erano i profili di colpa nella condotta dei prevenuti. 
2. Avverso tale decisione, proponevano ricorso per cassazione i due imputati per dedurre violazione di legge, illogicità della sentenza, erronea applicazione della legge penale. Il reato non sussisterebbe, poiché le emissioni sonore non erano superiori alla normale tollerabilità, in quanto non furono percepite da un numero indeterminato di persone, posto che solo la S. se ne lamentò. Per configurare il reato, i rumori avrebbero dovuto recare disturbo ad una parte notevole degli occupanti del medesimo edificio, oppure a quelli degli stabili prossimi, per potersi ritenere disturbata o compromessa la quiete pubblica. Veniva rilevato che per valutare l'effettiva idoneità delle emissioni rumorose ad essere percepite da un numero indeterminato di persone, occorreva valutare le circostanze fattuali concrete in cui ebbe a manifestarsi la potenziale condotta illecita contestata, valutazione che nel caso di specie non sarebbe avvenuta. Non poteva poi essere sottovalutato che il 6.9.2009 era in corso una festa patronale della Madonna degli Ammalati, molto sentita dagli abitanti di Misterbianco, il cui santuario era adiacente al ristorante, ed era stato autorizzato il prolungamento dell'uso di strumenti amplificati, fino alle ore 24 (anziché le 23). Poiché il controllo intervenne alle ore 23,15 del 6.9.2009, la delusione sonora era perfettamente rispettosa delle prescrizioni imposte. Non pertinente sarebbe il richiamo alla consulenza tecnica che intervenne nel maggio precedente e che ebbe come riferimento il solo appartamento della S., cosicché non vi sarebbe prova circa la propagazione rumorosa oltre l'appartamento suindicato, verso un numero indeterminato di persone. Veniva quindi concluso nel senso che la condotta contestata non poteva rivestire rilevanza penale. 

Considerato in diritto 

Il ricorso è fondato e deve essere accolto, in quanto il discorso giustificativo della sentenza risulta viziato da una non corretta impostazione: deve infatti essere rilevato che la contestazione dell'addebito era limitata alla condotta tenuta dal due imputati nella sola giornata del 6.9.2009, seppure fosse emerso in sede dibattimentale che era in corso un contenzioso di natura civile, nell'ambito dei quale era stata disposta una consulenza tecnica che nel maggio precedente aveva dato conto di come la diffusione sonora all'interno del locale non oltrepassasse i limiti di tollerabilità, mentre detti limiti erano superati dalla diffusione di suoni provenienti dall'impianto collocato nel cortile esterno. Tale realtà doveva ritenersi dimostrativa della pendenza di una controversia di carattere civile, nel cui ambito avrebbe trovato composizione; dal punto di vista penale, la condotta illecita degli imputati era stata circoscritta alla data del 6 settembre 2009, data in cui la sola S. aveva avuto motivo di doglianza, tanto da aver richiesto l'intervento dei carabinieri alle ore 23,30, che avevano accertato la diffusione di musica ad alto volume che era stata interrotta dopo il loro arrivo. Così stando le cose vien fatto di ricordare che per poter configurare la contravvenzione di cui all'art. 659 c.p., secondo l'ormai costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte (Sez. I, n. 7753 del 20.5.1994, De Nardo, rv. 198766, sez. I, n. 47298 del 29/11/2011, Iori, 251406; sez. I 5.2.2013, n. 6546 , Demontis + 1) è necessario che i rumori prodotti, oltre ad essere superiori alla normale tollerabilità, abbiano attitudine a propagarsi in modo tale da essere idonei a disturbare una pluralità indeterminata di persone; tale modus opinandi si impone considerando la natura del bene giuridico protetto, che è da individuare nella quiete pubblica e non nella tranquillità di singoli soggetti che abbiano a denunciare la rumorosità. Ne consegue che se l'attività di disturbo ha luogo in un edificio condominiale, come ricorre nel caso in esame, per ravvisare la responsabilità penale del soggetto agente non è sufficiente che i rumori arrechino disturbo o siano idonei a turbare la quiete e le occupazioni dei soli abitanti gli appartamenti inferiori o superiori rispetto alla fonte di propagazione, ma occorre una situazione fattuale di rumori atti a recare disturbo ad una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio, poiché solo in questo caso può ritenersi integrata la compromissione della quiete pubblica. Del resto, nel caso in cui i rumori assumano una portata più circoscritta, come è avvenuto nel caso di specie in cui la sola S. si è lamentata del disturbo, le ragioni della persona disturbata o delle persone disturbate possono essere fatte valere in sede civile, azionando i diritti derivanti dai rapporti di vicinato, come del resto ebbe a fare la S. 
A tale principio di diritto non si è attenuta la sentenza impugnata, cosicchè deve ritenersi che il parametro normativo di riferimento è stato forzato: si impone l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste. 

P.Q.M. 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. 

mercoledì 6 novembre 2013

Occhio al menù ...

Il menù non indica gli alimenti congelati che vengono utilizzati per la preparazione dei piatti. E' frode in commercio. Condannati due ristoratori.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 2 ottobre - 5 novembre 2013, n. 44643Presidente Mannino – Relatore Lombardi 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza in data 15/11/2012 la Corte di appello di Milano, in accoglimento dell’impugnazione del P.G. avverso la sentenza del Tribunale di Milano in data 13/03/2009, ha affermato la colpevolezza di P.M. e P.M. in ordine al reato di cui agli art. 110, 56 e 515 c.p., loro ascritto perché, in qualità di titolari di un esercizio per la somministrazione di cibi e bevande, denominato “Osteria Ilios”, compivano atti idonei univocamente diretti a consegnare agli acquirenti sostanze alimentari diverse da quelle indicate nelle lista delle vivande ed, in particolare, cibi congelati, benché detta qualità non fosse indicata nella predetta lista, condannandoli alla pena di mesi due di reclusione ciascuno. 
In sintesi, il giudice di primo grado aveva escluso che la mera detenzione all’interno di un frigorifero di merce congelata e la mancata indicazione nella lista delle vivande di detta qualità integrasse la fattispecie degli atti idonei diretti in modo non equivoco alla vendita fraudolenta.
La Corte territoriale ha, invece, affermato che la descritta condotta integra l’ipotesi del tentativo di frode in commercio, osservando che l’inserimento degli alimenti congelati nel menù, senza la menzione della indicata qualità, costituisce un’offerta al pubblico, in quanto tale non revocabile, con la conseguente idoneità della stessa a determinare il conseguimento del risultato illecito. 
2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso personalmente gli imputati, che la denunciano per vizi di motivazione e violazione di legge. 
2.1. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento a quanto emerso dall’esame testimoniale all’esito del procedimento di primo grado. 
In sintesi, si deduce, citando, oltre alle dichiarazioni dell’imputato P.M., le deposizioni di alcuni testi, tra i quali lo stesso verbalizzante, che dall’istruzione dibattimentale non era affatto emerso con certezza che gli alimenti citati in imputazione fossero congelati. 
2.2. Errata applicazione degli art. 55 e 515 c.p. 
La Corte territoriale ha erroneamente affermato che la indicazione nel menù di determinati alimenti costituisca un’offerta al pubblico non revocabile. Può, infatti, verificarsi che una determinata pietanza, anche se indicata nel menù, non sia di fatto disponibile con la conseguenza che il ristoratore non è obbligato a servirla. In tal caso in pratica si verserebbe in un’ipotesi di reato impossibile. Inoltre, la condotta descritta nell’imputazione, in assenza di un inizio di contrattazione, non integra la fattispecie del tentativo di frode in commercio. Peraltro, l’ispezione è stata effettuata in orario di chiusura del locale e non è neppure certo che il menù si riferisse alle pietanze disponibili al momento dell’accertamento. 
2.3.4.5. Si denuncia, infine, violazione di legge e vizi di motivazione della sentenza in ordine al diniego delle attenuanti generiche, all’applicazione della pena detentiva, invece di quella pecuniaria, e alla mancata concessione del beneficio della sospensione della stessa. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso non è fondato. 
2. Stante il carattere pregiudiziale della questione di diritto occorre esaminare preliminarmente il secondo motivo di gravame. 
Il contrasto interpretativo in ordine alla configurabilità del tentativo di frode in commercio nella fattispecie in esame, peraltro risalente nel tempo (cfr. per la tesi opposta: sez. 3, sentenza n. 37569 del 25/09/2002, RV 222556), risulta definitivamente superato dalla giurisprudenza più recente, ma ormai consolidata, di questa Suprema Corte, secondo la quale “anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nelle cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore”. (sez. 3, sentenza n. 6885 del 18/11/2008, Chen, Rv. 242736; sentenze precedenti conformi: n. 10145 del 2002 Rv. 221461, n. 19395 del 2002 Rv. 221958, n. 14806 del 2004 Rv. 227964, n. 24190 del 2005 Rv. 231946, n. 23099 del 2007 Rv. 237067). 
Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dal più recente indirizzo interpretativo, in quanto lo stesso risulta conforme ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte in materia di tentativo del reato di cui all’art. 515 c.p., sia pure con riferimento fattispecie concreta diversa (cfr. Sez. Un. sentenza n. 28 del 25/10/2000, Morici, RV 217295). 
In materia, inoltre, la questione civilistica della cosiddetta offerta al pubblico, non revocabile se non con le medesime forme, di cui trattano la sentenza impugnata ed il ricorso per contestarne le affermazioni, non appare affatto dirimente, né rilevante, ai fini della configurabilità del tentativo. 
La questione della revocabilità dell’offerta contenuta nel menu, infatti, può assumere rilevanza solo ai fini della configurabilità della desistenza, atta ad escludere il reato nell’ipotesi in cui il ristoratore, a seguito della richiesta del cliente di una determinata pietanza, rifiuti di consegnare l’aliud pro alio, ma non incide sul perfezionamento della fattispecie del tentativo, che si consuma con la mancata indicazione nel menu della qualità degli alimenti surgelati o congelati. 
3. Gli ulteriori motivi di ricorso sono infondati o manifestamente infondati. 
Il primo motivo si risolve nella richiesta di rilettura del materiale probatorio e di una diversa valutazione dello stesso, inammissibile in sede di legittimità. 
E’ noto sul punto che, secondo l’ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, anche a seguito della modifica dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen. per effetto della legge n. 46 del 2006, al giudice di legittimità restano precluse la pure e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di diversi parametri di ricostruzione dei fatti e il riferimento, contenuto nel nuovo testo dalla norma citata, agli “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame” non vale a mutare la natura del giudizio di legittimità, il cui controllo rimane limitato alla struttura del discorso giustificativa del provvedimento impugnato e non può comportare una diversa lettura del materiale probatorio, anche se plausibile (sez. V, 22.3.2006 n. 19855, Blandino, RV 234095) (sez. III, 27.9.2006 n. 37006, Piras, RV 235508; sez. VI, 3.10.2006 n. 36546, Bruzzese, RV 735510). 
Quanto alla determinazione della pena ed al diniego di benefici, infine, la sentenza risulta adeguatamente motivata mediante il riferimento ai parametri di cui all’art. 133 c.p. ed, in particolare, ai precedenti penali degli imputati. 
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato con le conseguenze di legge. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

martedì 29 ottobre 2013

Una bottiglia di vino in tre: guida in stato di ebrezza

Giuda sotto l’influenza dell’alcool: il conducente dichiara di avere assunto un farmaco gastroprotettore e di aver bevuto una bottiglia di vino in tre. Condannato.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 2 - 28 ottobre 20134, n. 43998 Presidente Sirena – Relatore Montagni 

Ritenuto in fatto 

1. La Corte di Appello di Brescia, con sentenza in data 12.04.2012, in riforma della sentenza del Tribunale di Bergamo del 28.10.2011, appellata dal Procuratore Generale, affermava la penale responsabilità di C.G. in ordine al reato di cui all'art. 186, comma 2, lett. b), cod. strada. 
La Corte territoriale rilevava che l'impugnazione della parte pubblica era fondata. Il Collegio evidenziava che risultava pacificamente accertato che l'imputato, la sera del fatto, aveva consumato una intera bottiglia di vino, unitamente ad altre due commensali; e che era del tutto irrilevante la circostanza che C. avesse assunto un gastroprotettore, medicinale astrattamente idoneo a rallentare l'assorbimento dell'alcol nell'organismo, ma non certo ad aumentarne la concentrazione. 
2. Avverso la richiamata sentenza ha proposto ricorso per cassazione G..C. , a mezzo del difensore. 
Con il primo motivo la parte deduce l'erronea applicazione dell'art. 186, cod. strada e degli artt. 42 e 43 cod. pen.. 
L'esponente osserva che il prevenuto, nel corso della cena precedente l'effettuazione dell'alcoltest, aveva bevuto due bicchieri di vino ed assunto un farmaco denominato "Pantorc", che gli era stato prescritto dal medico curante; e che l'esito dell'esame alcolimetrico (dal quale era risultato un tasso pari a 0,96 g/l), effettuato ad oltre due ore di distanza dalla assunzione del farmaco, aveva allarmato il medico curante del C. ; che il sanitario aveva quindi prescritto esami ematici, dai quali era risultato che il paziente era affetto da un danno epatico, causato dalla assunzione del predetto farmaco. 
Ciò posto, il ricorrente rileva che il Tribunale Bergamo aveva mandato assolto l'imputato, giacché appariva ragionevole il dubbio che l'assunzione del farmaco avesse alterato il risultato della prova strumentale relativa al tasso alcolemico. Il deducente considera che la motivazione addotta dalla Corte territoriale, nel riformare la sentenza assolutoria, risulta carente sotto diversi profili: per la mancata considerazione della scansione temporale degli avvenimenti, sopra richiamati; e per aver ritenuto che il prevenuto si fosse posto consapevolmente alla guida di un veicolo, dopo aver assunto bevande alcoliche, in quantità superiore alla soglia di punibilità. La parte osserva che la Corte di Appello ha omesso di considerare gli effetti della disfunzione epatica procurata al C. dalla assunzione del "Pantorc", incidenti sulla metabolizzazione dell'alcol. 
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la mancata assunzione di prova decisiva, con riguardo alla perizia tossicologica volta ad accertare l'effetto del medicinale Pantorc sul metabolismo dell'alcol, istanza già spiegata nel corso del giudizio di primo grado - a fronte della quale il Tribunale aveva disposto l'esame del 
medico curante ai sensi dell'ari:. 507 cod. proc. pen. - e riformulata nel giudizio di appello. Osserva che, sul punto di interesse, la Corte di Appello si è limitata ad affermare che risultava del tutto irrilevante la valutazione relativa agli effetti del predetto farmaco. 
Con il terzo motivo l'esponente deduce la violazione dell'art. 133 cod. pen. e l'illogicità della motivazione, in riferimento alla quantificazione della pena. 

Considerato in diritto 

3. Il ricorso è infondato. 
3.1 Si procede all'esame unitario del primo e del secondo motivo di doglianza. 
Come noto, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamene affermato che nel giudizio di appello, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 8705 del 24/01/2013, dep. 21/02/2013, Rv. 254113). 
Orbene, la Corte di Appello di Brescia, nel riformare la sentenza assolutoria resa dal Tribunale di Bergamo del 28.10.2011, ha sviluppato un percorso argomentativo che risulta del tutto coerente rispetto al delineato obbligo motivazionale. 
Invero, la Corte territoriale ha considerato: che il prevenuto aveva assunto bevande alcoliche, in quantità non trascurabile, la sera del fatto, avendo consumato, insieme a due commensali, una intera bottiglia di vino; che risultava irrilevante, ai fini del superamento delle concentrazioni alcolemiche consentite dal codice della strada, l'ulteriore assunzione di un farmaco gastroprotettore, atteso che tale evenienza avrebbe potuto rallentare l'assorbimento dell'alcol, ma giammai aumentarne la relativa concentrazione; che il prevenuto si era posto consapevolmente alla guida della vettura, dopo aver bevuto il richiamato quantitativo di vino ed avere assunto la specialità medicinale ora riferita. 
Sulla scorta di tali rilievi il Collegio ha, quindi, considerato che la condotta come accertata integrava il reato contravvenzionale di cui all'art. 186, comma 2, lett. b), cod. strada. 
Preme pure evidenziare che il percorso motivazionale sviluppato dalla Corte di Appello, con specifico riferimento alla prova della sussistenza dell'elemento psicologico del reato, risulta del tutto coerente rispetto all'insegnamento ripetutamente espresso dalla Corte regolatrice, in riferimento all'elemento psicologico delle contravvenzioni. Ed invero, per integrare l'elemento soggettivo della fattispecie della guida in stato di ebbrezza di cui all'art. 186, cod. strada, non è necessario il dolo, ma è sufficiente la colpa, la quale, come esposto dal giudice di merito, si riscontra nella condotta dell'imputato, il quale si pose volontariamente alla guida di una autovettura (condotta che obbliga specificamente all'osservanza della disciplina che regola la circolazione stradale), nella consapevolezza di avere assunto da poco bevande alcoliche in quantità non trascurabile, oltre ad un farmaco gastroprotettore (Cass. Sez. 4,sentenza n. 31295 del 11.04.2012, dep. 31.07.2012, n.m.). 
Ciò posto, deve allora osservarsi che la sentenza impugnata non risulta censurabile neppure in riferimento alla mancata assunzione della prova richiesta dalla difesa, volta all'accertamento degli effetti del farmaco gastroprotettore sul metabolismo dell'alcol. 
Al riguardo, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito: che il vigente codice di rito penale pone una presunzione di completezza dell'istruttoria dibattimentale svolta in primo grado; che la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento, in sede di appello, ha carattere eccezionale e può essere disposta unicamente nel caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti; e che solo la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dar conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6379 del 17/03/1999, dep. 21/05/1999, Rv. 213403). Deve, peraltro, considerarsi che nel caso di specie, la Corte di Appello ha espressamente considerato che la richiesta istruttoria presentata dalla difesa risultava del tutto irrilevante, in ragione delle circostanze di fatto pacificamente accertate nel corso del giudizio di primo grado, anche concernenti gli effetti, in ipotesi marginali, che possono derivare dalla assunzione di un farmaco gastroprotettore. 
3.2 Il terzo motivo di ricorso non ha pregio. 
Si osserva che la decisione impugnata risulta sorretta da conferente apparato argomentativo, che soddisfa appieno l'obbligo motivazionale, anche per quanto concerne la dosimetria della pena. La Corte di Appello, infatti, ha contenuto il trattamento sanzionatorio in mesi tre di arresto ed Euro 900,00 di ammenda, in considerazione della modesta gravità - oggettiva e soggettiva - del fatto. Detta pena è stata quindi ridotta di un terzo, per effetto delle circostanze attenuanti generiche, applicate nella massima estensione, in ragione del buon comportamento processuale. La Corte di merito, infine, ha sostituito la pena detentiva con quella pecuniaria della specie corrispondente ed ha concesso il beneficio della non menzione.
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Lancio di uova vs polito, condannato

Politica. In campagna elettorale un uomo lancia delle uova contro i politici presenti sul palco. Condannato per lancio pericoloso di cose.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 settembre – 29 ottobre 2013, n. 44187 Presidente Fiale – Relatore Graziosi 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza del 7 gennaio 2013 il Tribunale di Bologna ha condannato D.B.F. alla pena di euro 200 di ammenda per il reato di cui agli articoli 110 e 674 c.p. per aver gettato uova contro il palco di alcuni politici durante una campagna elettorale, e colpendo con alcune di esse il mezzo di trasporto utilizzato come palco. 
2. Ha presentato ricorso l’imputato adducendo, quale primo motivo, la mancanza di motivazione - essendovi stato quanto alla sua responsabilità un mero richiamo alla testimonianza del commissario M.G., senza accenno alcuno al suo contenuto e alla descrizione della condotta tenuta dall’imputato stesso - e, quale secondo motivo, la violazione di legge - non integrando il reato il lancio diretto a cose e non a persone, e l’imputazione stessa indicando che “il lancio ha attinto esclusivamente il veicolo ove si trovavano le persone offese e non le persone stesse”. Quale terzo motivo, infine, lamentava la mancata assunzione di prova decisiva non essendo stata “condotta alcuna indagine sulla circostanza dell’idoneità ad imbrattare o molestare del materiale che si assume come gettato all’indirizzo della persona offesa”, soprattutto non essendosi “sentite le persone offese in merito alle molestie ricevute in ordine ad una asserita condotta penalmente rilevante”: pur essendo il reato riconosciuto come illecito di pericolo concreto, dalla sentenza non emergerebbe "se e come sia stata posta in pericolo l’altrui incolumità". 

Considerato in diritto 

3. Il ricorso è infondato. 
3.1 Il primo motivo, che lamenta carenza di motivazione in ordine alla descrizione della condotta dell’imputato, adducendo che vi sarebbe stato un mero richiamo alla testimonianza del commissario M.G., non corrisponde al reale contenuto della sentenza che, pur con una motivazione concisa, illustra in modo adeguato i propri presupposti decisionali, in particolare, quanto alla descrizione della condotta dell’imputato, specificando che la testimonianza del commissario M. “ha confermato il fatto così come descritto nell’imputazione e ne ha indicato, quale corresponsabile, l’attuale imputato”. Il motivo è dunque manifestamente infondato. 
3.2 Il secondo motivo adduce violazione di legge per avere il lancio attinto il veicolo ove si trovavano le persone offese e non le persone stesse. L’articolo 674 c.p., nel suo limpido dettato, non prevede che la persona offesa sia colpita, ma soltanto che vi sia un “getto pericoloso” di “cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone”. La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha pertanto sviluppato una interpretazione nel senso che, per integrare il reato di cui alla suddetta norma, occorre che la condotta sia idonea (anche indirettamente, qualora sia diretta verso le cose: Cass. sez. III, 27 settembre 2006 n. 35885) a offendere, imbrattare o molestare le persone (e non solamente le cose: Cass, sez. III, 13 aprile 2010 n. 22032) con un’attitudine concreta a tale lesività (Cass. sez. III, 11 maggio 2007 n. 25175). E la descrizione della condotta, come emergente dal capo di imputazione, a cui, come si è visto, corrisponde, poi l’esito probatorio, è chiaramente riconducibile all’articolo 674 c.p., essendo concretamente idonea a cagionare imbrattamento e molestia alle persone offese. Il motivo è dunque anch’esso manifestamente infondato, essendo stata correttamente qualificata la condotta di lancio di uova (cose quanto meno idonee ad imbrattare, se colpiscono, le persone) contestata all’imputato ai sensi della suddetta norma. 
3.3 Infine, il terzo motivo, pur formalmente qualificandosi come doglianza per omessa prova decisiva, a sua volta non ha consistenza. è evidente che, infatti, per ricondurre una condotta di lancio in luogo pubblico di oggetti in direzione di persone alla fattispecie di cui all’articolo 674 c.p, non occorre sentire le persone stesse per determinare se la condotta sia penalmente rilevante, essendo questa una valutazione oggettiva, non certo deferita alla persona offesa. Né, poi, è qualificabile come decisiva un’indagine sul “materiale” per appurarne l’idoneità a imbrattare o molestare, laddove tale “materiale” consiste, come emerge dalla imputazione, in uova, la cui idoneità ad imbrattare è indiscutibilmente notoria. 
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna dei ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende. 

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

domenica 27 ottobre 2013

Aborto o omicidio

La CAssazione affronta un tema delicatissimo: il discrimine tra aborto illegale e omicidio volontario del neonato.

La CAssazione affronta un tema delicatissimo: il discrimine tra aborto illegale e omicidio volontario del neonato.

La vita autonoma del feto inizia con la rottura del sacco che contiene il liquido amniotico e si raggiunge nel momento iniziale del travaglio, allorché il feto non è ancora autosufficiente.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 10 – 24 ottobre 2013, n. 43565 Presidente Giordano – Relatore Mazzei 

Ritenuto in fatto 

1. Con ordinanza deliberata il 31 maggio 2013 il Tribunale di Roma, costituito ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen., ha respinto l'appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo avverso l'ordinanza in data 7 marzo 2013 del Giudice per le indagini preliminari della stessa sede, il quale aveva rigettato la richiesta di applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di R.G. e A.E.A. con riguardo al delitto di concorso in omicidio aggravato della figlia neonata dell'A. , ferma la custodia cautelare di quest'ultima per il diverso delitto di soppressione di cadavere, di cui all'art. 411 cod. pen., poiché gravemente indiziata di aver gettato la neonata in un cassonetto. 
Secondo l'ipotesi accusatoria, il R. , infermiere presso l'AUSL di Viterbo (presidio ospedaliero ....), tramite falsificazione di prescrizione medica del farmaco Cytotec, allestita con la firma apparente del dott. Q. , aveva procurato all'A. il detto medicinale, che, ingerito dalla stessa, ne aveva accelerato il parto al settimo mese di gravidanza e, insieme, avevano cagionato la morte della neonata, subito dopo il parto, avvenuta per sofferenza fetale/neonatale su base ipoannossica, in attuazione del comune piano di sopprimere la neonata, bisognosa di assistenza e cure per il parto prematuro provocato, facendole mancare ogni soccorso; con la circostanza aggravante dei motivi abietti e futili consistiti nell'esigenza della A. di continuare la propria attività di "dama di compagnia" (così testualmente l'imputazione provvisoria) presso il Night Club "Star Night", altrimenti ostacolata dalla necessità di accudire la nascitura.
Ad avviso del Tribunale, correttamente il Giudice per le indagini preliminari aveva ritenuto l'inesistenza di gravi indizi di colpevolezza dell'omicidio volontario per mancanza di elementi probatori sulla circostanza che la bambina fosse nata viva e non fosse, invece, deceduta prima del parto. 
Il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, prof. B.M. , non aveva infatti riscontrato segni polmonari di avvenuta respirazione della neonata (negatività della docimasia idrostatica) e la stessa A. aveva dichiarato di non aver udito piangere la bambina né di averla vista respirare al momento dell'espulsione, sicché non poteva escludersi, secondo il Tribunale, che la piccola fosse nata già morta. 
2. Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo, il quale deduce due motivi. 
2.1. Il primo motivo articola l'erronea applicazione della legge penale. 
L'ordinanza impugnata, pur richiamando le cause della morte indicate dal consulente del pubblico ministero, il quale sostiene, testualmente, che "è realistico ritenere che si versi nell'ambito di una morte intra-peri-partum, intervenuta cioè nelle ultime fasi del parto o immediatamente dopo", deduce erroneamente che non vi sarebbe certezza che la neonata fosse nata viva e fosse stata volontariamente soppressa dagli indagati. 
Secondo il ricorrente, che richiama la giurisprudenza di questa Corte al riguardo, la vita autonoma del feto inizia con la rottura del sacco che contiene il liquido amniotico e si raggiunge nel momento iniziale del travaglio, allorché il feto non è ancora autosufficiente. 
La morte intervenuta, secondo il consulente, nella fase intra-peri-partum era, dunque, coerente con l'ipotesi accusatoria di omicidio volontario riconducibile all'accordo criminoso tra l'A. ed il R. per accelerare farmacologicamente il parto, determinare la nascita di un feto in sofferenza, e non impedirne la morte facendogli mancare le cure e l'assistenza necessarie alla sopravvivenza. 
L'assenza di segni polmonari di avvenuta respirazione, rilevata dal consulente, non contrasterebbe col fatto che la morte si era verificata nella fase del parto; lo stesso consulente, infatti, aveva indicato i segni di vita del feto per la riscontrata presenza, sulla vittima, di "una circoscritta area di imbibizione ed ematosa del tegumento cranico in regione parietale sinistra (tumore da parto), oltre che di petecchie polmonari e cardiache significative dello stato di vita del bambino". 
Secondo il pubblico ministero ricorrente, quindi, la corretta applicazione della norma penale avrebbe dovuto muovere dal riconoscimento della vita autonoma del feto nel momento iniziale del travaglio e approdare alla qualificazione dell'attività diretta alla sua soppressione, in assenza dell'elemento specializzante di cui all'art. 578 cod. pen. (condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto), come omicidio volontario ai sensi dell'art. 575 cod. pen.; con esclusione, altresì, della possibilità di ridurre la condotta del R. a quella di procurato aborto prevista dall'art. 19 della legge n. 194 del 1978, poiché lo stesso non si sarebbe limitato a procurare all'A. il farmaco per accelerare il parto, ma avrebbe partecipato con lei all'intero piano criminoso diretto ad anticipare la fine della gravidanza e a provocare la morte della nascitura, facendole mancare le cure e l'assistenza necessarie. 
2.2. Con il secondo motivo il pubblico ministero lamenta la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, avendo il Tribunale, da un lato, affermato, seguendo il consulente, che la morte avvenne verosimilmente intra partum a causa di asfissia, ovvero nella fase di transizione che va dal momento in cui inizia il distacco del feto dall'utero materno a quello in cui il neonato acquista vita autonoma, e, dall'altro, negato la vitalità della vittima allorché fu attuata l'ipotizzata condotta omicidiaria. 
Parimenti illogica e contraddittoria sarebbe la deduzione della non vita della nascitura dalla circostanza che la madre non udì piangere la bambina né la vide respirare al momento dell'espulsione, tenuto conto che, secondo la ricostruzione accusatoria, al feto furono deliberatamente negate, subito dopo il parto, le cure e l'assistenza necessarie per consentirne la sopravvivenza. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso merita di essere accolto nei limiti che seguono. 
1.1. Il primo motivo è infondato poiché la pretesa violazione di legge postula una ricostruzione del fatto, a livello indiziario, opposta rispetto a quella sostenuta dal Tribunale nell'ordinanza impugnata. 
Il giudice cautelare, infatti, pone a base delle sue valutazioni il dubbio sulla non vita del feto già nella fase del travaglio del parto, escludendo dunque un evento morte in relazione causale con la condotta degli indagati, che, secondo l'ipotesi accusatoria, si sarebbe articolata in due fasi: la prima, attiva, di accelerazione farmacologica del parto e la seconda, omissiva, di non prestate cure alla neonata. 
Ed è chiaro che, avendo assunto a base del suo ragionamento l'insufficienza indiziaria sul tempo di verificazione della morte e, conseguentemente, sul nesso causale tra esso e la condotta degli indagati, il Tribunale non è incorso in alcun errore giuridico per avere escluso la configurazione del fatto come omicidio volontario e per aver prospettato la ricorrenza del meno grave reato di aborto illegale, di cui all'art. 19 della legge 22/05/1978, n. 194. 
1.2. È, invece, fondato il secondo motivo che denuncia la contraddittorietà della motivazione. 
Essa emerge con evidenza dal testo dell'ordinanza impugnata, la quale, da un lato, riporta le conclusioni del consulente del pubblico ministero, ritenendole attendibili, laddove collocano la morte del feto nelle ultime fasi del parto o immediatamente dopo l'espulsione, accreditandone quindi la vitalità anche per la riscontrata presenza, pur sottolineata dall'esperto e testualmente trascritta nell'ordinanza, di "petecchie polmonari e cardiache significative dello stato di vita della bambina"; e, dall'altro, sostiene invece che il feto fosse già morto prima del parto per mancanza di segni polmonari di avvenuta respirazione e assenza di pianto non avvertito dalla madre, senza valutare la compatibilità di tali elementi con quelli come sopra rilevati dal consulente a favore della vitalità della neonata, seppure non autosufficiente e sofferente per il parto prematuramente indotto. 
2. Segue l'annullamento dell'ordinanza impugnata per contraddittorietà e lacuna della motivazione e il rinvio degli atti per nuovo esame al Tribunale di Roma, il quale provvederà uniformandosi a questa sentenza, evitando di ricadere nel rilevato vizio di motivazione. 

P.Q.M. 

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Roma.