martedì 29 ottobre 2013

Una bottiglia di vino in tre: guida in stato di ebrezza

Giuda sotto l’influenza dell’alcool: il conducente dichiara di avere assunto un farmaco gastroprotettore e di aver bevuto una bottiglia di vino in tre. Condannato.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 2 - 28 ottobre 20134, n. 43998 Presidente Sirena – Relatore Montagni 

Ritenuto in fatto 

1. La Corte di Appello di Brescia, con sentenza in data 12.04.2012, in riforma della sentenza del Tribunale di Bergamo del 28.10.2011, appellata dal Procuratore Generale, affermava la penale responsabilità di C.G. in ordine al reato di cui all'art. 186, comma 2, lett. b), cod. strada. 
La Corte territoriale rilevava che l'impugnazione della parte pubblica era fondata. Il Collegio evidenziava che risultava pacificamente accertato che l'imputato, la sera del fatto, aveva consumato una intera bottiglia di vino, unitamente ad altre due commensali; e che era del tutto irrilevante la circostanza che C. avesse assunto un gastroprotettore, medicinale astrattamente idoneo a rallentare l'assorbimento dell'alcol nell'organismo, ma non certo ad aumentarne la concentrazione. 
2. Avverso la richiamata sentenza ha proposto ricorso per cassazione G..C. , a mezzo del difensore. 
Con il primo motivo la parte deduce l'erronea applicazione dell'art. 186, cod. strada e degli artt. 42 e 43 cod. pen.. 
L'esponente osserva che il prevenuto, nel corso della cena precedente l'effettuazione dell'alcoltest, aveva bevuto due bicchieri di vino ed assunto un farmaco denominato "Pantorc", che gli era stato prescritto dal medico curante; e che l'esito dell'esame alcolimetrico (dal quale era risultato un tasso pari a 0,96 g/l), effettuato ad oltre due ore di distanza dalla assunzione del farmaco, aveva allarmato il medico curante del C. ; che il sanitario aveva quindi prescritto esami ematici, dai quali era risultato che il paziente era affetto da un danno epatico, causato dalla assunzione del predetto farmaco. 
Ciò posto, il ricorrente rileva che il Tribunale Bergamo aveva mandato assolto l'imputato, giacché appariva ragionevole il dubbio che l'assunzione del farmaco avesse alterato il risultato della prova strumentale relativa al tasso alcolemico. Il deducente considera che la motivazione addotta dalla Corte territoriale, nel riformare la sentenza assolutoria, risulta carente sotto diversi profili: per la mancata considerazione della scansione temporale degli avvenimenti, sopra richiamati; e per aver ritenuto che il prevenuto si fosse posto consapevolmente alla guida di un veicolo, dopo aver assunto bevande alcoliche, in quantità superiore alla soglia di punibilità. La parte osserva che la Corte di Appello ha omesso di considerare gli effetti della disfunzione epatica procurata al C. dalla assunzione del "Pantorc", incidenti sulla metabolizzazione dell'alcol. 
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la mancata assunzione di prova decisiva, con riguardo alla perizia tossicologica volta ad accertare l'effetto del medicinale Pantorc sul metabolismo dell'alcol, istanza già spiegata nel corso del giudizio di primo grado - a fronte della quale il Tribunale aveva disposto l'esame del 
medico curante ai sensi dell'ari:. 507 cod. proc. pen. - e riformulata nel giudizio di appello. Osserva che, sul punto di interesse, la Corte di Appello si è limitata ad affermare che risultava del tutto irrilevante la valutazione relativa agli effetti del predetto farmaco. 
Con il terzo motivo l'esponente deduce la violazione dell'art. 133 cod. pen. e l'illogicità della motivazione, in riferimento alla quantificazione della pena. 

Considerato in diritto 

3. Il ricorso è infondato. 
3.1 Si procede all'esame unitario del primo e del secondo motivo di doglianza. 
Come noto, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamene affermato che nel giudizio di appello, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 8705 del 24/01/2013, dep. 21/02/2013, Rv. 254113). 
Orbene, la Corte di Appello di Brescia, nel riformare la sentenza assolutoria resa dal Tribunale di Bergamo del 28.10.2011, ha sviluppato un percorso argomentativo che risulta del tutto coerente rispetto al delineato obbligo motivazionale. 
Invero, la Corte territoriale ha considerato: che il prevenuto aveva assunto bevande alcoliche, in quantità non trascurabile, la sera del fatto, avendo consumato, insieme a due commensali, una intera bottiglia di vino; che risultava irrilevante, ai fini del superamento delle concentrazioni alcolemiche consentite dal codice della strada, l'ulteriore assunzione di un farmaco gastroprotettore, atteso che tale evenienza avrebbe potuto rallentare l'assorbimento dell'alcol, ma giammai aumentarne la relativa concentrazione; che il prevenuto si era posto consapevolmente alla guida della vettura, dopo aver bevuto il richiamato quantitativo di vino ed avere assunto la specialità medicinale ora riferita. 
Sulla scorta di tali rilievi il Collegio ha, quindi, considerato che la condotta come accertata integrava il reato contravvenzionale di cui all'art. 186, comma 2, lett. b), cod. strada. 
Preme pure evidenziare che il percorso motivazionale sviluppato dalla Corte di Appello, con specifico riferimento alla prova della sussistenza dell'elemento psicologico del reato, risulta del tutto coerente rispetto all'insegnamento ripetutamente espresso dalla Corte regolatrice, in riferimento all'elemento psicologico delle contravvenzioni. Ed invero, per integrare l'elemento soggettivo della fattispecie della guida in stato di ebbrezza di cui all'art. 186, cod. strada, non è necessario il dolo, ma è sufficiente la colpa, la quale, come esposto dal giudice di merito, si riscontra nella condotta dell'imputato, il quale si pose volontariamente alla guida di una autovettura (condotta che obbliga specificamente all'osservanza della disciplina che regola la circolazione stradale), nella consapevolezza di avere assunto da poco bevande alcoliche in quantità non trascurabile, oltre ad un farmaco gastroprotettore (Cass. Sez. 4,sentenza n. 31295 del 11.04.2012, dep. 31.07.2012, n.m.). 
Ciò posto, deve allora osservarsi che la sentenza impugnata non risulta censurabile neppure in riferimento alla mancata assunzione della prova richiesta dalla difesa, volta all'accertamento degli effetti del farmaco gastroprotettore sul metabolismo dell'alcol. 
Al riguardo, si osserva che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito: che il vigente codice di rito penale pone una presunzione di completezza dell'istruttoria dibattimentale svolta in primo grado; che la rinnovazione, anche parziale, del dibattimento, in sede di appello, ha carattere eccezionale e può essere disposta unicamente nel caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti; e che solo la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dar conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6379 del 17/03/1999, dep. 21/05/1999, Rv. 213403). Deve, peraltro, considerarsi che nel caso di specie, la Corte di Appello ha espressamente considerato che la richiesta istruttoria presentata dalla difesa risultava del tutto irrilevante, in ragione delle circostanze di fatto pacificamente accertate nel corso del giudizio di primo grado, anche concernenti gli effetti, in ipotesi marginali, che possono derivare dalla assunzione di un farmaco gastroprotettore. 
3.2 Il terzo motivo di ricorso non ha pregio. 
Si osserva che la decisione impugnata risulta sorretta da conferente apparato argomentativo, che soddisfa appieno l'obbligo motivazionale, anche per quanto concerne la dosimetria della pena. La Corte di Appello, infatti, ha contenuto il trattamento sanzionatorio in mesi tre di arresto ed Euro 900,00 di ammenda, in considerazione della modesta gravità - oggettiva e soggettiva - del fatto. Detta pena è stata quindi ridotta di un terzo, per effetto delle circostanze attenuanti generiche, applicate nella massima estensione, in ragione del buon comportamento processuale. La Corte di merito, infine, ha sostituito la pena detentiva con quella pecuniaria della specie corrispondente ed ha concesso il beneficio della non menzione.
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Lancio di uova vs polito, condannato

Politica. In campagna elettorale un uomo lancia delle uova contro i politici presenti sul palco. Condannato per lancio pericoloso di cose.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 settembre – 29 ottobre 2013, n. 44187 Presidente Fiale – Relatore Graziosi 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza del 7 gennaio 2013 il Tribunale di Bologna ha condannato D.B.F. alla pena di euro 200 di ammenda per il reato di cui agli articoli 110 e 674 c.p. per aver gettato uova contro il palco di alcuni politici durante una campagna elettorale, e colpendo con alcune di esse il mezzo di trasporto utilizzato come palco. 
2. Ha presentato ricorso l’imputato adducendo, quale primo motivo, la mancanza di motivazione - essendovi stato quanto alla sua responsabilità un mero richiamo alla testimonianza del commissario M.G., senza accenno alcuno al suo contenuto e alla descrizione della condotta tenuta dall’imputato stesso - e, quale secondo motivo, la violazione di legge - non integrando il reato il lancio diretto a cose e non a persone, e l’imputazione stessa indicando che “il lancio ha attinto esclusivamente il veicolo ove si trovavano le persone offese e non le persone stesse”. Quale terzo motivo, infine, lamentava la mancata assunzione di prova decisiva non essendo stata “condotta alcuna indagine sulla circostanza dell’idoneità ad imbrattare o molestare del materiale che si assume come gettato all’indirizzo della persona offesa”, soprattutto non essendosi “sentite le persone offese in merito alle molestie ricevute in ordine ad una asserita condotta penalmente rilevante”: pur essendo il reato riconosciuto come illecito di pericolo concreto, dalla sentenza non emergerebbe "se e come sia stata posta in pericolo l’altrui incolumità". 

Considerato in diritto 

3. Il ricorso è infondato. 
3.1 Il primo motivo, che lamenta carenza di motivazione in ordine alla descrizione della condotta dell’imputato, adducendo che vi sarebbe stato un mero richiamo alla testimonianza del commissario M.G., non corrisponde al reale contenuto della sentenza che, pur con una motivazione concisa, illustra in modo adeguato i propri presupposti decisionali, in particolare, quanto alla descrizione della condotta dell’imputato, specificando che la testimonianza del commissario M. “ha confermato il fatto così come descritto nell’imputazione e ne ha indicato, quale corresponsabile, l’attuale imputato”. Il motivo è dunque manifestamente infondato. 
3.2 Il secondo motivo adduce violazione di legge per avere il lancio attinto il veicolo ove si trovavano le persone offese e non le persone stesse. L’articolo 674 c.p., nel suo limpido dettato, non prevede che la persona offesa sia colpita, ma soltanto che vi sia un “getto pericoloso” di “cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone”. La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha pertanto sviluppato una interpretazione nel senso che, per integrare il reato di cui alla suddetta norma, occorre che la condotta sia idonea (anche indirettamente, qualora sia diretta verso le cose: Cass. sez. III, 27 settembre 2006 n. 35885) a offendere, imbrattare o molestare le persone (e non solamente le cose: Cass, sez. III, 13 aprile 2010 n. 22032) con un’attitudine concreta a tale lesività (Cass. sez. III, 11 maggio 2007 n. 25175). E la descrizione della condotta, come emergente dal capo di imputazione, a cui, come si è visto, corrisponde, poi l’esito probatorio, è chiaramente riconducibile all’articolo 674 c.p., essendo concretamente idonea a cagionare imbrattamento e molestia alle persone offese. Il motivo è dunque anch’esso manifestamente infondato, essendo stata correttamente qualificata la condotta di lancio di uova (cose quanto meno idonee ad imbrattare, se colpiscono, le persone) contestata all’imputato ai sensi della suddetta norma. 
3.3 Infine, il terzo motivo, pur formalmente qualificandosi come doglianza per omessa prova decisiva, a sua volta non ha consistenza. è evidente che, infatti, per ricondurre una condotta di lancio in luogo pubblico di oggetti in direzione di persone alla fattispecie di cui all’articolo 674 c.p, non occorre sentire le persone stesse per determinare se la condotta sia penalmente rilevante, essendo questa una valutazione oggettiva, non certo deferita alla persona offesa. Né, poi, è qualificabile come decisiva un’indagine sul “materiale” per appurarne l’idoneità a imbrattare o molestare, laddove tale “materiale” consiste, come emerge dalla imputazione, in uova, la cui idoneità ad imbrattare è indiscutibilmente notoria. 
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna dei ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende. 

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

domenica 27 ottobre 2013

Aborto o omicidio

La CAssazione affronta un tema delicatissimo: il discrimine tra aborto illegale e omicidio volontario del neonato.

La CAssazione affronta un tema delicatissimo: il discrimine tra aborto illegale e omicidio volontario del neonato.

La vita autonoma del feto inizia con la rottura del sacco che contiene il liquido amniotico e si raggiunge nel momento iniziale del travaglio, allorché il feto non è ancora autosufficiente.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 10 – 24 ottobre 2013, n. 43565 Presidente Giordano – Relatore Mazzei 

Ritenuto in fatto 

1. Con ordinanza deliberata il 31 maggio 2013 il Tribunale di Roma, costituito ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen., ha respinto l'appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo avverso l'ordinanza in data 7 marzo 2013 del Giudice per le indagini preliminari della stessa sede, il quale aveva rigettato la richiesta di applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di R.G. e A.E.A. con riguardo al delitto di concorso in omicidio aggravato della figlia neonata dell'A. , ferma la custodia cautelare di quest'ultima per il diverso delitto di soppressione di cadavere, di cui all'art. 411 cod. pen., poiché gravemente indiziata di aver gettato la neonata in un cassonetto. 
Secondo l'ipotesi accusatoria, il R. , infermiere presso l'AUSL di Viterbo (presidio ospedaliero ....), tramite falsificazione di prescrizione medica del farmaco Cytotec, allestita con la firma apparente del dott. Q. , aveva procurato all'A. il detto medicinale, che, ingerito dalla stessa, ne aveva accelerato il parto al settimo mese di gravidanza e, insieme, avevano cagionato la morte della neonata, subito dopo il parto, avvenuta per sofferenza fetale/neonatale su base ipoannossica, in attuazione del comune piano di sopprimere la neonata, bisognosa di assistenza e cure per il parto prematuro provocato, facendole mancare ogni soccorso; con la circostanza aggravante dei motivi abietti e futili consistiti nell'esigenza della A. di continuare la propria attività di "dama di compagnia" (così testualmente l'imputazione provvisoria) presso il Night Club "Star Night", altrimenti ostacolata dalla necessità di accudire la nascitura.
Ad avviso del Tribunale, correttamente il Giudice per le indagini preliminari aveva ritenuto l'inesistenza di gravi indizi di colpevolezza dell'omicidio volontario per mancanza di elementi probatori sulla circostanza che la bambina fosse nata viva e non fosse, invece, deceduta prima del parto. 
Il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, prof. B.M. , non aveva infatti riscontrato segni polmonari di avvenuta respirazione della neonata (negatività della docimasia idrostatica) e la stessa A. aveva dichiarato di non aver udito piangere la bambina né di averla vista respirare al momento dell'espulsione, sicché non poteva escludersi, secondo il Tribunale, che la piccola fosse nata già morta. 
2. Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Viterbo, il quale deduce due motivi. 
2.1. Il primo motivo articola l'erronea applicazione della legge penale. 
L'ordinanza impugnata, pur richiamando le cause della morte indicate dal consulente del pubblico ministero, il quale sostiene, testualmente, che "è realistico ritenere che si versi nell'ambito di una morte intra-peri-partum, intervenuta cioè nelle ultime fasi del parto o immediatamente dopo", deduce erroneamente che non vi sarebbe certezza che la neonata fosse nata viva e fosse stata volontariamente soppressa dagli indagati. 
Secondo il ricorrente, che richiama la giurisprudenza di questa Corte al riguardo, la vita autonoma del feto inizia con la rottura del sacco che contiene il liquido amniotico e si raggiunge nel momento iniziale del travaglio, allorché il feto non è ancora autosufficiente. 
La morte intervenuta, secondo il consulente, nella fase intra-peri-partum era, dunque, coerente con l'ipotesi accusatoria di omicidio volontario riconducibile all'accordo criminoso tra l'A. ed il R. per accelerare farmacologicamente il parto, determinare la nascita di un feto in sofferenza, e non impedirne la morte facendogli mancare le cure e l'assistenza necessarie alla sopravvivenza. 
L'assenza di segni polmonari di avvenuta respirazione, rilevata dal consulente, non contrasterebbe col fatto che la morte si era verificata nella fase del parto; lo stesso consulente, infatti, aveva indicato i segni di vita del feto per la riscontrata presenza, sulla vittima, di "una circoscritta area di imbibizione ed ematosa del tegumento cranico in regione parietale sinistra (tumore da parto), oltre che di petecchie polmonari e cardiache significative dello stato di vita del bambino". 
Secondo il pubblico ministero ricorrente, quindi, la corretta applicazione della norma penale avrebbe dovuto muovere dal riconoscimento della vita autonoma del feto nel momento iniziale del travaglio e approdare alla qualificazione dell'attività diretta alla sua soppressione, in assenza dell'elemento specializzante di cui all'art. 578 cod. pen. (condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto), come omicidio volontario ai sensi dell'art. 575 cod. pen.; con esclusione, altresì, della possibilità di ridurre la condotta del R. a quella di procurato aborto prevista dall'art. 19 della legge n. 194 del 1978, poiché lo stesso non si sarebbe limitato a procurare all'A. il farmaco per accelerare il parto, ma avrebbe partecipato con lei all'intero piano criminoso diretto ad anticipare la fine della gravidanza e a provocare la morte della nascitura, facendole mancare le cure e l'assistenza necessarie. 
2.2. Con il secondo motivo il pubblico ministero lamenta la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, avendo il Tribunale, da un lato, affermato, seguendo il consulente, che la morte avvenne verosimilmente intra partum a causa di asfissia, ovvero nella fase di transizione che va dal momento in cui inizia il distacco del feto dall'utero materno a quello in cui il neonato acquista vita autonoma, e, dall'altro, negato la vitalità della vittima allorché fu attuata l'ipotizzata condotta omicidiaria. 
Parimenti illogica e contraddittoria sarebbe la deduzione della non vita della nascitura dalla circostanza che la madre non udì piangere la bambina né la vide respirare al momento dell'espulsione, tenuto conto che, secondo la ricostruzione accusatoria, al feto furono deliberatamente negate, subito dopo il parto, le cure e l'assistenza necessarie per consentirne la sopravvivenza. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso merita di essere accolto nei limiti che seguono. 
1.1. Il primo motivo è infondato poiché la pretesa violazione di legge postula una ricostruzione del fatto, a livello indiziario, opposta rispetto a quella sostenuta dal Tribunale nell'ordinanza impugnata. 
Il giudice cautelare, infatti, pone a base delle sue valutazioni il dubbio sulla non vita del feto già nella fase del travaglio del parto, escludendo dunque un evento morte in relazione causale con la condotta degli indagati, che, secondo l'ipotesi accusatoria, si sarebbe articolata in due fasi: la prima, attiva, di accelerazione farmacologica del parto e la seconda, omissiva, di non prestate cure alla neonata. 
Ed è chiaro che, avendo assunto a base del suo ragionamento l'insufficienza indiziaria sul tempo di verificazione della morte e, conseguentemente, sul nesso causale tra esso e la condotta degli indagati, il Tribunale non è incorso in alcun errore giuridico per avere escluso la configurazione del fatto come omicidio volontario e per aver prospettato la ricorrenza del meno grave reato di aborto illegale, di cui all'art. 19 della legge 22/05/1978, n. 194. 
1.2. È, invece, fondato il secondo motivo che denuncia la contraddittorietà della motivazione. 
Essa emerge con evidenza dal testo dell'ordinanza impugnata, la quale, da un lato, riporta le conclusioni del consulente del pubblico ministero, ritenendole attendibili, laddove collocano la morte del feto nelle ultime fasi del parto o immediatamente dopo l'espulsione, accreditandone quindi la vitalità anche per la riscontrata presenza, pur sottolineata dall'esperto e testualmente trascritta nell'ordinanza, di "petecchie polmonari e cardiache significative dello stato di vita della bambina"; e, dall'altro, sostiene invece che il feto fosse già morto prima del parto per mancanza di segni polmonari di avvenuta respirazione e assenza di pianto non avvertito dalla madre, senza valutare la compatibilità di tali elementi con quelli come sopra rilevati dal consulente a favore della vitalità della neonata, seppure non autosufficiente e sofferente per il parto prematuramente indotto. 
2. Segue l'annullamento dell'ordinanza impugnata per contraddittorietà e lacuna della motivazione e il rinvio degli atti per nuovo esame al Tribunale di Roma, il quale provvederà uniformandosi a questa sentenza, evitando di ricadere nel rilevato vizio di motivazione. 

P.Q.M. 

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Roma. 

venerdì 25 ottobre 2013

Omicidio colposo

Un bambino cade nella piscina ad uso pubblico gestita dall'azienda, da uno scivolo, nel punto più profondo di mt. 1,20. Omicidio colposo: la causa sopravvenuta, susseguente la causa presupposta, esclude il rapporto di causalità solo quando è stata da sola sufficiente a determinare l’evento.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 21 giugno - 22 ottobre 2013, n. 43168 Presidente Romis – Relatore Casella 

Ritenuto in fatto 

Con sentenza in data 21 novembre 2011, la Corte d'appello di Firenze parzialmente riformava la sentenza 24 marzo 2010 del GIP del Tribunale di Lucca - limitatamente al trattamento sanzionatorio ed alla concessione del beneficio della non menzione - confermandola nel resto, in punto all’affermazione di colpevolezza di F.B. in ordine al delitto di cui all'art. 589 cod. pen. commesso in (omissis) in danno del minore V.Z. . Ha ritenuto la Corte distrettuale, in conformità al capo d'accusa, che all'imputato, in qualità di legale rappresentante della cooperativa sociale - onlus - che gestiva l'azienda agricola (OMISSIS) , fosse da ascrivere la responsabilità, a titolo di colpa generica e specifica, della morte per annegamento del minore, perché questi, dopo aver eluso la vigilanza dei genitori (al pari dell'altro minore C.F. che, nell'occorso, riportò, solamente lesioni lievi) si lasciò cadere nella piscina ad uso pubblico gestita dall'azienda, attraverso uno scivolo, nel punto più profondo di mt. 1,20 (rispetto alla propria altezza di cm. 96). Rivestendo il prevenuto, nella suddetta qualità, una ben precisa posizione di garanzia, egli non si curò di impedire l'evento, violando in tal modo l'obbligo di impedire l'accesso alla piscina a persone estranee nel periodo e negli orari di non funzionamento dell'impianto. In particolare era emerso in punto di fatto che questa non era delimitata da una vera e propria recinzione, ma da una ringhiera di altezza inferiore al metro, peraltro mancante alla sommità dello scivolo, raggiunto dai due bambini di età inferiore a tre anni per poi calarsi in acqua. Né ebbe l'imputato a predisporre un servizio di custodia e vigilanza. Neppure la piscina - privata ad uso pubblico - era dotata dell'autorizzazione comunale al suo utilizzo come previsto dall'art. 86 T.U.L.P.S. e dall'apposita circolare ministeriale, previo parere tecnico della commissione di vigilanza. 
Propone ricorso per cassazione l'imputato per tramite dei difensori, articolando tre censure per vizi di violazione di legge e per vizi della motivazione, cosi riassunte. 
Con il primo ed il secondo motivo, assume il ricorrente l'insussistenza sia delle omissioni colpose contestate sia del nesso di causa. Sostiene la difesa che la Corte distrettuale avrebbe ravvisato, con argomentazioni illogiche e carenti, profili di colpa generica e specifica, a carico dell'imputato, responsabile della cooperativa sociale impegnata nel recupero di soggetti emarginati - nella cui azienda agrituristica si verificò l'evento mortale - in mancanza della dimostrazione che lo stesso F. aveva effettivamente la possibilità sia di prevedere la situazione di pericolo sia di evitarla tant'è vero che i responsabili dell'ASL competente avevano fatto luogo al rilascio della concessione di agibilità, espressamente certificando l'idoneità all'uso della piscina. Né avrebbero rivestito, secondo il ricorrente, alcuna rilevanza eziologica rispetto all'evento, le contestate violazioni all'art. 86 T.U.L.P.S. ed alla relativa circolare ministeriale in materia di uso delle piscine, non essendo preordinate a stabilire regole cautelari a tutela della incolumità degli utenti, come già ritenuto dal Giudice di prime cure, posto che il minore si introdusse abusivamente all'interno della piscina inclusa in una struttura agrituristica. Neppure sussisterebbe, in via subordinata, ad detta dei difensori, il nesso di causa tra le violazioni contestate e l'evento che si verificò per l'esclusiva responsabilità dei genitori del bambino che non solo lo avevano perso di vista ma che neppure si erano attivati per cercarlo, facendo sì che il minore percorresse circa 150 metri di strada sterrata, raggiungesse quindi lo scivolo, cadesse in piscina e vi annegasse. I genitori invero, si limitarono a segnalarne la scomparsa all'addetto alle pulizie, alcune decine di minuti dopo, allorché questi ebbe a ricondurre l'altro minore, caduto anch'egli in piscina, ma prontamente salvato. L'omessa vigilanza di un minore di tre anni in uno spazio aperto, in presenza di una piscina aperta all'uso vale quindi ad integrare evento anomalo ed eccezionale, peraltro imprevedibile per il responsabile della struttura all'atto della valutazione della predisposizione delle misure di sicurezza dell'impianto, tale da interrompere comunque il nesso eziologico. 
Con il terzo motivo, il difensore, subordinatamente all'affermato difetto di responsabilità dell'imputato in ordine alla causazione dell'evento, censura la sentenza impugnata in punto all'omesso riconoscimento del concorso di colpa dei genitori del minore e della conseguente quantificazione percentuale (anche ai fini del risarcimento del danno) essendo gli stessi titolari di una specifica posizione di garanzia a protezione del figlio minore che trova la sua fonte nell’art. 147 cod. civile. 
Conclude per l'annullamento della impugnata sentenza. 

Considerato in diritto 

Il ricorso è infondato e deve quindi esser respinto con il conseguente onere, a carico del ricorrente del pagamento delle spese processuali - ex art. 616 cod. proc. pen. - e della rifusione delle spese del presente giudizio in favore della parte civile costituita, come liquidate in dispositivo. 
Quanto alla prima ed alla seconda censura, rileva preliminarmente il Collegio che, ad onta delle infondate obiezioni del ricorrente, la Corte d'appello di Firenze ha esaustivamente e congruamente "risposto" ai motivi d'appello. Invero, in punto alla conferma della responsabilità dell'imputato, la Corte distrettuale, condividendo e facendo propri gli ineccepibili assunti motivazionali della sentenza di primo grado (che, trattandosi di doppia pronunzia conforme, integrano l'apparato argomentativo della sentenza impugnata sì da costituire un unicum motivazionale) ha evidenziato la ricorrenza dei contestati profili di colpa, conseguenti alle violazioni di obblighi cautelari sanciti dalle regole di comune prudenza. A tale riguardo indubbio rilievo hanno rivestito la esistenza della recinzione della piscina inferiore al metro nonché la realizzazione della stessa con componenti "troppo discosti l'uno dall'altro" di guisa da consentire rispettivamente lo scavalcamento oltreché il passaggio tra gli stessi di un bambino. In ragione della comune esperienza, hanno altresì sottolineato i Giudici d'appello che una recinzione siffatta non avrebbe potuto neppure tutelare gli adulti da eventuali cadute accidentali ovvero impedire tuffi o comunque l'accesso all'impianto in orari od in periodi dell'anno di chiusura della piscina. Neppure era stata predisposta la copertura dello specchio d'acqua con un apposito telo di sicurezza o con un rete. Né era in funzione un adeguato servizio di sorveglianza preordinato ad assicurare agli utenti la fruizione dell'impianto in condizioni di sicurezza per l'incolumità degli stessi tanto più in presenza di acquascivolo che, in considerazione delle modalità di posizionamento e di uso dello stesso, integrava intuitivamente un'ulteriore, rilevante fonte di pericolosità determinando un siffatto accessorio, la veloce precipitazione nella piscina, per la forza di gravità, grazie al dislivello tra il punto sopraelevato di partenza e quello di arrivo nella vasca sottostante. Tanto va rimarcato essendo ben nota all'imputato (come ammesso anche nei motivi d'appello e come pacificamente acclarato nella sentenza di primo grado fgl. 16) la presenza - comunque tollerata - di bambini piccoli, appartenenti a famiglie di etnia "rom" ospitate nell'azienda agricola da lui gestita (nel cui perimetro era in funzione la piscina) i cui genitori, benché resi edotti del divieto a recarsi nella zona della piscina e benché richiamati ad esercitare un controllo adeguato sui bambini, perseveravano invece nel lasciare i figli liberi di circolare all'interno del complesso: circostanza egualmente notoria e che avrebbe dovuto indurre il responsabile ad adottare più puntuali e specifiche cautele soprattutto, come già evidenziato, per la presenza dell'acquascivolo. La prevedibilità e l’evitabilità dell'evento, in cui, com'è noto, si radica la responsabilità per colpa, appaiono, a dispetto delle censure dedotte, difficilmente contestabili, attese le acclarate condizioni fattuali. Prevedibile e prevenibile risultava l'evento in caso dell'omessa, preventiva adozione dei molteplici accorgimenti (testé illustrati) preordinati ad impedire l'accesso volontario od involontario nella piscina (che, come osservato dal Tribunale, costituisce cosa pericolosa ex art. 2051 cod.civ.) in concomitanza con la mancanza di un servizio apposito di custodia e di salvataggio, in determinati orari della giornata tanto più se si consideri che l'impianto era ubicato in luogo frequentato da bambini piccoli "maggiormente attratti dall'acqua, meno prudenti e meno capaci di reagire adeguatamente in condizioni di difficoltà" (cfr. sentenza di primo grado fgl. 15) avvezzi, com'era del pari notorio, a sottrarsi al controllo dei genitori ovvero a non essere a questo efficacemente e continuativamente sottoposti (Sez. 4 n.2600 del 1985 rv. 172311). 
L'imputato, quale legale rappresentante della cooperativa che gestiva l'azienda agricola al cui interno era ubicata la piscina era quindi investito di una specifica posizione di garanzia a tutela della incolumità degli utenti e di coloro che si venissero a trovare in prossimità della stessa, per qualsiasi ragione, (cfr. Sez. 4 n. 45006 del 2008 rv. 241998; Sez. 4 n. 25437 del 2009 in motivazione; Sez. 4 n. 45698 del 2008 rv. 241759) attesi anche gli obblighi sullo stesso gravanti quale custode di cosa pericolosa, ex art. 2051 cos. civ.. Sicché, come congruamente argomentato da entrambi i giudici di merito in coerenza con le risultanze di fatto, deve ritenersi ineccepibile la ritenuta sussistenza del nesso di causalità ex art. 40 cpv.cod. pen.. È invero fuor di dubbio che le plurime omissioni ascritte all'imputato hanno rappresentato la causa, ancorché non esclusiva, dell'evento mortale. Ha invero opportunamente rilevato il Tribunale che, nella concreta fattispecie, "l'evento lesivo verificatosi rappresent[a] la realizzazione del rischio che la norma cautelare violata dall'imputato doveva prevenire" (c.d. concretizzazione del rischio ). Né vale ulteriormente soffermarsi sul conforme esito - scontato ed ovvio - del c.d. giudizio controfattuale nel caso in cui l'imputato avesse posto in essere le doverose azioni positive, invece omesse in violazione delle richiamate regole cautelari. 
Egualmente ineccepibile, alla stregua dell'insegnamento consolidato e prevalente della giurisprudenza di legittimità, va ritenuta, diversamente dalle obiezioni del ricorrente, l'insussistenza di qualsivoglia causa interruttiva del nesso eziologico ex art. 41, comma 2 cod. pen. in relazione all'omessa sorveglianza sul figlio minore, di cui si sarebbero resi responsabili i genitori. 
L'art. 41 cod.pen., comma 2, secondo cui "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento", come sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 4,n. 13939 del 2008; Sez. 4 n. 45006 del 2008), enuncia una norma di fondamentale importanza all'interno dell'assetto normativo che il codice ha inteso attribuire al tema della causalità. Lo scopo della norma, secondo l'opinione maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nell'art. 41 cod.pen., comma 1, che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause ("conditio sine qua non"). In dottrina si è affermato che se l'art. 41, comma secondo cod. pen. venisse interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo, verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perché, in questi casi, all'esclusione del nesso di causa si perverrebbe con la mera applicazione del principio condizionalistico previsto dall'art. 41 comma 1 cod.pen. Deve pertanto trattarsi, secondo questo condivisibile orientamento, di un processo non completamente avulso dall'antecedente, di una concausa che deve essere, appunto, "sufficiente" a determinare l'evento. Ma questa sufficienza non può essere intesa come avulsa dal precedente percorso causale perché, altrimenti, torneremmo al caso del processo causale del tutto autonomo oggetto della previsione di cui all'art. 41 c.p., comma 1. Deve al riguardo affermarsi che, sulla base della teoria della causalità "umana", oltre alle forze che l'uomo è in grado di dominare, ve ne sono altre - che parimenti influiscono sul verificarsi dell'evento - che invece si sottraggono alla sua signoria. Può dunque essere oggettivamente attribuito all'agente quanto è da lui dominabile, ma non ciò che fuoriesce da questa possibilità di controllo. Gli elementi esterni controllabili sono quelli dotati del carattere di normalità, cioè quelli che si verificano con regolarità qualora venga posta in essere l'azione. Ciò che invece sfugge al dominio dell'uomo - secondo l'illustre Autore che ha formulato la teoria - "è il fatto che ha una probabilità minima, insignificante di verificarsi: il fatto che si verifica soltanto in casi rarissimi... nei giudizi sulla causalità umana si considerano propri del soggetto tutti i fattori esterni che concorrono con la sua azione, esclusi quelli che hanno una probabilità minima, trascurabile di verificarsi; in altri termini sono esclusi i fattori che presentano un carattere di eccezionalità". 
Agli effetti dell'imputazione oggettiva dell'evento sono quindi necessari due elementi: uno positivo e uno negativo; quello positivo "è che l'uomo, con la sua condotta, abbia posto in essere un fattore causale del risultato, vale a dire un fattore senza il quale il risultato medesimo nel caso concreto non si sarebbe avverato”; il negativo “è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali (rarissimi). Soltanto quando concorrono queste due condizioni, l'uomo può considerarsi autore dell'evento". Perché possa parlarsi di causa sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua interruzione) si deve dunque trattare, secondo questa ricostruzione, di un percorso causale ricollegato all'azione (od all'omissione) dell'agente, ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili, a seguito della causa presupposta. Siffatti connotati devono pertanto ravvisarsi nel caso di un percorso causale atipico; di una linea di sviluppo della condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto e imprevedibile per l'agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente alla sua azione od omissione (quest'ultimo versante riguarda l'elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell'elemento oggettivo del reato, si pone in termini analoghi). Va infine rilevato che sia l'Autore che l'ha proposta che tutti coloro che l'hanno condivisa, compresa la giurisprudenza di legittimità e di merito, hanno affermato che la teoria della causalità "umana" - richiamata anche dalla sentenza delle S.U. n. 30328 del 2002, Franzese, rv. 222138 in tema di causalità - è applicabile anche ai reati omissivi impropri. 
Tanto premesso, non resta che condividere l'iter argomentativo, unanimemente seguito dai giudici di merito a dimostrazione della infondatezza della tesi sostenuta dal ricorrente. L'omessa sorveglianza del minore - indiscutibilmente addebitabile ai genitori - da un lato era circostanza nota all'imputato (e quindi non imprevedibile) come testé si è osservato. In ogni caso, non costituiva elemento del tutto eccezione (e tantomeno imprevedibile) il fatto che un bambino di tre anni potesse comunque sfuggire al controllo dei genitori. Deve quindi concludersi che il difetto di sorveglianza del minore ha integrato la condizione originaria della produzione dell'evento, ma non la condizione esclusiva. Ha indubbiamente contribuito alla causazione dell'evento letale la mancata adozione delle basilari precauzioni cautelari - ascritte all'imputato - volte ad impedire l'accesso all'area della piscina e dell'acquascivolo in difetto, peraltro, di idoneo servizio di sorveglianza e di custodia. Né - come in particolare sottolineato dal Giudice di prime cure (sentenza di primo grado fgl. 18) - l'eventuale affidamento riposto dall'imputato nella condotta dei genitori (pur gravati ex art. 147 cod. civ. dell'obbligo di salvaguardare l'incolumità fisica del figlio minore) non poteva valere ad escluderne la colpa, sul rilievo che l'incidenza, agli effetti della produzione dell'evento di concause prevedibili per l'agente, non implica l'interruzione del nesso eziologico giacché "chi è titolare di una posizione di garanzia deve poter prevedere e prevenire le altrui imprudenze ed avventatezze e conseguentemente uniformare la propria condotta ai comuni canoni di accortezza". Ciò tantopiù rileva in presenza di una piscina, dotata di acquascivolo ed ubicata all'interno dell'agriturismo, fonte di indubbia pericolosità per l'incolumità di chiunque (massime per un bambino piccolo) in mancanza di adeguate recinzione e protezioni e degli altri presidi cautelari. 
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile ex art. 606, comma 3 cod.proc. pen.. Il difensore deduce il presunto vizio di violazione di legge per aver omesso la Corte d'appello di "quantificare" in percentuale il concorso di colpa dei genitori del minore, non avendo minimamente fatto cenno ad una siffatta censura con i motivi d'appello. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Lo condanna inoltre a rimborsare alla parte civile I.M. le spese sostenute per questo giudizio che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.

domenica 6 ottobre 2013

Mai toccare il sedere di una donna

La mano morta se a sfondo erotico (palpeggiamenti dei glutei e delle cosce) è violenza sessuale. Linea dura della Cassazione.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 17 aprile – 4 ottobre 2013, n. 40973 Presidente Mannino – Relatore Grillo 

Ritenuto in fatto 

1.1. Con sentenza dei 12 novembre 2012 la Corte di Appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Latina del 20 gennaio 2012 con la quale D.A. era stato ritenuto colpevole del reato di violenza sessuale (art. 609 bis cod. pen.) e condannato alla pena di anni due di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge. 
1.2. Propone ricorso l’imputato, a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo due motivi: con il primo, lamenta mancanza di motivazione e manifesta illogicità per avere la Corte territoriale, con argomentazione apparente, confermato la volontà querelatoria da parte della persona offesa ed, ancora, per avere ritenuto sussistente il reato di violenza sessuale, pur non ricorrendone gli elementi costitutivi, al più sintomatici per la configurabilità del reato di molestia. Con il secondo motivo la difesa lamenta analogo vizio motivazionale sotto il profilo della insufficienza e genericità in ordine alla mancata concessione delle invocate circostanze attenuanti generiche. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è manifestamente infondato, oltre ad essere caratterizzato da quello stesso vizio di genericità che la difesa intende imputare alla sentenza impugnata. 
2. Osserva, infatti il Collegio che i due motivi di ricorso ricalcano le doglianze formulate con l'atto di appello alle quali la Corte territoriale ha dato una risposta corretta e completa, pur nella sua estrema sinteticità. Vero è che la Corte territoriale ha impropriamente fatto cenno ad una ipotetica volontà da parte della persona offesa di rimettere la querela (circostanza a detta della Corte esclusa dal Tribunale), laddove poteva parlarsi solo di una possibile ed astratta possibilità di incertezza da parte della vittima circa la sua volontà querelatoria (così il Tribunale a pag. 3 della sentenza di primo grado). Si tratta, in ogni caso, di una motivazione ridondante, ricordandosi che in tema di reati sessuali - ed in particolare di quello previsto dall'art. 609 bis cod. pen. - la querela, una volta proposta, è irrevocabile (art. 609 septies comma 2°). Il motivo, comunque, ripropone negli stessi termini una censura che ha trovato risposta nella sentenza impugnata, risposta che, in relazione omogeneità delle due decisioni, può senz'altro definirsi adeguata, ricordandosi il principio secondo il quale la struttura motivazionale della sentenza di appello, laddove le pronunce di primo e di secondo grado risultino concordanti nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a base delle rispettive decisioni, si salda e si integra con quella precedente di primo grado così giustificando da parte dei giudice di secondo grado una motivazione per relationem. (Cass, Sez. 2, 10.1.2007 n. 5606, Conversa e altri; Rv. 236181; Cass. Sez. 1, 26.6.2000 n. 8868, Sangiorgi, Rv. 216906; Cass. Sez. Un. 4.2.1992 n. 6682, Pm., p.c, Musumeci ed altri, Rv. 191229). 
3. Altrettanto correttamente la Corte ha ribadito la sussistenza del reato di violenza sessuale - seppure nella forma attenuata ex art. 609 bis u.c. cod. pen. come già statuito dal Tribunale - sottolineando come, ai fini della configurabilità di tale fattispecie, non sia necessario né il contatto epidermico con la zona erogena, né il compimento di atti prolungati di palpeggiamento (al più, incidenti in ordine alle modalità del fatto ed all'elemento soggettivo del reato) (in termini Sez. 3^ 21.9.2011 n. 39710, R. Rv. 251318; Sez. 3^ 15.4.2010 n. 21336, M., Rv. 247282; Sez. 4^ 3.10.2007 n. 3447, P. Rv. 238739). 
3.1. Ed altrettanto correttamente la Corte ha escluso che la condotta contestata integrasse la fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 660 cod. pen. nella forma della cd. "molestia sessuale", richiamando le condotte ripetute di palpeggiamenti nei glutei e delle cosce delle due donne oggetto di attenzioni sessuali. Valgono, ancora una volta, i criteri interpretativi enunciati in materia da questa Sezione, tenuti presenti dalla sentenza impugnata (Sez. 3^ 12.5.2010 n. 27042, S. J., Rv. 248064; Idem 6.6.2008 n. 2772, B., Rv. 240829), secondo i quali il reato di violenza sessuale si configura laddove si verifichi una condotta consistente in un toccamento non casuale (la involontarietà toglierebbe valenza criminale al gesto dei glutei o di altre parti anatomiche "sensibili" anche al fuori di un contatto diretto con l'epidermide, mentre si versa nella ipotesi contravvenzionale della molestia "sessuale" solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall'abuso sessuale. (v. anche Sez. 3^ 25.1.2006 n. 7369, P.M. in proc, Castana Rv. 234070). 
4. Quanto al secondo motivo - riguardante il diniego delle circostanze attenuanti generiche - la censura, oltre ad essere generica, in quanto ripetitiva di quanto già sottoposto all'esame del giudice di appello che ha fornito adeguata riposta sul punto, è anche platealmente infondata per quelle stesse condivisibili ragioni già espresse dalla Corte territoriale in merito alla irrilevanza di una situazione di rozzezza culturale quale giustificazione per l'ottenimento di dette attenuanti. Ed anzi la Corte distrettuale, nel valutare l'adeguatezza della pena, ne ha sottolineato la mitezza in funzione dell’avvenuto riconoscimento della circostanza diminuente di cui all'ultimo comma dell'art. 609 bis cod. pen. 
5. Alla pronuncia di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento - trovandosi egli in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - della somma di € 1.000,00 (che si ritiene congrua) in favore della Cassa delle Ammende. 

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1,000,00 in favore della Cassa delle Ammende. 

Studentessa, ma malata di sesso

Incredibile vicenda: minore degli anni 14 con sdoppiamento della personalità. Da un lato studentessa di buon profitto, dall'altra malata di sesso. Per la Cassazione tutte le volte che il partner possa avere dubbi sulla effetiva età della minore deve astenersi dal rapporto.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 aprile – 2 ottobre 2013, n. 40748 Presidente Teresi – Relatore Rosi 

Ritenuto in fatto 

1. La Corte di appello di Trieste, con sentenza in data 12 luglio 2011, in parziale riforma della sentenza emessa all'esito di giudizio abbreviato dal G.u.p. presso il Tribunale di Trieste in data 19 ottobre 2010, ha ridotto la pena ad anni quattro e mesi due per C.R. , imputato del reato di cui agli artt. 81 cpv., 609 quater, c. 1 nn. 1 e 2 c.p., in quanto, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, compiva nel proprio appartamento, reiteratamente, atti sessuali con N..P. , minore di anni 14, consistenti in coiti orali, vaginali ed altri atti, in (omissis) , con recidiva specifica; ha confermato la condanna di A.R.A. alla pena di anni due di reclusione, imputato dei reati di cui all'art. 600 quater c.p., in quanto deteneva materiale pedopornografico di P.N. , minore di 14 anni, e del reato di cui all'art. 609 quater c.p., in quanto compiva atti sessuali consistiti in rapporti sessuali completi con la suddetta minore, in ..., in data imprecisata, verosimilmente nel (omissis) e comunque prima del (omissis) ; ha ridotto la pena ad anni tre di reclusione a G.R. , imputato del reato di cui agli artt. 81 cpv., 609 bis, c. 2, n. 1 e 609 ter, c. 1 nn. 1 e 2 e 609 quater c.p., perché, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, compiva nel proprio appartamento, reiteratamente, atti sessuali (anche coiti orali) con N..P. , minore di 14 anni, anche abusando delle condizioni di inferiorità psichica procuratele con abuso di alcolici, in (omissis) sino alla seconda metà di (omissis) , con recidiva reiterata. 
2. Le sentenze di merito hanno affermato la responsabilità dei ricorrenti (e di altro imputato non impugnante) per reati sessuali commessi, ciascuno con condotte del tutto autonome, in danno della medesima ragazza minore di quattordici anni. I fatti erano emersi a seguito di un'indagine di polizia giudiziaria, attivatasi da una fonte confidenziale, e svolta con appostamenti, intercettazioni telefoniche e dei testi degli SMS scambiati dalla P. con alcuni uomini, identificati con gli imputati; Le indagini erano culminate in un'irruzione nell'abitazione del C. colto in un atto sessuale con la minore ed arrestato in flagranza. I giudici avevano dato atto della situazione della minore, affidata in comunità dopo i fatti, la quale, trascurata dai genitori ed affidata ad anziani amici di famiglia, era stata iniziata al sesso sin dall'età di nove anni da uno di essi, e viveva un vero e proprio sdoppiamento di personalità a soli tredici anni: da un lato studentessa di un buon rendimento scolastico, curata ed allegra, dall'altro "malata di sesso", alla ricerca di relazioni sessuali con uomini maturi. In questo quadro i giudici avevano differenziato i comportamenti ascritti agli imputati, i quali avevano approfittato della situazione di fatto, differenziando del pari il grado di responsabilità. 
3. Avverso la sentenza ha proposto ricorso C.R. , tramite il proprio difensore, lamentando erronea applicazione della legge penale per la mancata applicazione dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 c.p.; successivamente l'imputato ha presentato in data 23 aprile 2013 dichiarazione di rinuncia all'impugnazione come proposta. 
4. Avverso la sentenza hanno altresì proposto ricorso, tramite i propri difensori, gli altri due imputati chiedendone l'annullamento. 
A.R.A. ha lamentato: 1) Erronea applicazione della legge penale in riferimento alla previsione di cui all'art. 609 sexies c.p. e difetto di motivazione e contraddittorietà della stessa, in riferimento agli atti processuali specificamente indicati nei motivi di gravame, ai quali non è stata fornita risposta, circa l'ignoranza da parte dell'A. dell'età della P. , dovendosi tenere conto che la stessa, essendo nata il (OMISSIS) , non aveva ancora compiuto 14 anni all'epoca dei fatti, ma era assolutamente pacifico che era stata la ragazza a provocare l'incontro con l'A. utilizzando una chat per adulti, inoltre dal tenore degli SMS scritti dalla ragazza emergeva la sua spregiudicatezza, anche perché la stessa gli aveva detto di avere 15 anni; 2) Erronea applicazione della legge penale e incongrua motivazione circa il reato di cui all'art. 600 quater c.p., posto che le sembianze delle foto rinvenute nel cellulare dell'imputato riproducevano la vagina ed il sedere della minorenne, ma non effigiavano il volto, per cui le stesse non possono essere definite dal punto di vista oggettivo pedopornografiche, mancando la raffigurazione della persona umana e dell'atteggiamento sessuale della stessa; 3) Mancanza e contraddittorietà della motivazione laddove sono state negate le attenuanti generiche, a fronte di elementi in atti, posto che l'A. non trattò affatto la minore come una prostituta, anzi fu gentile con lei come si evince dai contenuti dei messaggi scambiati, in riferimento all'unico incontro avvenuto con la stessa; 4) Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione circa la mancata applicazione della pena nel suo minimo edittale. 
G.R. ha lamentato: 1) Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione per travisamento delle prove, in quanto i testi Valenti e Catanzaro avevano riferito che il G. era rientrato a casa quanto la P. era già ubriaca nel giardino dell'abitazione, dove era entrata clandestinamente, come del resto dalla stessa affermato nelle sommarie informazioni testimoniali rese in seconda battuta, per cui il fatto ascritto non sussiste; 2) Contraddittorietà della motivazione ed erronea applicazione della legge penale quanto al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'ultimo comma dell'art. 609 bis c.p., atteso che l'imputato non ebbe mai rapporti completi con la ragazza, come la stessa afferma, e comunque non risulta sussistente alcun stato di soggezione tra la minore ed il G. , proprio perché la ragazza era assolutamente disinibita sotto il profilo sessuale ed aveva avuto ripetute esperienze sessuali con altri uomini, per cui era stata la stessa a prendere l'iniziativa sessuale. 

Considerato in diritto 

1. Innanzitutto questo Collegio rileva che C.R. , con dichiarazione depositata il 23 aprile 2013, ha manifestato la volontà di rinunciare al ricorso per cassazione ed ha nel contempo chiesto l'immediata esecutività della sentenza emessa dalla Corte di appello di Trieste, per cui si è realizzata una causa di inammissibilità del ricorso ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. d) c.p.p. e, di conseguenza, il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio e della somma di Euro cinquecento in favore della Cassa delle ammende. 
2. Riguardo ai ricorsi degli altri due imputati, va premesso che questa Corte ha affermato il principio di diritto in base al quale, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell'8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell'8/8/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116). È stato inoltre precisato che se l'appellante ha riproposto questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relationem. 
3. Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle esaustive argomentazioni sviluppate nel dettaglio nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione autonoma dei motivi di appello sui punti specificamente indicati ed hanno esaustivamente e correttamente motivato anche le ragioni dell'attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, peraltro riscontrate in maniera consistente dalle intercettazioni, dall'esito degli appostamenti di polizia giudiziaria e della scoperta in flagranza del reato ascritto al C. , dall'esito delle perquisizioni e sequestri e dalle dichiarazioni dei testimoni, atti tutti facenti parte del fascicolo delle indagini preliminari utilizzato per il giudizio per effetto dell'opzione del giudizio abbreviato. 
4. Tanto premesso e passando ad esaminare il ricorso dell'A. , va innanzitutto respinto il primo motivo. Non è infatti ravvisabile alcuna errata interpretazione dell'art. 609 sexies c.p., né alcun vizio di motivazione. Oltre al principio, già ricordato nella sentenza impugnata (affermato con sentenza Sez. 3, n. 32235 del 11/7/2007, dep. 7/8/2007, B., Rv. 237654), debbono essere richiamati i contenuti della sentenza della Corte costituzionale n. 322 del 2007, che ebbe a respingere la questione di costituzionalità della norma escludendo che la stessa abbia istituito una presunzione assoluta di conoscenza; il Giudice delle leggi ha infatti precisato che "qualora gli strumenti conoscitivi e di apprezzamento di cui il soggetto attivo dispone lascino residuare il dubbio circa l'effettiva età - maggiore o minore dei quattordici anni - del partner, detto soggetto, al fine di non incorrere in responsabilità penali, deve necessariamente astenersi dal rapporto sessuale: giacché operare in situazione di dubbio circa un elemento costitutivo dell'illecito (o un presupposto del fatto) - lungi dall'integrare una ipotesi di ignoranza inevitabile - equivale ad un atteggiamento psicologico di colpa, se non, addirittura, di cosiddetto dolo eventuale". La Corte di appello nel respingere il medesimo motivo proposto in tale sede, ha anche sottolineato il fatto che, come emergeva dal contenuto degli SMS intercettati, la questione relativa all'età della minore non solo era stata posta, ma la ragazzina aveva con evidenza fatto intendere di non avere quattordici anni, sicché nessun errore incolpevole, in quanto inevitabile, può essere addotto dall'A. sul punto. 
5. Quanto al secondo motivo di ricorso avanzato, risulta corretta la sentenza impugnata, laddove conclude che le fotografie trovate in possesso all'A. sono immagini normativamente qualificabili come pedopornografiche, posto che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato il principio che un materiale fotografico o video è definibile pedopornografico quando ritragga o rappresenti un minore degli anni diciotto "implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, quale può essere anche la semplice esibizione lasciva dei genitali o della regione pubica" (cfr. Sez.3, n. 10981 del 4/3/2010, dep. 22/3/2010, K., Rv. 246351). Orbene nel caso di specie, i giudici di merito hanno evidenziato non solo che è indiscusso che le immagini rappresentano gli organi genitali di una minore di anni 14 (e non è affatto condivisibile l'assunto difensivo che ritiene indispensabile per considerare la natura pedopornografica di un immagine la riproduzione dell'effige del minore), ma anche che le stesse furono richieste dall'imputato, e spedite dalla P. stessa in cambio di una ricarica del telefono cellulare, al fine di evocare nel ricevente A. , il soddisfacimento sessuale connesso ai rapporti sessuali posti o da porre in essere con la minore. Pertanto risulta evidente che è stata realizzata quella "esibizione lasciva dei genitali" di un soggetto minore necessaria, ratione temporis (ossia prima della modifica apportata con la legge n. 172 del 2012), alla realizzazione della fattispecie contestata. 
6. Vanno respinti anche il terzo ed il quarto motivo proposti dall'A. , con i quali sono state censurate le valutazione dei giudici in materia di dosimetria della pena, anche in seguito al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. A tale proposito i giudici di appello hanno puntualmente espresso le ragioni delle proprie determinazioni in punto di dosimetria sanzionatoria, precisando come l'ammissione dei fatti fosse stata necessitata dall'evidenza probatoria del contenuto di oltre duecento pagine di messaggi SMS scambiati con la P. a sfondo sessuale, in vista di un successivo incontro di novembre, che non si è tenuto per l'intervento delle indagini relative al procedimento, per cui non potevano essere riconosciute le circostanze attenuanti generiche e dovesse, di contro, ritenersi anche perfettamente adeguata ai fatti come accertati la pena inflitta dal primo giudice, che peraltro ebbe a riconoscere l'attenuante di cui al comma 4 dell'art. 609 quater c.p., a ragione dell'unico incontro sessuale, seppure dietro corrispettivo, intervenuto tra l'uomo e la minore. D'altra parte, quanto all'incensuratezza dell'imputato, è principio pacifico in giurisprudenza che nell'applicazione delle circostanze attenuanti generiche il giudice non deve tenere conto unicamente di tale dato, ma deve considerare anche gli altri indici desumibili dall'art. 133 c.p. (cfr. Sez. 4, n. 31440 del 25/06/2008, PG in proc. Olivarria Cruz, Rv. 241898), indici per l'appunto considerati nel caso di specie dai giudici di merito. Di conseguenza, il ricorso dell'A. deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p.. 
7. Anche il primo motivo di ricorso di G. è infondato e valgono le considerazioni già esposte in precedenza. I giudici di merito (si veda sentenza di primo grado p. 6) hanno chiarito le ragioni per le quali le prime dichiarazioni della ragazzina, avvenute subito dopo l'arresto del C. , erano state meno esaustive di quelle rese nella deposizione del 20 gennaio 2010, più dettagliata, nella quale la stessa Nicole aveva ricostruito la relazione con il G. . Riscontri specifici di tale versione, che ha portato alla conferma dei reati ascritti al medesimo, sono stati individuati nei contenuti delle intercettazioni (laddove la minore fa esplicito riferimento alle modalità dei rapporti orali), nella foto che riprende la ragazzina in mutande e reggiseno in una stanza indicata dalla polizia giudiziaria come appartenente all'abitazione dell'uomo, nel possesso del vibratore al quale la P. aveva fatto riferimento, ed anche nelle stesse confidenze della minore circa la relazione con il G. rese all'imputato C. ed alla di lui moglie. Non sussiste quindi alcun contrasto tra le dichiarazioni, ma un progressivo disvelamento dei fatti, che non pone le dichiarazioni in contrasto logico tra loro; inoltre i giudici di appello hanno fornito un'ampia motivazione priva di smagliature logiche (pp. 24 e 25 della sentenza di appello) sulle ragioni per le quali non poteva essere ipotizzato alcun movente di vendetta tale da giustificare le menzogne della minore asserite dalla difesa del G. . 
8. Risulta invece fondata la seconda censura. La Corte di appello ha rideterminato la pena base comminata al G. , ma ha negato di poter riconoscere nel fatto contestato la circostanza attenuante di cui al comma 4 dell'art. 609 quater c.p., considerando che la mancanza di rapporti sessuali completi non poteva incidere sulla lesività complessiva della condotta dell'imputato, non solo dimenticandosi che la specifica circostanza attenuante era stata riconosciuta, in favore dell'imputato A. , dal giudice di primo grado, sulla base del fatto che il rapporto sessuale fosse stato provocato dalla ragazza, ma che la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio che la circostanza attenuante della minore gravità del fatto in riferimento ai reati sessuali commessi in danno di minori può essere riconosciuta se gli atti compiuti non comportano una rilevante compromissione dell'integrità psico-fisica della persona offesa, anche se non rileva, di per sé, l'eventuale consenso della stessa, insito nel reato in esame (cfr. Sez.3, n. 11252 del 10/2/2010, dep. 24/3/2010, P.G. in proc. R., Rv. 246593). Del resto è la stessa sentenza di secondo grado a porre ripetutamente in evidenza il fatto che la ragazzina fosse purtroppo stata condotta verso uno sdoppiamento di personalità, con conseguente assenza di controllo delle sue pulsioni sessuali. Né può essere considerato congruo il rilievo formulato dai giudici di appello (p. 26 della sentenza) della impossibilità di differenziare la diversa lesività dei comportamenti posti in essere dai singoli imputati sulla medesima minore, posto a ragione giustificatrice della reiezione della invocata circostanza attenuante. Di conseguenza la decisione impugnata, limitatamente alla reiezione della circostanza attenuante del fatto lieve, deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste per nuovo giudizio sulla configurabilità o meno di tale circostanza attenuante, mentre nel resto il ricorso del G. va rigettato. 

P.Q.M. 

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di G.R. limitatamente alla circostanza di cui al comma 4 dell'art. 609 quater c.p. con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste, rigetta nel resto il ricorso del G. ; rigetta il ricorso di A.R.A. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali; dichiara inammissibile il ricorso di C.R. e lo condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro cinquecento in favore della cassa delle ammende.