Donna scarcerata con un ritardo di 62 giorni. A nulla rilevano le gravi carenze organizzative: magistrati ammoniti.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 9 - 29 luglio 2013, n. 18191
Presidente Rovelli – Relatore Forte
Premesso in fatto
La dr.sa F..G. e il dr. Gu.Pa. , rispettivamente giudice per le
indagini preliminari e sostituto procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Ancona, con sentenza della sezione disciplinare del
Consiglio Superiore della Magistratura (da ora: C.S.M.) del 4 dicembre
2012, sono stati dichiarati responsabili dell'illecito disciplinare di
cui all'art. 2, lett. g, del D. Lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, per "grave
violazione di legge determinata da... negligenza inescusabile", per non
avere escarcerato una detenuta, nonostante la decorrenza dei termini di
carcerazione preventiva.
La sezione disciplinare ha invece escluso la sussistenza
dell'illecito previsto nell'art. 2, primo comma, lett. a, costituito
dalla violazione dell'art. 1 dello stesso decreto legislativo, per
esercizio delle funzioni con negligenza, avendo la prima, quale G.I.P.,
omesso di scarcerare l'imputata S.Y. e il secondo quale P.M. espresso
parere contrario all'istanza di libertà della imputata, chiedendo per la
stessa gli arresti domiciliari, dopo che erano scaduti i termini di
custodia cautelare.
Il C.S.M. ha irrogato a ciascuno dei due magistrati la sanzione
dell'ammonimento, affermando che, nella fattispecie, pur essendosi
l'infrazione interamente consumata nel vigore del R.D. Lgs. 31 maggio
1946 n. 511 e dovendosi escludere che il trattamento sanzionatorio per
la violazione dell'art. 32 bis del D. Lgs. n. 109 del 2006 fosse più
favorevole di quello precedente, questo ultimo andava applicato, perché
rendeva l'irrogazione della sanzione più difficile. Infatti la normativa
del 2006, a differenza della precedente, collega la sussistenza
dell'illecito disciplinare al riscontro dei due elementi di cui alla
contestazione, quello "oggettivo" della grave violazione di legge e
l'altro "soggettivo" della negligenza inescusabile.
In rapporto alla "gravità" della violazione disciplinare, il C.S.M.
ha rilevato che l'omissione degli incolpati era "grave", per avere
inciso sul diritto fondamentale (art. 13 Cost.) della libertà personale
dell'imputata, della quale ha indebitamente prolungato lo stato di
detenzione per sessanta (rectius sessantadue) giorni, così ledendo il
diritto costituzionalmente protetto di libertà.
Sul piano soggettivo, il C.S.M. ha rilevato che il requisito della
negligenza "inescusabile" incide esso stesso sulla gravità
dell'infrazione, perché le carenze soggettive nella condotta omissiva
degli incolpati che ha comportato la mancata escarcerazione
dell'indagata, erano nella fattispecie macroscopiche e come tali
incidevano sulla misura della sanzione da irrogare e non sulla
configurazione dell'illecito disciplinare correttamente contestato.
Infatti nel caso la mancata dovuta escarcerazione era effetto di
comportamenti omissivi di ambedue gli incolpati che aveva violato il
valore più alto garantito dalla Costituzione, quello della libertà
personale; pertanto si è escluso che la condotta degli incolpati potesse
non qualificarsi come "gravissima", in ragione dei suoi effetti, e si è
tenuto conto a tal fine delle due istanze di libertà personale
presentate dall'imputata, entrambe rigettate in violazione della
normativa sui termini di custodia cautelare dell'indagata S.Y. , le cui
istanze di liberazione sono state respinte in contrasto con la normativa
di legge.
La violazione di un dovere elementare di diligenza da parte dei due
incolpati, si è ritenuta inescusabile e in tal senso sono state
considerate irrilevanti le deduzioni difensive dei due magistrati, che
potevano incidere solo sulla misura della sanzione, a causa della
unicità della condotta disciplinare contestata e accertata e tenendo
conto della laboriosità dei due, ma non erano esimenti della
responsabilità disciplinare. Il C.S.M. ha quindi irrogato la sanzione
dell'ammonimento in ragione della unicità dell'episodio contestato e per
la laboriosità e capacità di regola evidenziati dai due incolpati
nell'esercizio delle funzioni, rilevando che la omessa trascrizione nel
registro generale dello stato di detenzione dell'indagata aveva concorso
anche essa a dar luogo alla tardiva scarcerazione, per cui ha irrogato
ai due incolpati la sanzione edittale minima dell'ammonimento per le
ragioni sopra indicate.
Per la cassazione di tale sentenza della sezione disciplinare del
C.S.M. del 4 dicembre 2012, la dr.sa F..G. e il dr. Pa..Gu. hanno
ciascuno proposto un ricorso di tre motivi, ognuno illustrato da memorie
ex art. 378 c.p.c..
Considerato in diritto
1. Devono preliminarmente riunirsi i ricorsi della G. e del Gu. ai
sensi dell'art. 335 c.p.c., per essere impugnazioni proposte sepatamente
contro la stessa sentenza. Sempre in via preliminare va rilevato che i
ricorrenti lamentano che il C.S.M. ha valutato la loro responsabilità
disciplinare come condotta imputabile al sistema giudiziario inteso in
senso globale, ritenendo "inescusabili" i loro comportamenti omissivi
per il carattere macroscopico degli errori e delle conseguenti omissioni
contestate. La sezione disciplinare ha quindi ritenuto che le carenze
organizzative degli uffici potevano incidere nella fattispecie solo
sulla misura della sanzione, essendo palese la violazione di legge,
costitutiva da sola dell'infrazione.
Afferma la sentenza del Consiglio superiore che le due istanze di
libertà presentate dall'indagata S.Y. imponevano ai magistrati che le
avevano valutate e che sono stati incolpati in questa sede, l'esame
della posizione processuale dell'imputata detenuta, la cui omessa
escarcerazione costituiva di per sé una "negligenza inescusabile",
potendo le giustificazioni addotte dagli incolpati incidere solo
sull'entità della sanzione e non sulla sussistenza dell'infrazione
disciplinare.
La violazione di legge nell'esercizio delle funzioni degli incolpati
e la negligenza nell'omettere la escarcerazione dell'indagata
emergevano chiare, anche indipendentemente dalla contestazione della
violazione dei doveri di cui all'art. 1 del D. Lgs. n. 109 del 2006.
Per i due incolpati si è riconosciuta la colpa di non avere
provveduto alla escarcerazione dell'indagata nei termini di legge,
consapevoli che l'assenza di siffatto provvedimento "dovuto" per ben
sessantadue giorni, era gravemente lesiva del diritto fondamentale di
libertà dell'imputata, garantito dalla Costituzione.
Gli incolpati hanno, ad avviso del C.S.M., omesso il controllo
doveroso sulla scadenza dei termini di carcerazione per la indagata,
così provocando la proroga illegale della detenzione dopo la scadenza
dei termini di questa e violando il diritto fondamentale alla libertà
personale di lei.
I due ricorrenti lamentano che, nella fattispecie, è mancato, da
parte del C.S.M., l'esame concreto della negligenza, non essendosi
considerata la "condotta esigibile in concreto" dai magistrati per la
omessa escarcerazione della indagata, da ritenere "diligente" se
esaminata in connessione con l'altro requisito richiesto dalla legge per
affermare la responsabilità disciplinare degli incolpati, consistente
nella inescusabilità della loro condotta, affermando la sentenza
impugnata che, nel caso, la negligenza dei magistrati era stata
"macroscopica", al punto da escludere in concreto qualsiasi
giustificazione dei loro comportamenti. Secondo il C.S.M. il rigetto dai
magistrati incolpati delle due istanze di escarcerazione dell'indagata,
"si può spiegare solo con una mancata lettura degli atti di giudizio e
in particolare delle date di carcerazione".
La sezione disciplinare non ha rilevato la mancanza delle
annotazioni sui registri e le carenze organizzative degli uffici di
appartenenza, che hanno determinato il rigetto delle istanze di
escarcerazione della indagata.
I ricorrenti deducono inoltre, a giustificare la loro condotta, la
complessità del procedimento penale con 46 indagati e "consistente in
oltre 20 faldoni", la pluralità degli imputati e le difficoltà connesse
al loro reperimento, affermando che, degli arresti dell'imputata, non
tempestivamente liberata nel periodo pasquale, il dr. Gu. non aveva
avuto notizia, per la tardiva trasmissione degli atti del procedimento
al suo ufficio, con errore sui termini di liberazione, condiviso dai
difensori, dal G.I.P. e dal Tribunale del riesame, circostanze a cui
nessun rilievo aveva dato il C.S.M..
Mancando un fascicolo dell'esecuzione provvisoria che poteva esservi
ed era anzi consigliato dalla circolare ministeriale del 20 giugno
1990, i gravosi impegni del dr. Gu. potevano rilevare sulla misura della
sanzione, in assenza di una giurisprudenza sicura in materia
disciplinare sulla infrazione contestata e circa gli elementi
costitutivi della stessa contestazione in rapporto alla "negligenza" e
alla "inescusabilità" di essa, non potendo dubitarsi della gravità della
violazione di legge,lesiva del diritto di libertà. Nella sentenza
disciplinare i due elementi della infrazione della negligenza e della
inescusabilità della stessa non risultano ben descritti e definiti e per
tali profili è censurata la sentenza disciplinare del C.S.M..
1.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione di legge
della sentenza del C.S.M. ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. b,
del c.p.p., e dell'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per avere
falsamente applicato l'art. 2, comma 1, lett. g, del D.Lgs. 23 febbraio
2006 n. 109, nella parte in cui tipicizza la fattispecie disciplinare
nella "grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza
inescusabile", leggendola in collegamento con la lettera a di detta
norma, che richiama i doveri di diligenza di cui all'art. 1 del citato
decreto legislativo.
Affermano i ricorrenti che l'infrazione contestata costituisce
illecito disciplinare nell'esercizio delle funzioni e imponeva di
conseguenza al C.S.M. la ricostruzione della condotta in concreto
esigibile dagli incolpati, per rilevarne la inescusabilità, che è
elemento costitutivo della infrazione e della sanzione applicata
dell'ammonimento.
Nel ricorso si deduce che la lettura dell'art. 2, lett. g, del D.
Lgs. n. 109 del 2006 da parte del C.S.M., ad avviso del quale più grave è
la violazione di legge dell'incolpato maggiore è la negligenza dello
stesso, è in contrasto con la lettera della norma, che impone invece di
tenere distinta la violazione di legge oggettivamente posta in essere
dall'incolpato, dalla possibile scusabilità della stessa, costituente
esimente dell'illecito disciplinare per ogni caso di violazione
disciplinare, qualsiasi sia la sua gravità.
Il collegamento tra carattere "macroscopico" della negligenza e sua
inescusabilità si è ritenuto dal C.S.M. ostativo ad ogni giustificazione
dell'illecito disciplinare, come si afferma nella sentenza del C.S.M.
che sul punto è, ad avviso dei ricorrenti, errata, imponendo comunque la
affermazione di responsabilità del magistrato, che invece può, anche in
tal caso, giustificare il suo operato in rapporto al contesto
organizzativo, funzionale e storico in cui il fatto si è verificato ed è
stata tenuta la condotta contestata.
L’incolpato non può rispondere delle violazioni di legge a lui
ascritte, se allega cause di giustificazione connesse alla
organizzazione dell'ufficio o personali e, nel caso, la sentenza
impugnata ha omesso di esaminare in concreto tali cause giustificatrici
dedotte dagli incolpati che non avrebbero consentito la esigibilità del
comportamento loro addebitato (in tal senso, si citano in ricorso S.U.
13 settembre 2011 n. 18698 e 14 aprile 2011 n. 8488). Le cause di
inesigibilità della condotta contestata, pur essendo elencate e
riportate nello svolgimento del processo, così come saranno precisate
nel terzo motivo di ricorso, non sono state esaminate dalla sezione
disciplinare nei motivi della decisione e la sentenza impugnata
impedisce l'esercizio della facoltà di eccepire tali cause di
giustificazione ai due incolpati, con la impugnazione in questa sede.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione dell'art.
606, comma primo, lett. b, del c.p.p., e dell'art. 360, comma primo, n.
3, c.p.c., dell'art. 1 del D. Lgs. n. 109 del 2006, per avere il C.S.M.
erroneamente richiamato il dovere di "diligenza" del magistrato di cui a
tale ultima norma del decreto legislativo citato.
Il richiamo doveva essere concreto, in ragione della natura
personale delle responsabilità del magistrato e, nella sentenza
impugnata, è invece astratto e oggettivo, allorché si addebitano al
singolo giudice circostanze che dipendono invece dal modo di organizzare
il lavoro degli uffici e dalle condizioni in cui esso si svolge,
rilevanti in rapporto alla responsabilità civile per tali disfunzioni
degli uffici giudiziari e per le connesse azioni risarcitorie dei
danneggiati e non per il procedimento disciplinare.
Il mancato esame della cause di inesigibilità della condotta del
magistrato nel caso concreto comporta la non manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale della responsabilità
disciplinare dei magistrati nella fattispecie, la quale, come regolata e
ritenuta dal C.S.M., comporta una responsabilità di natura oggettiva.
1.3. Viene infine dedotta la omessa motivazione della sentenza
impugnata sulle concrete circostanze che avrebbero reso esigibile la
condotta non violativa della legge da parte degli incolpati, nella
fattispecie concreta, in ragione della scusabilità o inescusabilità
della condotta degli stessi non valutata concretamente dalla sezione
disciplinare.
Afferma il C.S.M. che dette circostanze sono rilevanti nel caso solo
in quanto incidenti sulla entità della sanzione applicabile e non per
l'affermazione della esistenza dell'infrazione e della conseguente
applicabilità della sanzione.
Le circostanze della indiscussa capacità e laboriosità degli
incolpati, della unicità della condotta disciplinarmente rilevante e
della omessa trascrizione, nel registro generale, dello stato di
detenzione dell'indagata, non risultano valutate come esimenti, per cui,
per i ricorrenti, non si è giustificata dal C.S.M. la sanzione in
concreto irrogata, potendo gli incolpati essere assolti per l'esistenza
di cause giustificatrici della loro condotta.
La mancanza di uno scadenzario per i termini di carcerazione ha
giustificato, ad avviso dei ricorrenti, l'omessa annotazione della data
di escarcerazione dell'imputata per le gravi carenze organizzative
dell'Ufficio G.I.P. di Ancona, non addebitabili ai ricorrenti, dato che
la Cancelleria non ha mai tenuto un registro delle scadenze delle
singole misure cautelari in concreto applicate.
Nel caso, l'ordinanza di custodia cautelare era stata emessa da
altro magistrato nel dicembre 2004 e risultava eseguita in data 22
aprile 2005; di tale esecuzione non s'era data comunicazione al G.I.P.
che aveva ordinato l'arresto e che aveva respinto il 18 giugno di quello
stesso anno l'istanza di revoca della misura cautelare, essendo poi
trasferito ad altro ufficio nel settembre successivo.
La mancata annotazione del termine di custodia in carcere sul
fascicolo o sui registri non è imputabile ai magistrati che hanno subito
la sanzione disciplinare e di tale circostanza nessun conto ha tenuto
il C.S.M., che ha collegato soltanto alla mancata lettura degli atti e
delle date di carcerazione, l'omesso provvedimento di dimissioni dal
carcere.
Anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio nessuno ha verificato
la scadenza del termine di custodia cautelare, la quale è proseguita per
altri sessantadue giorni dopo la sua scadenza legale, in danno
dell'imputata poi condannata in primo grado e in attesa dell'appello.
Nessuno dei giudici che ha esaminato il processo si è accorto della
scadenza dei termini che precede e la mancanza di un magistrato
coordinatore ha facilitato tali omessi interventi dovuti dei giudici,
incidenti sul bene fondamentale della vita della libertà dell'indagato.
La mancanza di uno dei tre magistrati dell'Ufficio G.I.P.,
nell'organico previsto per gli uffici giudiziari di Ancona, aveva
determinato un raddoppio del lavoro degli incolpati rilevante, secondo i
ricorrenti, per la scusabilità dei loro errori.
Il gravoso lavoro espletato dai ricorrenti, che comportava una
attività superiore rispetto a quella da loro pretesa, in un contesto di
eccellente professionalità da loro evidenziata, non ha giustificato per
la infrazione né la G. , anche se questa in quel periodo visse la
vicenda personale assai grave della separazione dal marito, con
incidenza sulla condotta nel caso, né il Gu. che, nello stesso periodo,
aveva perso il padre deceduto in data 29 giugno 2005.
2. Va preliminarmente osservato che le deduzioni introduttive sulla
inescusabilità dell'omesso controllo del termine di custodia cautelare
nella fase iniziale del processo e della successiva mancata liberazione
dell'imputata non sono dedotte come motivi di ricorso.
Tali circostanze non rilevano quindi neanche per i ricorrenti quali
esimenti della loro responsabilità disciplinare erroneamente non
valutate dal C.S.M., la cui sentenza afferma che detti fatti incidono
sulla misura della sanzione e non sulla esistenza dell'infrazione
costituita dalla sicura "grave violazione di legge" che la sezione
disciplinare ritiene "determinata da... negligenza inescusabile". Pur
affermando il C.S.M. che nel caso si è avuta una inescusabilità
macroscopica del comportamento dei due magistrati incolpati, in rapporto
al bene della vita della libertà personale leso dalla condotta di
questi ultimi, tale affermazione rileva solo in rapporto al
riconoscimento dalla sezione della evidente "colpa" dei giudici per non
avere disposto la scarcerazione alla scadenza dei termini della custodia
cautelare.
In tale contesto le stesse circostanze richiamate nel terzo motivo
di ricorso, quali la provata e indiscussa capacità e laboriosità dei due
incolpati o la unicità dell'episodio contestato e accertato, ovvero la
omessa trascrizione dello stato di detenzione dell'indagata, sui
fascicoli del processo a quest'ultima, sono state ritenute dal C.S.M.
attenuanti della responsabilità degli incolpati incidenti solo sulla
concreta sanzione da irrogare, che t in rapporto a tali elementi, è
stata quella minima dell'ammonimento (art. 5 del D. Lgs. n. 109 del
2006).
Pertanto le circostanze indicate non costituiscono esimenti
dell'infrazione disciplinare contestata ed accertata, ma sono state
correttamente valutate come fatti incidenti sulla misura della sanzione
in concreto applicata, cioè quella minima dell'ammonimento e per il
profilo della censura su tale punto, il ricorso è quindi infondato.
2.1. Va anzitutto rilevato che nessuna obbligatoria connessione vi è
tra gli illeciti disciplinari di cui alle lettere g ed a dell'art. 2
del D. Lgs. n. 109 del 2006, come chiarito di recente da queste stesse
sezioni unite (S.U. 22 aprile 2013 n. 9691 e 11 marzo 2013 n. 5943).
Come esattamente afferma la sentenza disciplinare impugnata, la
condotta omissiva degli incolpati dell'infrazione di cui alla lettera g
dell'art. 2 del d.Lgs. n. 109 del 2006, è consistita nella mancata
scarcerazione dell'indagata alla scadenza dei termini di custodia
cautelare.
Tale comportamento ha costituito una "grave violazione di legge"
relativamente al mancato rispetto dei termini di custodia cautelare in
carcere dell'imputata (artt. 297 e 303 c.p.p.), derivata da palese
"negligenza inescusabile", violativa anche del dovere di "diligenza" dei
magistrati nell'esercizio delle funzione di cui all'art. 1, primo
comma, del decreto legislativo sugli illeciti disciplinari del 2006.
La omissione ha prodotto alla detenuta un danno ingiusto, perché
lesivo del suo diritto alla libertà personale, per essere stata
escarcerata con sessantadue giorni di ritardo rispetto alla data di
scadenza dei termini di custodia cautelare in carcere (sul tema, cfr. la
recente S.U. 3 luglio 2012 n. 11069).
Ogni magistrato è tenuto a vigilare sul permanere delle condizioni
cui la legge subordina la privazione della libertà personale dei
soggetti da lui indagati, non rilevando, come esimenti di tali condotte
violative di un dovere di ufficio, la esistenza di situazioni personali o
familiari, salvo la natura eccezionale di queste ultime circostanze che
abbia impedito l'ordinario lavoro del magistrato (S.U. 12 gennaio 2011
n. 507).
Nel caso specifico gli incolpati hanno violato il loro dovere di
liberare una persona indagata e astretta in carcere, in contrasto con le
norme di legge che ne imponevano la liberazione e in violazione
dell'art. 2, comma 1, lett. g, del D. Lgs. n. 109 del 2006 (su tale
infrazione, tra molte, cfr. S.U. 21 gennaio 2010 n. 968 e le sentenze
già citate).
Il primo motivo di ricorso è infondato, essendosi nella fattispecie
certamente ed in modo palese violato, dai magistrati ricorrenti in
questa sede, il loro dovere di disporre la escarcerazione di una
indagata detenuta, con lesione del diritto fondamentale di libertà di
questa ultima, trattenuta in carcere oltre i termini di legge.
Sussiste nel caso chiara la condizione di esigibilità della condotta
omessa, costituente l'infrazione non giustificabile se non per la
esistenza di impedimenti gravissimi, anche in rapporto al diritto alla
libertà personale violato in concreto, che impone speciale diligenza nei
giudici che hanno il potere di esercitarlo, diligenza totalmente
disattesa nella concreta fattispecie.
2.2. Anche il secondo motivo di ricorso, per la parte in cui non è
già risolto dal rigetto del primo sulla negligenza dei magistrati
incolpati di non avere applicato la norma sui termini della custodia
cautelare, così cagionando la lesione del diritto fondamentale alla
libertà personale di una imputata detenuta per sessantadue giorni
durante i quali era ingiustificata per legge la detenzione, dovendo la
indagata essere in stato di libertà, risulta infondato.
Invero nessuna responsabilità "oggettiva" è stata rilevata dal
C.S.M. per i magistrati ai quali s'è applicata la sanzione, che sono
stati puniti solo per le infrazioni disciplinari colpose, costituite
dalla "grave violazione di legge determinata da negligenza
inescusabile", per la quale gli incolpati non hanno disposto o hanno
dato parere contrario alla escarcerazione di una imputata, dopo la
scadenza dei termini di legge della custodia cautelare.
Gli incolpati hanno contestualmente violato le norme regolatrici del
processo penale, che dovevano osservare, e leso il diritto di libertà
della donna detenuta, escarcerata ben sessantadue giorni dopo quello in
cui doveva essere liberata per legge.
Di fronte al diritto fondamentale di libertà in concreto leso, solo
una esimente di grande rilievo poteva giustificare la lesione della
situazione soggettiva del diritto alla libertà, tutelato direttamente
dalla Costituzione (art.13), la cui lesione non risulta neppure adesso
giustificata, non costituendo esimente per gli incolpati della ritardata
liberazione la capacità e laboriosità dimostrata da loro nelle altre
attività giudiziarie né potendo giustificarli la unicità dell'episodio
contestato e accertato.
Non esentano dalla responsabilità dei magistrati che hanno concorso a
tenere astretta in carcere una persona che non doveva esservi, l'omessa
trascrizione dello stato di detenzione dell'indagata con la mancata
annotazione nel registro generale della data di cessazione della misura
cautelare dell'indagata, che nel caso ha chiesto espressamente di essere
liberata.
Si è avuta una lesione del diritto fondamentale alla libertà della
detenuta, per la disattenzione o negligenza gravissima degli incolpati
che, investiti della decisione sulle richieste di libertà dell'imputata,
non potevano non rilevare che erano scaduti i termini di custodia
cautelare di legge. Anche se si tratta di un episodio unico, in un
contesto di evidenziata capacità e laboriosità degli incolpati, la
gravità della infrazione nella fattispecie emerge chiara dalla prodotta
lesione del diritto fondamentale di libertà per l'imputata indebitamente
trattenuta in carcere per le omissioni negligenti degli incolpati, per
cui non può che rigettarsi il secondo motivo di ricorso per la parte in
cui non è assorbito dal rigetto del primo.
2.3. Infine le circostanze di fatto indicate nel terzo motivo di
ricorso come esimenti della infrazione disciplinare tipizzata e
contestata nella specie al G.I.P. e al P.M. che hanno omesso di liberare
la indagata, violando la legge, esattamente si è ritenuto che possono
incidere solo sul tipo e sulla misura della pena nella concreta
fattispecie, in ragione del diritto fondamentale di libertà
concretamente leso con condotta non giustificabile con le mere carenze
organizzative dedotte in ricorso, essendo dovere specifico del giudice
che deve disporre la liberazione dei detenuti verificare con attenzione
particolare la legittimità della detenzione e provvedere alla
scarcerazione quando non vi siano i presupposti per proseguire lo stato
di arresto.
Il giudice, per i rilevanti poteri che deve esercitare sulla libertà
degli indagati, è tenuto ad una particolare attenzione la cui
violazione, incidendo su un diritto fondamentale direttamente tutelato
dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, se
non necessitata da circostanze di fatto che impediscano in modo
assoluto la escarcerazione, che nel caso non si sono neppure dedotte,
non può in alcun modo essere giustificata.
La disapplicazione della norma che impone la liberazione
dell'indagata può essere giustificata solo da un elemento esterno
all'illecito, necessario a delimitarne portata e funzione, cioè da una
circostanza che rientri nella categoria delle c.d. "condizioni di
esigibilità" dell'ottemperanza al precetto normativo, che impone i
termini di carcerazione preventiva nella fase cautelare, oltre i quali
la lesione del diritto di libertà diviene ingiustificata ed evidenzia la
gravità della violazione di legge in rapporto all'inviolabile diritto
fondamentale di libertà tutelato dalla carta costituzionale.
Può quindi enunciarsi il seguente principio di diritto: "Anche a
garanzia di un trattamento uniforme di situazioni analoghe e della
prevedibilità della sanzione, la disapplicazione dal giudice, su
conforme parere del P.M., dei termini previsti dalla legge di custodia
cautelare, in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del
soggetto trattenuto in carcere oltre i limiti di legge, è "grave"
violazione di legge sanzionabile come illecito disciplinare, salvo
un'esimente connessa a circostanze di fatto o a provvedimenti che
giustifichino la permanenza nella detenzione del soggetto e la sua
mancata liberazione, dovendosi attribuire a gravissima negligenza del
giudice ogni violazione del diritto di libertà non dovuta a cause
eccezionali ovvero già determinate per legge".
Nulla per le spese, non essendosi costituito in questa sede il Ministero della giustizia per resistere alla impugnazione.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta.