mercoledì 31 luglio 2013

stranieri irregolari, la pronuncia della Cassazione

Stranieri irregolari: sussiste la scriminante di cui all’art. 51 c.p. (esercizio di un diritto) nel caso di pubblicazioni di nozze con un cittadino italiano – Cass. Pen. 32859


Cass. Pen., Sez. I, 29 luglio 2013 (ud. 24 giugno 2013), n. 32859
Presidente Siotto, Relatore Bonito
Depositata il 29 luglio 2013 la sentenza numero 32859 della prima sezione penale in tema di permanenza nel territorio dello Stato di stranieri irregolari.
In particolare, la Corte ha stabilito che deve considerarsi legittima la permanenza di un soggetto extracomunitario nel territorio dello Stato qualora, pur in mancanza di documenti validi, siano in corso le pubblicazioni del matrimonio con un cittadino italiano.
Nella vicenda in questione, l’imputato era stato condannato dal giudice di pace di Rapallo alla pena di 5.000,00 € di ammenda per essere stato trovato senza permesso di soggiorno nell’agosto del 2011; ha poi proposto ricorso per Cassazione tramite il difensore di fiducia sostenendo come egli si stesse accingendo a contrarre matrimonio con una cittadina italiana (matrimonio poi effettivamente celebrato nel settembre 2011).
Pertanto – sosteneva il ricorrente – la condotta sarebbe scriminata dalla causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., ossia l’esercizio del diritto a contrarre matrimonio.
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato.
I giudici di legittimità – dopo aver osservato come le pubblicazioni di matrimonio fossero effettivamente anteriori rispetto al controllo della Polizia – hanno affermato che il matrimonio con la cittadina italiana avrebbe consentito all’imputato la legittima permanenza sul territorio dello Stato.
Appare, quindi, fondato il richiamo difensivo all’art. 51 c.p.: non vi sono dubbi – osserva la Cassazione – che il diritto di contrarre matrimonio rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 51 c.p.; l’imputato, infatti, si trovava sul territorio dello Stato al fine di esercitare un suo diritto (poi effettivamente esercitato).
Sarebbe, infatti, illogico che il nostro ordinamento consentisse l’esercizio di tale diritto ma, al tempo stesso, sanzionasse condotte finalizzate ad esercitare lo stesso.
In conclusione, non commette reato – ossia non viola l’art. 10bis del D.Lgs. 286/1998 - il cittadino extracomunitario che abbia fatto ingresso e si sia trattenuto nel territorio italiano al fine di esercitare un diritto riconosciuto dall’ordinamento, anche se non in possesso dei documenti validi per tale ingresso e successivo trattenimento.

Concorso esterno in associazione. Il caso Dell'Utri.

1. Il punto sui principi di diritto in materia di concorso esterno in associazione mafiosa. A questo proposito, la sentenza in esame osserva anzitutto che "sul tema della configurabilità, in linea di principio, del concorso esterno in associazione per delinquere semplice e poi, a partire dal 1982, di stampo mafioso non sono stati sollevati dubbi dogmatici neppure dalla difesa né vi è motivo di sollevare specifiche perplessità" (pag. 110). Per ciò che concerne gli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa non si segnalano particolari novità rispetto agli approdi della più recente giurisprudenza di legittimità, la pronuncia in parola sostanzialmente ribadendo quanto già affermato dalle Sezioni Unite, da ultimo, con la sentenza Mannino. Sotto il profilo oggettivo, la Corte di Cassazione conferma la necessità, ai fini della configurazione del reato, che la pubblica accusa fornisca la dimostrazione che la condotta dell'imputato ha determinato "la conservazione o il rafforzamento dell'associazione", a nulla rilevando, peraltro, la circostanza che l'associazione avrebbe potuto raggiungere il medesimo risultato vantaggioso anche senza l'apporto fornito dall'agente (pag. 114-115). L'elemento soggettivo, invece, viene ricostruito, ancora una volta in linea con le indicazioni della sentenza Mannino, come dolo diretto, nel senso "della coscienza e volontà, che l'agente deve avere, di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato" (pag. 124). Osservano in particolare i giudici di legittimità che "occorre che il dolo investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell'agente alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione, agendo il soggetto, nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio" (pag. 124). Nella sentenza si precisa altresì che "non rileva accertare perché l'agente abbia agito nel modo rilevante ex art. 110 e 416 o 416 bis cp", essendo al contrario "sufficiente e decisivo dimostrare, con ragionamento completo e logico, quello che le Sezioni Unite hanno definito il 'doppio coefficiente psicologico', ossia quello che deve investire, perché possa dirsi sussistente il reato, il comportamento dell'agente e la natura di esso come contributo causale al rafforzamento dell'associazione" (pag. 123). Alla luce di tali osservazioni, appare allora "evidente che non può esservi spazio per la figura del 'dolo eventuale', esplicitamente esclusa nella sentenza delle SSUU del 2005 - come esattamente sottolineato anche dalla difesa e dal Procuratore Generale - così però come deve negarsi spazio alla figura del 'dolo intenzionale'", che pure era stata evocata dal Cons. Iacoviello nella requisitoria, e che invece attiene "a figure di reato come l'abuso di ufficio ove il legislatore, facendo ricorso all'avverbio 'intenzionalmente' ha espresso la necessità che l'evento del reato sia oggetto di rappresentazione e volizione come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito" (pag. 124). Viene infine in rilievo la natura del delitto in parola, a proposito della quale la Suprema Corte afferma che "il reato di concorso esterno in associazione per delinquere oppure in quella specificatamente mafiosa si atteggia, al pari della partecipazione, di regola, come reato permanente" (pag. 116). I giudici di legittimità si soffermano, in particolare, sull'ipotesi in cui taluno si faccia promotore di un accordo con il sodalizio criminale - accordo che può consistere nella promessa di un aiuto elettorale in cambio di favori da parte del candidato eletto grazie ai voti della mafia, così come nell'offerta di protezione a un imprenditore in cambio del pagamento di somme di denaro (ciò che per l'appunto è avvenuto nel caso di specie) -, e affermano che, sebbene la stipulazione dell'accordo ben possa assurgere ex se a momento consumativo del reato (pag. 117), "tuttavia - ed a prescindere dai rilievi di parte della dottrina sulla figura del reato 'eventualmente' permanente - fintantoché il concorrente esterno protragga volontariamente la esecuzione dell'accordo che egli ha propiziato e di cui quindi si fa, di fatto, garante, presso i due poli dei quali si è detto, si manifesta il carattere permanente del reato che ha posto in essere, evenienza che la giurisprudenza riassume nella locuzione secondo cui 'la suddetta condotta partecipativa (esterna) si esaurisce, quindi, con il compimento delle attività concordate'" (pag. 117-118). 2. Le censure contro la sentenza della Corte d'appello di Palermo. Alla luce di tali premesse, si tratta a questo punto di osservare più da vicino quanto affermato dalla Corte di Cassazione con specifico riferimento al contenuto della sentenza pronunciata dalla Corte d'appello di Palermo. 2.1 Correlazione tra accusa e sentenza e sulla (presunta) assenza dell'imputazione: infondatezza delle relative censure. A questo proposito, va subito messo in luce che le censure formulate dai giudici di legittimità non hanno investito la struttura complessiva della sentenza di merito, non avendo trovato accoglimento i motivi di ricorso di respiro più generale che erano stati formulati dalla difesa dell'imputato e ripresi dal Procuratore Generale della Cassazione. Si fa riferimento, in particolare, all'asserita violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, contestata in origine dalla difesa di Dell'Utri e ripresa in sede di requisitoria dal Cons. Iacoviello, il quale - com'è noto - ha duramente stigmatizzato il lavoro dei Giudici palermitani, affermando, in estrema sintesi, che "in questo processo la cosa più difficile è trovare l'imputazione". Ebbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto entrambe le doglianze infondate, in ragione del fatto che "Dell'Utri è stato tratto a giudizio per rispondere del concorso esterno nella associazione criminosa, che agiva con metodi mafiosi, capeggiata da Bontade, fino a Riina, avvalendosi, sin da prima del 1982, dei poteri che gli derivavano dalla sua importante posizione nel mondo imprenditoriale e intrattenendo rapporti (evidentemente, di rilievo penale) con Bontade, Teresi, Pullarà, Mangano, Cinà e numerosi altri, che gli avevano consentito di far rafforzare il sodalizio, da un lato, influenzando, dall'altro, 'individui' operanti nel mondo finanziario e imprenditoriali ed è stato condannato, in primo luogo, proprio per aver determinato il suddetto rafforzamento, con riferimento alla cronologia, al sodalizio e alle figure di vertice individuate nella imputazione, esercitando i poteri di influenza che gli derivavano dalla precisa collocazione nel mondo imprenditoriale dell'epoca e dei rapporti personali con i detti vertici di cosa nostra in almeno un incontro [...] di pianificazione, conseguendo un risultato concreto, cioè quello dell'esborso, da parte dell'area Fininvest, di somme cospicue, versate reiteratamente - esso stesso tramite - per almeno un certo numero di anni alla consorteria criminale e mafiosa Cosa nostra". Insomma, dicono i giudici, "non è chi non veda [...] come il fatto ritenuto in sentenza non è 'altro', non è 'diverso' da quello contestato (il quale, a sua volta, non è affatto mancante, diversamente da quanto affermato dal PG di udienza)" (pag. 90-91). 2.2. Il 'cuore' della sentenza: la valutazione della Cassazione sulla responsabilità del Sen. Dell'Utri per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. Veniamo, a questo, a esaminare quello che costituisce il vero e proprio "cuore" della sentenza in parola, ovverosia la parte in cui i giudici di legittimità vagliano la logicità della motivazione della pronuncia impugnata sotto il profilo della ricostruzione probatoria dei comportamenti dell'imputato che sono stati ritenuti idonei a integrare il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. Com'è noto, la sentenza d'appello aveva ritenuto che la condotta di illecita contiguità ai vertici di Cosa nostra da parte di Dell'Utri si fosse protratta per quasi un ventennio, dal 1974 al 1992. Ebbene, la Corte di Cassazione suddivide quest'arco temporale in tre diversi periodi - un primo periodo, dal 1974 al 1977; un secondo periodo, dal 1978 al 1983; un terzo periodo, dal 1983 al 1992 - e, in estrema sintesi, afferma che: - per il primo periodo (1974-1977), la Corte d'appello ha adeguatamente motivato la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di cui agli artt. 110 e 416 c.p.; - per il secondo periodo (1978-1983), nella motivazione della sentenza di merito mancano argomenti sufficienti a dimostrare sia l'elemento oggettivo sia l'elemento soggettivo del concorso esterno contestato all'imputato; - per il terzo periodo (1983-1992), la sentenza d'appello motiva adeguatamente solo con riferimento all'elemento oggettivo del reato, mancando, al contrario, la logica dimostrazione in merito alla sussistenza del dolo richiesto al concorrente esterno. 2.2.1 Le statuizioni della Cassazione sul periodo 1974-1977. La Corte di Cassazione conferma la sentenza impugnata nella parte in cui quest'ultima aveva ritenuto sussistente la prova che Dell'Utri, nel 1974, avesse promosso un incontro tra Berlusconi e gli allora vertici di Cosa nostra (i boss Bontade e Teresi), nel corso del quale sarebbe stato raggiunto un accordo in forza del quale il sodalizio criminale avrebbe offerto protezione alla famiglia di Berlusconi in cambio della dazione periodica, per il tramite dello stesso Dell'Utri, di cospicue somme di denaro. Non solo. I giudici di legittimità affermano altresì che la Corte d'appello ha correttamente motivato anche in merito alla sussistenza della prova che, una volta concluso il suddetto patto, Berlusconi avrebbe effettivamente provveduto a effettuare i pagamenti concordati a favore di Cosa nostra; e che sarebbe stato lo stesso Dell'Utri a occuparsi di far pervenire le somme di denaro all'associazione mafiosa. Nessun dubbio, peraltro, secondo la Cassazione, sulla penale rilevanza ai sensi degli artt. 110 e 416 c.p. dei comportamenti posti in essere da Dell'Utri: "è infatti indubbio e costituisce espressione del concorso esterno da parte dell'imputato nella associazione criminale denominata Cosa nostra, facente capo - per quello che qui interessa - nella metà degli anni '70, anche a Bontade e Teresi, il comportamento consistito nell'avere favorito e determinato - avvalendosi dei rapporti personali di cui già a Palermo godeva con i boss [...] e di una amicizia in particolare che gli aveva consentito di caldeggiare la propria iniziativa con speciale efficacia presso quelli - la realizzazione di un incontro materiale e del correlato accordo di reciproco interesse, tra i boss mafiosi - nella loro posizione rappresentativa - e l'imprenditore amico (Berlusconi)" (pag. 113) Correttamente, dunque, "la Corte territoriale valorizza e impernia la propria decisione sul rilievo dell'attività di 'mediazione' che Dell'Utri risulta aver svolto nel creare il canale di collegamento o, se si vuole, di comunicazione e di transazione che doveva essere parso, a tutti gli interessati e ai protagonisti della vicenda, fonte di reciproci vantaggi per i due poli: il vantaggio, per l'imprenditore Berlusconi, della ricezione di una schermatura rispetto a iniziative criminali (essenzialmente sequestri di persona) che si paventavano a opera di entità delinquenziali non necessariamente e immediatamente rapportabili a Cosa nostra o quanto meno alla articolazione palermitana di Cosa nostra di cui veniva, in quel frangente, sollecitato l'intervento, e quello di natura patrimoniale per la stessa consorteria mafiosa" (pag. 113). In sintesi: "i giudici hanno adeguatamente rappresentato come la condotta dell'agente, riferita agli anni che vanno dal 1974 fino alla fine del 1977, abbia costituito un antecedente causale quantomeno della conservazione, se non del rafforzamento del sodalizio criminoso Cosa nostra, posto che tale sodalizio si fonda notoriamente sulla sistematica acquisizione di proventi economici che utilizza per crescere e moltiplicarsi e anche per il mantenimento della sua stessa 'forza lavoro' e quindi della organizzazione attraverso la quale opera e si rafforza. Ed è indubbio che l'accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell'Utri, con il sinallagma dei pagamenti sistematici in favore di Cosa nostra, vada a inserirsi in un rapporto di causalità, nella realizzazione dell'evento del finale rafforzamento di Cosa nostra, dovendosi anche escludere rilievo al fatto che Cosa nostra comunque si arricchisce di mille altri affari anche più lucrosi" (pag. 115-116). Per ciò che concerne l'elemento soggettivo, poi, la Cassazione ritiene che la circostanza che il Dell'Utri avesse promosso l'incontro di Milano del 1974 con i capi mafiosi, e che lo stesso imputato negli anni successivi si fosse più volte incontrato con altri personaggi di spessore mafioso, siano "ampiamente dimostrativ[e], sul piano logico, anche del fatto che il ricorrente avesse accettato di risultare aderente al fine perseguito dal sodalizio, il quale traeva il vantaggio patrimoniale finale dall'intera operazione" (pag. 126). In altre parole, i giudici di legittimità ritengono che la Corte d'appello, "citando le circostanze dei significativi incontri tra Dell'Utri e soggetti di vertice di quel sodalizio", abbia adeguatamente motivato circa la sussistenza, in quest'arco temporale, di "un genere di dolo che [...] appare connotato [...] dalla consapevolezza e volontà che la condotta in questione si sarebbe posta nella linea del perseguimento dei fini ultimi della associazione criminale" (pag. 125). Prima di spostare l'attenzione sul secondo periodo preso in considerazione dalla sentenza qui in esame, merita sottolineare come i giudici di legittimità abbiano ritenuto infondato l'argomento centrale sul quale si era imperniata la critica del Cons. Iacoviello alla sentenza di secondo grado, e che suonava sostanzialmente così: dal momento che Berlusconi era stato costretto a pagare soldi a Cosa nostra in quanto vittima di un'estorsione, o si ipotizza che Dell'Utri abbia concorso nell'estorsione ai danni del suo amico imprenditore - ciò che tuttavia la Procura di Palermo non ha ritenuto di ipotizzare - oppure si deve giungere alla paradossale (e illogica) conclusione secondo cui l'imputato "ha posto in essere una condotta che è un quid minus rispetto all'estorsione ma è sufficiente a integrare il concorso esterno" (pag. 3 degli appunti della requisitoria del Cons. Iacoviello). Orbene, la Corte di Cassazione ritiene che il ragionamento formulato dal Procuratore Generale sconti un vizio di fondo, ovverosia l'erronea convinzione che nel caso di specie ci si muova all'interno di una vicenda estorsiva. Al contrario, dicono i giudici di legittimità, i fatti così come ricostruiti dalla Corte d'appello (secondo una ricostruzione ritenuta logica e in quanto tale non censurabile) dimostrano inequivocabilmente che Cosa nostra - grazie all'intermediazione di Dell'Utri - aveva concluso con Berlusconi un accordo che non era "connotato e tantomeno sollecitato da proprie iniziative intimidatorie", ma era piuttosto "finalizzato alla realizzazione di evidenti risultati di arricchimento: un patto che, peraltro, risentiva di una certa, espressa [...] propensione dell'imprenditore Berlusconi a 'monetizzare', per quanto possibile, il rischio cui era esposto e a spostare sul piano della trattativa economica preventiva, l'azione delle fameliche consorterie criminali che invece si proponevano con annunci intimidatori" (pag. 113). In altre parole, dice la Suprema Corte, "non vi è ragione di negare ingresso alla tesi dei giudici secondo cui i pagamenti effettuati da Berlusconi avevano, sì, natura necessitata perché ingiustamente provocati, all'origine, da spregevoli azioni intimidatorie poste in essere in danno della sua famiglia, ma non l'avevano avuta - ai tempi - in riferimento ai rapporti con Dell'Utri e con Bontade e Teresi e l'associazione che essi immediatamente rappresentavano: soggetti, dunque, che erano stati evocati in una trattativa che, all'origine, appariva concepita 'alla pari', per il conseguimento di un risultato che, così come avrebbe potuto e dovuto essere perseguito presso le istituzioni all'uopo previste, era stato invece cercato presso chi era parso capace di garantire un servizio di sicurezza di tipo privato e particolarmente efficace e affidabile". 2.2.2 Le statuizioni della Cassazione sul periodo 1978-1982. La Corte di Cassazione censura invece la sentenza impugnata laddove questa afferma - senza adeguata motivazione, dicono i giudici di legittimità - che l'imputato avrebbe continuato a svolgere il ruolo di "mediatore" tra Berlusconi e Cosa nostra anche negli anni 1978-1982, sebbene in questo periodo il Dell'Utri si fosse momentaneamente allontanato dall'area imprenditoriale di Berlusconi per svolgere un'esperienza lavorativa alle dipendenze di un altro imprenditore (Rapisarda). Sul punto, la sentenza afferma in particolare che "i giudici dell'appello non hanno tenuto conto o comunque non hanno motivato sulle ragioni in base alle quali una prima fase di cessazione [della condotta illecita] non possa essere individuata nel periodo 1978-1982) durante il quale Dell'Utri non era rimasto più alle dipendenze dell'imprenditore in favore del quale il patto di mafia era stato stipulato". "Il vuoto argomentativo", si legge ancora, "si traduce in un evidente vizio della motivazione che la difesa, sostenuta poi dal Procuratore Generale di udienza, ha denunciato fondatamente: un vuoto che necessita di essere colmato, ove ne ricorrano gli elementi, con specifiche indicazioni di quale sia stato il comportamento, nel periodo, da parte di Dell'Utri, non potendo darsi ingresso a presunzioni basate sulla bontà dei rapporti di amicizia con Berlusconi: rapporti che da soli non provano il perdurare della intromissione di Dell'Utri in affari penetranti per la vita individuale dell'imprenditore dal quale si era allontanato, atteso che di ciò non risultano esplicitate neppure la ragione e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono comunque avvenuti, materialmente dunque anche ad opera di terzi, a partire dal 1978" (pag. 118). 2.2.3 Le statuizioni della Cassazione sul periodo 1983-1992. La Suprema Corte censura infine la sentenza d'appello anche nella parte in cui essa afferma la responsabilità di Dell'Utri per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa con riferimento al periodo che va dal 1983 (anno in cui l'imputato torna alle dipendenze di Berlusconi) al 1992 (anno in cui, secondo la ricostruzione dei giudici della Corte d'appello di Palermo, sarebbero cessati i pagamenti di Berlusconi a Cosa nostra). Va peraltro evidenziato come i giudici di legittimità mettano in luce che la sentenza di merito, con riguardo all'arco temporale in oggetto, "non si espone a censure per quanto concerne la affermazione della effettività della protrazione dei pagamenti" (pag. 121) al sodalizio criminoso da parte di Berlusconi per mezzo di Dell'Utri - pagamenti che, peraltro, a questo punto non erano più finalizzati a proteggere la famiglia Berlusconi, bensì a consentire a quest'ultimo di svolgere senza danni la propria attività imprenditoriale sul territorio siciliano - ma non offre adeguata motivazione circa la sussistenza in capo a quest'ultimo del dolo richiesto al concorrente esterno. In tema di elemento soggettivo, la Cassazione afferma infatti che i giudici di merito non avrebbero tenuto in debito conto il "sostanziale mutamento degli equilibri esistenti quando si era raggiunto l'accordo del 1974, dovendosi registrare, nel 1981, la morte violenta o per lupara bianca dei vertici mafiosi (Bontade e Teresi) che quell'accordo avevano stipulato - rendendosene garanti - con il successivo avvento di una direzione del sodalizio caratterizzata notoriamente dalla 'cifra' notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito, della stagione stragista" (pag. 122). La Corte territoriale, in particolare, avrebbe trascurato del tutto "quello che apparirebbe un rapporto estremamente teso tra Dell'Utri riluttante ai pagamenti e i vertici mafiosi del dopo-Bontade, in particolare i Pullarà descritti come fonti di vessazione dall'interlocutore (lo 'tartassavano') e poi Riina autore di repliche perentorie e/o di attentati" (pag. 122). Alla luce di tali considerazioni, i giudici di legittimità ritengono che "il dolo del reato in esame, così come apprezzato in relazione ai comportamenti dell'imputato fino agli inizi del 1978, non ha formato oggetto di una disamina ugualmente convalidabile per il periodo successivo". Per ciò che riguarda, nello specifico, l'arco temporale che decorre dal ritorno dell'imputato alle dipendenze di Berlusconi, "i comportamenti riluttanti di Dell'Utri verso Cosa nostra nonché gli attentati realizzati ai danni di beni privati e inerenti alla attività di Berlusconi, richiedono una valutazione e una motivazione non solo parcellizzante ma anche [...] unitarie e complessive: tali cioè da dare il senso compiuto, sul piano argomentativo, di elementi probatori e normativi apparentemente contrapposti. Da un lato, cioè, la registrazione di una condotta, da parte di Dell'Utri, che si risolve, oggettivamente, in un arricchimento di Cosa nostra ma che, negli anni '80 appare divenuta riottosa e recalcitrante, oltre che punteggiata da recriminazioni e atteggiamenti ostruzionistici nei riguardi degli esponenti o emittenti del sodalizio e per giunta in un contrappunto alquanto equivoco con gli attentati anche dinamitardi dalla evidente carica intimidatoria. Dall'altro lato, il rigore della prova del dolo diretto che non ammette presunzioni e che richiederebbe che, anche in ordine ai comportamenti appena rievocati, potesse darsi una spiegazione compatibile e in linea con la tesi di avere Dell'Utri accettato e perseguito l'evento del rafforzamento del sodalizio mafioso, recando un contributo alla realizzazione del programma comune" (pag. 127). In estrema sintesi, la Corte di Cassazione ritiene che gli elementi di fatto messi in luce nella sentenza della Corte d'appello palermitana per il periodo 1983-1992 dimostrerebbero che, a seguito del mutamento dei vertici di Cosa nostra verificatosi nel 1981 (quando i corleonesi presero il comando dell'associazione mafiosa, subentrando con la violenza a Bontade e Teresi), i rapporti tra questi ultimi e l'imputato si sarebbero fatti più tesi, e, in particolare, sarebbe venuta meno quella "comunione di intenti" che si era invece registrata nel periodo 1974-1978. A ben vedere, dunque, è proprio questa "comunione di intenti" con il sodalizio criminale ad assurgere, nell'ottica della Corte di Cassazione, a elemento decisivo e imprescindibile per poter ritenere sussistente il dolo diretto richiesto dal delitto di concorso esterno in associazione mafiosa e, nel caso di specie, a determinare gli esiti opposti del giudizio di legittimità in merito alla sussistenza del reato in capo all'imputato con riferimento, da un lato, al periodo 1974-1978, e, dall'altro lato, al successivo periodo 1983-1982. Se e in che misura una simile lettura - che sembra subordinare la sussistenza del dolo del concorrente esterno non solo alla certezza che il proprio comportamento avrà come effetto quello di determinare la conservazione e/o il rafforzamento dell'associazione, bensì anche a una vera e propria condivisione, anche a livello "emotivo", delle finalità perseguite dal sodalizio criminale - sia davvero coerente con la premessa in diritto secondo cui ai fini del riconoscimento del concorso esterno sarebbe sufficiente un "dolo diretto", ricostruito secondo le cadenze di cui si è detto poc'anzi, sarà evidentemente compito dei commentatori di questa sentenza esplorare..

processo mediaset

Processo mediaset: oggi o domani la sentenza 31 luglio 2013 Conto alla rovescia per il processo Mediaset: bisognerà attendere oggi pomeriggio o domani per conoscere la sentenza della Cassazione. Queste le tappe principali della vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto l’ex Premier Silvio Berlusconi: dopo essere stato condannato in primo grado il 26 ottobre 2012 dal Tribunale di Milano a quattro anni di reclusione e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, l’8 maggio 2013 la sentenza è stata confermata dalla Corte d’Appello di Milano. L’accusa – che ha visto la cd. “doppia conforme” in primo grado e in appello – è quella di di frode fiscale in presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv e cinematografici da parte di Mediaset. Contro la pronuncia della Corte di Appello di Milano, gli avvocati dell’ex premier l’ On. Nicolò Ghedini e il Prof. Franco Coppi - recentemente subentrato a Piero Longo – hanno presentato ricorso in Cassazione. Nell’udienza di ieri si è avuta la requisitoria del procuratore generale, il quale ha chiesto la condanna per l’imputato sostenendo come in tale vicenda «siano presenti tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato di frode fiscale ascritta agli imputati». Oggi la parola è passata alle difese. Sentenza oggi pomeriggio o domani; prevediamo di aggiornare il portale con il dispositivo non appena verrà reso noto dai giudici; per conoscere le ragioni della pronuncia si dovrà attendere, naturalmente, il deposito delle motivazioni.

l'avvocato del diavolo

http://www.youtube.com/watch?v=TkorAPlr3wI

Giurisprudenza


Donna scarcerata con un ritardo di 62 giorni. A nulla rilevano le gravi carenze organizzative: magistrati ammoniti.

Martedì 30 Luglio 2013, 19.46

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 9 - 29 luglio 2013, n. 18191
Presidente Rovelli – Relatore Forte

Premesso in fatto

La dr.sa F..G. e il dr. Gu.Pa. , rispettivamente giudice per le indagini preliminari e sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, con sentenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (da ora: C.S.M.) del 4 dicembre 2012, sono stati dichiarati responsabili dell'illecito disciplinare di cui all'art. 2, lett. g, del D. Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, per "grave violazione di legge determinata da... negligenza inescusabile", per non avere escarcerato una detenuta, nonostante la decorrenza dei termini di carcerazione preventiva.
La sezione disciplinare ha invece escluso la sussistenza dell'illecito previsto nell'art. 2, primo comma, lett. a, costituito dalla violazione dell'art. 1 dello stesso decreto legislativo, per esercizio delle funzioni con negligenza, avendo la prima, quale G.I.P., omesso di scarcerare l'imputata S.Y. e il secondo quale P.M. espresso parere contrario all'istanza di libertà della imputata, chiedendo per la stessa gli arresti domiciliari, dopo che erano scaduti i termini di custodia cautelare.
Il C.S.M. ha irrogato a ciascuno dei due magistrati la sanzione dell'ammonimento, affermando che, nella fattispecie, pur essendosi l'infrazione interamente consumata nel vigore del R.D. Lgs. 31 maggio 1946 n. 511 e dovendosi escludere che il trattamento sanzionatorio per la violazione dell'art. 32 bis del D. Lgs. n. 109 del 2006 fosse più favorevole di quello precedente, questo ultimo andava applicato, perché rendeva l'irrogazione della sanzione più difficile. Infatti la normativa del 2006, a differenza della precedente, collega la sussistenza dell'illecito disciplinare al riscontro dei due elementi di cui alla contestazione, quello "oggettivo" della grave violazione di legge e l'altro "soggettivo" della negligenza inescusabile.
In rapporto alla "gravità" della violazione disciplinare, il C.S.M. ha rilevato che l'omissione degli incolpati era "grave", per avere inciso sul diritto fondamentale (art. 13 Cost.) della libertà personale dell'imputata, della quale ha indebitamente prolungato lo stato di detenzione per sessanta (rectius sessantadue) giorni, così ledendo il diritto costituzionalmente protetto di libertà.
Sul piano soggettivo, il C.S.M. ha rilevato che il requisito della negligenza "inescusabile" incide esso stesso sulla gravità dell'infrazione, perché le carenze soggettive nella condotta omissiva degli incolpati che ha comportato la mancata escarcerazione dell'indagata, erano nella fattispecie macroscopiche e come tali incidevano sulla misura della sanzione da irrogare e non sulla configurazione dell'illecito disciplinare correttamente contestato.
Infatti nel caso la mancata dovuta escarcerazione era effetto di comportamenti omissivi di ambedue gli incolpati che aveva violato il valore più alto garantito dalla Costituzione, quello della libertà personale; pertanto si è escluso che la condotta degli incolpati potesse non qualificarsi come "gravissima", in ragione dei suoi effetti, e si è tenuto conto a tal fine delle due istanze di libertà personale presentate dall'imputata, entrambe rigettate in violazione della normativa sui termini di custodia cautelare dell'indagata S.Y. , le cui istanze di liberazione sono state respinte in contrasto con la normativa di legge.
La violazione di un dovere elementare di diligenza da parte dei due incolpati, si è ritenuta inescusabile e in tal senso sono state considerate irrilevanti le deduzioni difensive dei due magistrati, che potevano incidere solo sulla misura della sanzione, a causa della unicità della condotta disciplinare contestata e accertata e tenendo conto della laboriosità dei due, ma non erano esimenti della responsabilità disciplinare. Il C.S.M. ha quindi irrogato la sanzione dell'ammonimento in ragione della unicità dell'episodio contestato e per la laboriosità e capacità di regola evidenziati dai due incolpati nell'esercizio delle funzioni, rilevando che la omessa trascrizione nel registro generale dello stato di detenzione dell'indagata aveva concorso anche essa a dar luogo alla tardiva scarcerazione, per cui ha irrogato ai due incolpati la sanzione edittale minima dell'ammonimento per le ragioni sopra indicate.
Per la cassazione di tale sentenza della sezione disciplinare del C.S.M. del 4 dicembre 2012, la dr.sa F..G. e il dr. Pa..Gu. hanno ciascuno proposto un ricorso di tre motivi, ognuno illustrato da memorie ex art. 378 c.p.c..

Considerato in diritto

1. Devono preliminarmente riunirsi i ricorsi della G. e del Gu. ai sensi dell'art. 335 c.p.c., per essere impugnazioni proposte sepatamente contro la stessa sentenza. Sempre in via preliminare va rilevato che i ricorrenti lamentano che il C.S.M. ha valutato la loro responsabilità disciplinare come condotta imputabile al sistema giudiziario inteso in senso globale, ritenendo "inescusabili" i loro comportamenti omissivi per il carattere macroscopico degli errori e delle conseguenti omissioni contestate. La sezione disciplinare ha quindi ritenuto che le carenze organizzative degli uffici potevano incidere nella fattispecie solo sulla misura della sanzione, essendo palese la violazione di legge, costitutiva da sola dell'infrazione.
Afferma la sentenza del Consiglio superiore che le due istanze di libertà presentate dall'indagata S.Y. imponevano ai magistrati che le avevano valutate e che sono stati incolpati in questa sede, l'esame della posizione processuale dell'imputata detenuta, la cui omessa escarcerazione costituiva di per sé una "negligenza inescusabile", potendo le giustificazioni addotte dagli incolpati incidere solo sull'entità della sanzione e non sulla sussistenza dell'infrazione disciplinare.
La violazione di legge nell'esercizio delle funzioni degli incolpati e la negligenza nell'omettere la escarcerazione dell'indagata emergevano chiare, anche indipendentemente dalla contestazione della violazione dei doveri di cui all'art. 1 del D. Lgs. n. 109 del 2006.
Per i due incolpati si è riconosciuta la colpa di non avere provveduto alla escarcerazione dell'indagata nei termini di legge, consapevoli che l'assenza di siffatto provvedimento "dovuto" per ben sessantadue giorni, era gravemente lesiva del diritto fondamentale di libertà dell'imputata, garantito dalla Costituzione.
Gli incolpati hanno, ad avviso del C.S.M., omesso il controllo doveroso sulla scadenza dei termini di carcerazione per la indagata, così provocando la proroga illegale della detenzione dopo la scadenza dei termini di questa e violando il diritto fondamentale alla libertà personale di lei.
I due ricorrenti lamentano che, nella fattispecie, è mancato, da parte del C.S.M., l'esame concreto della negligenza, non essendosi considerata la "condotta esigibile in concreto" dai magistrati per la omessa escarcerazione della indagata, da ritenere "diligente" se esaminata in connessione con l'altro requisito richiesto dalla legge per affermare la responsabilità disciplinare degli incolpati, consistente nella inescusabilità della loro condotta, affermando la sentenza impugnata che, nel caso, la negligenza dei magistrati era stata "macroscopica", al punto da escludere in concreto qualsiasi giustificazione dei loro comportamenti. Secondo il C.S.M. il rigetto dai magistrati incolpati delle due istanze di escarcerazione dell'indagata, "si può spiegare solo con una mancata lettura degli atti di giudizio e in particolare delle date di carcerazione".
La sezione disciplinare non ha rilevato la mancanza delle annotazioni sui registri e le carenze organizzative degli uffici di appartenenza, che hanno determinato il rigetto delle istanze di escarcerazione della indagata.
I ricorrenti deducono inoltre, a giustificare la loro condotta, la complessità del procedimento penale con 46 indagati e "consistente in oltre 20 faldoni", la pluralità degli imputati e le difficoltà connesse al loro reperimento, affermando che, degli arresti dell'imputata, non tempestivamente liberata nel periodo pasquale, il dr. Gu. non aveva avuto notizia, per la tardiva trasmissione degli atti del procedimento al suo ufficio, con errore sui termini di liberazione, condiviso dai difensori, dal G.I.P. e dal Tribunale del riesame, circostanze a cui nessun rilievo aveva dato il C.S.M..
Mancando un fascicolo dell'esecuzione provvisoria che poteva esservi ed era anzi consigliato dalla circolare ministeriale del 20 giugno 1990, i gravosi impegni del dr. Gu. potevano rilevare sulla misura della sanzione, in assenza di una giurisprudenza sicura in materia disciplinare sulla infrazione contestata e circa gli elementi costitutivi della stessa contestazione in rapporto alla "negligenza" e alla "inescusabilità" di essa, non potendo dubitarsi della gravità della violazione di legge,lesiva del diritto di libertà. Nella sentenza disciplinare i due elementi della infrazione della negligenza e della inescusabilità della stessa non risultano ben descritti e definiti e per tali profili è censurata la sentenza disciplinare del C.S.M..
1.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione di legge della sentenza del C.S.M. ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. b, del c.p.p., e dell'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per avere falsamente applicato l'art. 2, comma 1, lett. g, del D.Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, nella parte in cui tipicizza la fattispecie disciplinare nella "grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile", leggendola in collegamento con la lettera a di detta norma, che richiama i doveri di diligenza di cui all'art. 1 del citato decreto legislativo.
Affermano i ricorrenti che l'infrazione contestata costituisce illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni e imponeva di conseguenza al C.S.M. la ricostruzione della condotta in concreto esigibile dagli incolpati, per rilevarne la inescusabilità, che è elemento costitutivo della infrazione e della sanzione applicata dell'ammonimento.
Nel ricorso si deduce che la lettura dell'art. 2, lett. g, del D. Lgs. n. 109 del 2006 da parte del C.S.M., ad avviso del quale più grave è la violazione di legge dell'incolpato maggiore è la negligenza dello stesso, è in contrasto con la lettera della norma, che impone invece di tenere distinta la violazione di legge oggettivamente posta in essere dall'incolpato, dalla possibile scusabilità della stessa, costituente esimente dell'illecito disciplinare per ogni caso di violazione disciplinare, qualsiasi sia la sua gravità.
Il collegamento tra carattere "macroscopico" della negligenza e sua inescusabilità si è ritenuto dal C.S.M. ostativo ad ogni giustificazione dell'illecito disciplinare, come si afferma nella sentenza del C.S.M. che sul punto è, ad avviso dei ricorrenti, errata, imponendo comunque la affermazione di responsabilità del magistrato, che invece può, anche in tal caso, giustificare il suo operato in rapporto al contesto organizzativo, funzionale e storico in cui il fatto si è verificato ed è stata tenuta la condotta contestata.
L’incolpato non può rispondere delle violazioni di legge a lui ascritte, se allega cause di giustificazione connesse alla organizzazione dell'ufficio o personali e, nel caso, la sentenza impugnata ha omesso di esaminare in concreto tali cause giustificatrici dedotte dagli incolpati che non avrebbero consentito la esigibilità del comportamento loro addebitato (in tal senso, si citano in ricorso S.U. 13 settembre 2011 n. 18698 e 14 aprile 2011 n. 8488). Le cause di inesigibilità della condotta contestata, pur essendo elencate e riportate nello svolgimento del processo, così come saranno precisate nel terzo motivo di ricorso, non sono state esaminate dalla sezione disciplinare nei motivi della decisione e la sentenza impugnata impedisce l'esercizio della facoltà di eccepire tali cause di giustificazione ai due incolpati, con la impugnazione in questa sede.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione dell'art. 606, comma primo, lett. b, del c.p.p., e dell'art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., dell'art. 1 del D. Lgs. n. 109 del 2006, per avere il C.S.M. erroneamente richiamato il dovere di "diligenza" del magistrato di cui a tale ultima norma del decreto legislativo citato.
Il richiamo doveva essere concreto, in ragione della natura personale delle responsabilità del magistrato e, nella sentenza impugnata, è invece astratto e oggettivo, allorché si addebitano al singolo giudice circostanze che dipendono invece dal modo di organizzare il lavoro degli uffici e dalle condizioni in cui esso si svolge, rilevanti in rapporto alla responsabilità civile per tali disfunzioni degli uffici giudiziari e per le connesse azioni risarcitorie dei danneggiati e non per il procedimento disciplinare.
Il mancato esame della cause di inesigibilità della condotta del magistrato nel caso concreto comporta la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della responsabilità disciplinare dei magistrati nella fattispecie, la quale, come regolata e ritenuta dal C.S.M., comporta una responsabilità di natura oggettiva.
1.3. Viene infine dedotta la omessa motivazione della sentenza impugnata sulle concrete circostanze che avrebbero reso esigibile la condotta non violativa della legge da parte degli incolpati, nella fattispecie concreta, in ragione della scusabilità o inescusabilità della condotta degli stessi non valutata concretamente dalla sezione disciplinare.
Afferma il C.S.M. che dette circostanze sono rilevanti nel caso solo in quanto incidenti sulla entità della sanzione applicabile e non per l'affermazione della esistenza dell'infrazione e della conseguente applicabilità della sanzione.
Le circostanze della indiscussa capacità e laboriosità degli incolpati, della unicità della condotta disciplinarmente rilevante e della omessa trascrizione, nel registro generale, dello stato di detenzione dell'indagata, non risultano valutate come esimenti, per cui, per i ricorrenti, non si è giustificata dal C.S.M. la sanzione in concreto irrogata, potendo gli incolpati essere assolti per l'esistenza di cause giustificatrici della loro condotta.
La mancanza di uno scadenzario per i termini di carcerazione ha giustificato, ad avviso dei ricorrenti, l'omessa annotazione della data di escarcerazione dell'imputata per le gravi carenze organizzative dell'Ufficio G.I.P. di Ancona, non addebitabili ai ricorrenti, dato che la Cancelleria non ha mai tenuto un registro delle scadenze delle singole misure cautelari in concreto applicate.
Nel caso, l'ordinanza di custodia cautelare era stata emessa da altro magistrato nel dicembre 2004 e risultava eseguita in data 22 aprile 2005; di tale esecuzione non s'era data comunicazione al G.I.P. che aveva ordinato l'arresto e che aveva respinto il 18 giugno di quello stesso anno l'istanza di revoca della misura cautelare, essendo poi trasferito ad altro ufficio nel settembre successivo.
La mancata annotazione del termine di custodia in carcere sul fascicolo o sui registri non è imputabile ai magistrati che hanno subito la sanzione disciplinare e di tale circostanza nessun conto ha tenuto il C.S.M., che ha collegato soltanto alla mancata lettura degli atti e delle date di carcerazione, l'omesso provvedimento di dimissioni dal carcere.
Anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio nessuno ha verificato la scadenza del termine di custodia cautelare, la quale è proseguita per altri sessantadue giorni dopo la sua scadenza legale, in danno dell'imputata poi condannata in primo grado e in attesa dell'appello.
Nessuno dei giudici che ha esaminato il processo si è accorto della scadenza dei termini che precede e la mancanza di un magistrato coordinatore ha facilitato tali omessi interventi dovuti dei giudici, incidenti sul bene fondamentale della vita della libertà dell'indagato.
La mancanza di uno dei tre magistrati dell'Ufficio G.I.P., nell'organico previsto per gli uffici giudiziari di Ancona, aveva determinato un raddoppio del lavoro degli incolpati rilevante, secondo i ricorrenti, per la scusabilità dei loro errori.
Il gravoso lavoro espletato dai ricorrenti, che comportava una attività superiore rispetto a quella da loro pretesa, in un contesto di eccellente professionalità da loro evidenziata, non ha giustificato per la infrazione né la G. , anche se questa in quel periodo visse la vicenda personale assai grave della separazione dal marito, con incidenza sulla condotta nel caso, né il Gu. che, nello stesso periodo, aveva perso il padre deceduto in data 29 giugno 2005.
2. Va preliminarmente osservato che le deduzioni introduttive sulla inescusabilità dell'omesso controllo del termine di custodia cautelare nella fase iniziale del processo e della successiva mancata liberazione dell'imputata non sono dedotte come motivi di ricorso.
Tali circostanze non rilevano quindi neanche per i ricorrenti quali esimenti della loro responsabilità disciplinare erroneamente non valutate dal C.S.M., la cui sentenza afferma che detti fatti incidono sulla misura della sanzione e non sulla esistenza dell'infrazione costituita dalla sicura "grave violazione di legge" che la sezione disciplinare ritiene "determinata da... negligenza inescusabile". Pur affermando il C.S.M. che nel caso si è avuta una inescusabilità macroscopica del comportamento dei due magistrati incolpati, in rapporto al bene della vita della libertà personale leso dalla condotta di questi ultimi, tale affermazione rileva solo in rapporto al riconoscimento dalla sezione della evidente "colpa" dei giudici per non avere disposto la scarcerazione alla scadenza dei termini della custodia cautelare.
In tale contesto le stesse circostanze richiamate nel terzo motivo di ricorso, quali la provata e indiscussa capacità e laboriosità dei due incolpati o la unicità dell'episodio contestato e accertato, ovvero la omessa trascrizione dello stato di detenzione dell'indagata, sui fascicoli del processo a quest'ultima, sono state ritenute dal C.S.M. attenuanti della responsabilità degli incolpati incidenti solo sulla concreta sanzione da irrogare, che t in rapporto a tali elementi, è stata quella minima dell'ammonimento (art. 5 del D. Lgs. n. 109 del 2006).
Pertanto le circostanze indicate non costituiscono esimenti dell'infrazione disciplinare contestata ed accertata, ma sono state correttamente valutate come fatti incidenti sulla misura della sanzione in concreto applicata, cioè quella minima dell'ammonimento e per il profilo della censura su tale punto, il ricorso è quindi infondato.
2.1. Va anzitutto rilevato che nessuna obbligatoria connessione vi è tra gli illeciti disciplinari di cui alle lettere g ed a dell'art. 2 del D. Lgs. n. 109 del 2006, come chiarito di recente da queste stesse sezioni unite (S.U. 22 aprile 2013 n. 9691 e 11 marzo 2013 n. 5943).
Come esattamente afferma la sentenza disciplinare impugnata, la condotta omissiva degli incolpati dell'infrazione di cui alla lettera g dell'art. 2 del d.Lgs. n. 109 del 2006, è consistita nella mancata scarcerazione dell'indagata alla scadenza dei termini di custodia cautelare.
Tale comportamento ha costituito una "grave violazione di legge" relativamente al mancato rispetto dei termini di custodia cautelare in carcere dell'imputata (artt. 297 e 303 c.p.p.), derivata da palese "negligenza inescusabile", violativa anche del dovere di "diligenza" dei magistrati nell'esercizio delle funzione di cui all'art. 1, primo comma, del decreto legislativo sugli illeciti disciplinari del 2006.
La omissione ha prodotto alla detenuta un danno ingiusto, perché lesivo del suo diritto alla libertà personale, per essere stata escarcerata con sessantadue giorni di ritardo rispetto alla data di scadenza dei termini di custodia cautelare in carcere (sul tema, cfr. la recente S.U. 3 luglio 2012 n. 11069).
Ogni magistrato è tenuto a vigilare sul permanere delle condizioni cui la legge subordina la privazione della libertà personale dei soggetti da lui indagati, non rilevando, come esimenti di tali condotte violative di un dovere di ufficio, la esistenza di situazioni personali o familiari, salvo la natura eccezionale di queste ultime circostanze che abbia impedito l'ordinario lavoro del magistrato (S.U. 12 gennaio 2011 n. 507).
Nel caso specifico gli incolpati hanno violato il loro dovere di liberare una persona indagata e astretta in carcere, in contrasto con le norme di legge che ne imponevano la liberazione e in violazione dell'art. 2, comma 1, lett. g, del D. Lgs. n. 109 del 2006 (su tale infrazione, tra molte, cfr. S.U. 21 gennaio 2010 n. 968 e le sentenze già citate).
Il primo motivo di ricorso è infondato, essendosi nella fattispecie certamente ed in modo palese violato, dai magistrati ricorrenti in questa sede, il loro dovere di disporre la escarcerazione di una indagata detenuta, con lesione del diritto fondamentale di libertà di questa ultima, trattenuta in carcere oltre i termini di legge.
Sussiste nel caso chiara la condizione di esigibilità della condotta omessa, costituente l'infrazione non giustificabile se non per la esistenza di impedimenti gravissimi, anche in rapporto al diritto alla libertà personale violato in concreto, che impone speciale diligenza nei giudici che hanno il potere di esercitarlo, diligenza totalmente disattesa nella concreta fattispecie.
2.2. Anche il secondo motivo di ricorso, per la parte in cui non è già risolto dal rigetto del primo sulla negligenza dei magistrati incolpati di non avere applicato la norma sui termini della custodia cautelare, così cagionando la lesione del diritto fondamentale alla libertà personale di una imputata detenuta per sessantadue giorni durante i quali era ingiustificata per legge la detenzione, dovendo la indagata essere in stato di libertà, risulta infondato.
Invero nessuna responsabilità "oggettiva" è stata rilevata dal C.S.M. per i magistrati ai quali s'è applicata la sanzione, che sono stati puniti solo per le infrazioni disciplinari colpose, costituite dalla "grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile", per la quale gli incolpati non hanno disposto o hanno dato parere contrario alla escarcerazione di una imputata, dopo la scadenza dei termini di legge della custodia cautelare.
Gli incolpati hanno contestualmente violato le norme regolatrici del processo penale, che dovevano osservare, e leso il diritto di libertà della donna detenuta, escarcerata ben sessantadue giorni dopo quello in cui doveva essere liberata per legge.
Di fronte al diritto fondamentale di libertà in concreto leso, solo una esimente di grande rilievo poteva giustificare la lesione della situazione soggettiva del diritto alla libertà, tutelato direttamente dalla Costituzione (art.13), la cui lesione non risulta neppure adesso giustificata, non costituendo esimente per gli incolpati della ritardata liberazione la capacità e laboriosità dimostrata da loro nelle altre attività giudiziarie né potendo giustificarli la unicità dell'episodio contestato e accertato.
Non esentano dalla responsabilità dei magistrati che hanno concorso a tenere astretta in carcere una persona che non doveva esservi, l'omessa trascrizione dello stato di detenzione dell'indagata con la mancata annotazione nel registro generale della data di cessazione della misura cautelare dell'indagata, che nel caso ha chiesto espressamente di essere liberata.
Si è avuta una lesione del diritto fondamentale alla libertà della detenuta, per la disattenzione o negligenza gravissima degli incolpati che, investiti della decisione sulle richieste di libertà dell'imputata, non potevano non rilevare che erano scaduti i termini di custodia cautelare di legge. Anche se si tratta di un episodio unico, in un contesto di evidenziata capacità e laboriosità degli incolpati, la gravità della infrazione nella fattispecie emerge chiara dalla prodotta lesione del diritto fondamentale di libertà per l'imputata indebitamente trattenuta in carcere per le omissioni negligenti degli incolpati, per cui non può che rigettarsi il secondo motivo di ricorso per la parte in cui non è assorbito dal rigetto del primo.
2.3. Infine le circostanze di fatto indicate nel terzo motivo di ricorso come esimenti della infrazione disciplinare tipizzata e contestata nella specie al G.I.P. e al P.M. che hanno omesso di liberare la indagata, violando la legge, esattamente si è ritenuto che possono incidere solo sul tipo e sulla misura della pena nella concreta fattispecie, in ragione del diritto fondamentale di libertà concretamente leso con condotta non giustificabile con le mere carenze organizzative dedotte in ricorso, essendo dovere specifico del giudice che deve disporre la liberazione dei detenuti verificare con attenzione particolare la legittimità della detenzione e provvedere alla scarcerazione quando non vi siano i presupposti per proseguire lo stato di arresto.
Il giudice, per i rilevanti poteri che deve esercitare sulla libertà degli indagati, è tenuto ad una particolare attenzione la cui violazione, incidendo su un diritto fondamentale direttamente tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, se non necessitata da circostanze di fatto che impediscano in modo assoluto la escarcerazione, che nel caso non si sono neppure dedotte, non può in alcun modo essere giustificata.
La disapplicazione della norma che impone la liberazione dell'indagata può essere giustificata solo da un elemento esterno all'illecito, necessario a delimitarne portata e funzione, cioè da una circostanza che rientri nella categoria delle c.d. "condizioni di esigibilità" dell'ottemperanza al precetto normativo, che impone i termini di carcerazione preventiva nella fase cautelare, oltre i quali la lesione del diritto di libertà diviene ingiustificata ed evidenzia la gravità della violazione di legge in rapporto all'inviolabile diritto fondamentale di libertà tutelato dalla carta costituzionale.
Può quindi enunciarsi il seguente principio di diritto: "Anche a garanzia di un trattamento uniforme di situazioni analoghe e della prevedibilità della sanzione, la disapplicazione dal giudice, su conforme parere del P.M., dei termini previsti dalla legge di custodia cautelare, in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del soggetto trattenuto in carcere oltre i limiti di legge, è "grave" violazione di legge sanzionabile come illecito disciplinare, salvo un'esimente connessa a circostanze di fatto o a provvedimenti che giustifichino la permanenza nella detenzione del soggetto e la sua mancata liberazione, dovendosi attribuire a gravissima negligenza del giudice ogni violazione del diritto di libertà non dovuta a cause eccezionali ovvero già determinate per legge".
Nulla per le spese, non essendosi costituito in questa sede il Ministero della giustizia per resistere alla impugnazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta.