venerdì 19 dicembre 2014

"Tu sei pazzo" non é reato

Una donna dice al marito separato di una sua amica: ma tu sei pazzo!!! Per la Cassazione non è reato.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 16 settembre – 4 dicembre 2014, n. 50969 Presidente Marasca – Relatore Lignola 

Ritenuto in fatto 

1. Con la sentenza impugnata, il Giudice di pace di Gioiosa Ionica condannava F.C. alla pena di € 258 di multa, per il reato di cui all’articolo 594 cod. pen., per aver pronunciato l’espressione “sei pazzo” alla presenza di D’A.S., così offendendone l’onore ed il decoro. 
2. Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputata, articolando due motivi. 
2.1 Con il primo motivo si deduce violazione dell’articolo 606, lettera B ed E, cod. proc. pen., per vizio di motivazione, consistito nell’omessa considerazione di circostanze e modalità di svolgimento del fatto che escludono la sussistenza del reato, nonché per falsa applicazione dell’articolo 594 cod. pen. 
La ricorrente rileva che la ricostruzione dei fatti è pacifica, e che la frase è stata pronunciata nei locali della caserma dei Carabinieri, ove la sua amica C.C.S. si era recata a sporgere denuncia nei confronti del coniuge separato D’A.S., per reati commessi nei suoi confronti, nell’ambito di un rapporto di conflittualità originato da un provvedimento del Tribunale per i minorenni, che limitava il diritto dell’uomo di incontrare i figli. 
La ricorrente contesta il valore diffamatorio della parola “pazzo”, entrata ormai nel linguaggio parlato di uso comune, tanto da divenire espressione, sintetica ed efficace, rappresentativa di un comportamento fuori dalla buona educazione e dalle righe della pacata discussione. Ancorché poco corretto e disdicevole, l’uso del termine non è tale da superare la soglia del penalmente rilevante, considerato il contesto in cui è stato adoperato e la forma interrogativa utilizzata dall’imputata (“ma tu sei pazzo, chi sei tu?”). Dunque nel caso di specie è assente non solo l’elemento materiale del reato, ma anche l’elemento psicologico, considerato lo stato di profondo disagio causato dal precedente comportamento della persona offesa, descritto anche dal giudice di merito. 
2.2 Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 606, lettera E, cod. proc. pen., in relazione all’art. 599 cod. proc. pen.. Con memoria difensiva ed in sede di discussione, infatti. la difesa aveva invocato l’esimente della provocazione, rappresentata dall’atteggiamento litigioso, contrario al vivere civile, tenuto dall’imputato prima innanzi all’istituto scolastico e, successivamente, fuori e dentro la caserma. 

Considerato in diritto 

1. II ricorso va accolto. 
In particolare risulta fondato il primo motivo, riguardante l’insussistenza del fatto, con conseguente assorbimento del secondo. 
1.1 In via generale va ricordato che, al fine di accertare se l’espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 cod. pen., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia stata pronunciata ed alla coscienza sociale (Sez. 5, n. 32907 del 30/06/2011, Di Coste, Rv. 250941; Sez. 5, n. 21264 dei 19/02/2010, Saroli, Rv. 247473; Sez. 5, n. 39454 del 03/06/2005, Braconi, Rv. 232339). Infatti il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono: se è vero infatti che in linea di principio l’uso abituale di espressioni disdicevoli non può togliere alle stesse l’obiettiva capacità di ledere l’altrui prestigio, ve ne sono alcune che, in relazione proprio al contesto comunicativo, perdono la loro potenzialità lesiva. 
1.2 Come rilevato dalla Suprema Corte anche recentemente (Sez. 5, n. 19223 del 14/12/2012 - dep. 03/05/2013, Fracasso, Rv. 256240), l’utilizzo di un linguaggio più disinvolto, più aggressivo, meno corretto di quello in uso in precedenza caratterizza oggigiorno anche il settore dei rapporti tra i cittadini, derivandone un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale: siffatto modo di esprimersi e di rapportarsi all’altro, infatti, se è certamente censurabile sul piano del costume, è ormai accettato (se non sopportato) dalla maggioranza dei cittadini. 
1.3 L’indubbia carica offensiva dell’espressione “pazzo”, allora, non determina automaticamente la lesione del bene protetto dalla fattispecie di cui all’art. 594, cod. pen., proprio perché la frase incriminata non si è tradotta in un oggettivo giudizio di disvalore sulle qualità personali del D’A., considerato il contesto di conflittualità nel quale è stata pronunciata e la forma interrogativa adoperata dall’imputata. 
1.4 Tale valutazione in sede di legittimità è consentita, poiché dovendosi verificare il significato di una comunicazione testuale, al fine di accertare se un determinato enunciato sia effettivamente offensivo della reputazione altrui, viene in rilievo una questione di qualificazione giuridica, che può essere risolta direttamente anche dal giudice di legittimità (Sez. 5, n. 35548 del 19/09/2007, Grosso, Rv. 237729) 
2. In conclusione, escluso il carattere offensivo della frase incriminata, la impugnata sentenza va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste. 

P.Q.M. 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Dare dello scemo é reato

Dare dello scemo ad una persona è reato. Per la Cassazione ha valenza negativa.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 10 novembre – 15 dicembre 2014, n. 52082 Presidente Dubolino – Relatore Demarchi Albengo 

Ritenuto in fatto 

1. P.D., imputato dei reati di cui agli articoli 612 e 594 del codice penale, commessi nei confronti di Perugini Francesco, è stato condannato dal giudice di pace di Ancona per il reato di ingiuria ed assolto per quello di minaccia. 
2. Contro la predetta sentenza propone ricorso per cassazione l'imputato per erronea applicazione di legge, nonché vizio di motivazione, in merito al riconoscimento della fattispecie delittuosa di cui all'articolo 594 cod. pen.; la motivazione sarebbe contraddittoria perché la condanna si fonda sulle dichiarazioni della persona offesa che sono state ritenute inattendibili per quanto riguarda il reato di cui all'articolo 612 cod. pen.. Lamenta, poi, che non sia stata ritenuta la scriminante della provocazione e contesta che il termine "scemo" abbia valenza ingiuriosa ai sensi della legge penale. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso é infondato; per quanto riguarda la prima censura, è sufficiente precisare che la valutazione frazionata dell'attendibilità del teste persona offesa è stata giustificata con il fatto che sull'ingiuria - intesa come dato di fatto oggettivo - vi è stata l'ammissione dell'imputato, mentre per quanto riguarda le minacce non vi è stato alcun riscontro. 
2. Quanto alla concessione della scriminante della provocazione, non può certo ritenersi tale il mancato raggiungimento di un accordo transattivo, di cui peraltro non si dice nemmeno a chi dei due contendenti sia addebitabile e per quale motivo (rendendo, pertanto, sul punto il ricorso aspecifico). 
3. Infine, quanto alla natura ingiuriosa della parola "scemo", occorre ricordare che Le frasi volgari e offensive sono idonee a integrare gli estremi del reato (di oltraggio) anche se siano divenute di uso corrente in particolari ambienti perché l'abitudine al linguaggio volgare e genericamente offensivo proprio di determinati ceti sociali non toglie alle dette frasi la loro obiettiva capacità di ledere il prestigio del pubblico ufficiale, con danno della pubblica amministrazione da esso rappresentata (nella fattispecie era stata ritenuta oltraggiosa la frase "vieni qui scemo, cretino"; cfr. Sez. 6, n. 6431 del 25/02/1989, CATALDI, Rv. 181175). 
4. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

martedì 18 novembre 2014

Urinare in strada.

Un uomo fa la pipì vicino all’ingresso di un'abitazione. Atto disgustoso ma non è reato, manca l'elemento soggettivo.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 27 maggio – 17 novembre 2014, n. 47244 Presidente Teresi – Relatore Gentili 

Ritenuto in fatto 

II giudice di pace di Bergamo, con sentenza del 9 maggio 2013, ha assolto, per non aver commesso il fatto, C.G.F., imputato del reato di cui all'art. 726 cod. pen., per avere compiuto atti contrari alla pubblica decenza, consistenti nell'avere orinato vicino all'ingresso della abitazione di tale R. F.M.sita in Bergamo. 
La sentenza assolutoria era motivata attraverso il richiamo della testimonianza di tale C.G., alla luce della quale, sostiene il giudicante, emergerebbe che, stanti le sue modalità, il fatto non costituirebbe reato, e di tale B.N., verosimilmente appartenente alle forze dell'ordine, il quale ha dichiarato di essere stato mandato sul posto dalla centrale operativa e di avere riscontrato che era in corso una lite fra il C. ed il R.F.. 
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Corte di appello di Brescia, il quale ha dedotto la manifesta illogicità della sentenza per non avere il Giudice di pace tenuto conto dei fatto che lo stesso C. nel verbale di querela orale da lui sporta, peraltro in data imprecisata, avrebbe ammesso i fatti nella loro materialità. 
Peraltro, aggiunge il ricorrente, la sentenza, in modo contraddittorio, dapprima sembra avvalorare una formula assolutoria per assenza dell'elemento soggettivo, salvo poi, in dispositivo, propendere per la formula del "non aver commesso il fatto". 

Considerato in diritto 

Il ricorso, risultato infondato non è, pertanto, meritevole di accoglimento. 
Osserva il Collegio, in linea di principio, che per giurisprudenza pacifica di questa Corte "sono atti contrari alla pubblica decenza tutti quelli che in spregio ai criteri di convivenza e di decoro che debbono essere osservati nei rapporti tra i consociati, provocano in questi ultimi disgusto o disapprovazione come l'urinare in luogo pubblico. Né la norma dell'art. 726 cod. pen., esige che l'atto abbia effettivamente offeso in qualcuno la pubblica decenza e neppure che sia stato percepito da alcuno, quando si sia verificata la condizione di luogo, cioè la possibilità che qualcuno potesse percepire l'atto" (cfr. ex multis: Corte di cassazione, Sezione V penale, 28 aprile 1986, n. 3254; idem Sezione III penale, 25 ottobre 2005 n. 45284; più di recente: idem Sezione III penale, 25 marzo 2010 n. 15678; nonché, da ultimo: idem Sezione III penale, 16 settembre 2013, n. 37823). 
Il reato in questione poi si differenzia da quello di cui all'art. 527 cod. pen., in quanto la distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave il pudore sessuale, suscitando nell'osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono in via esclusiva il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 marzo 1985, n. 2447). 
Ciò posto osserva il Collegio che, secondo quanto risulta dal tenore della impugnazione proposta dal PG, questi si duole dei fatto che il Giudice di pace, dopo avere affermato che, alla luce delle risultanze istruttorie e della documentazione acquisita, era emerso che, tenuto conto delle modalità dell'accadimento, il fatto non costituiva reato, abbia poi provveduto ad assolvere l'imputato per non aver commesso il fatto. 
Invero, rileva la Corte, al netto di una certa imprecisione terminologica di cui è sicuramente vittima l'estensore della sentenza impugnata, è ben chiaro che l'apparente antinomia fra motivazione e dispositivo della sentenza è risolvibile ritenendo che la formula utilizzata nel dispositivo (peraltro non riportata fedelmente nel suo ricorso neppure dal Pg), secondo la quale l'imputato deve essere mandato assolto dal reato di cui all'art. 726 cod. pen. "perché non lo ha commesso", va intesa non, certamente, nel senso che il reato è stato commesso da altri, ma nel senso che la condotta del C. non integra gli estremi del reato, cioè, essa non costituisce reato, così come riportato in sentenza. 
D'altra parte il riferimento alle modalità dell'accadimento presente nella sentenza offre più di un elemento per ritenere che il Giudice di pace di Bergamo abbia ritenuto carente dell'elemento soggettivo, anche con riferimento al profilo della sola colpa, la condotta (l'accadimento) pur realizzata dal C.. 
Deve, infine, rilevarsi che non vi è, per costante giurisprudenza di questa Corte, un apprezzabile interesse alla impugnazione della sentenza ad opera della parte pubblica-laddove la impugnazione abbia ad oggetto la erroneità della formula assolutoria adottata dal giudicante (Corte di cassazione, Sezione III penale, 20 marzo 2009, n. 12482). 
Deve, conclusivamente, rigettarsi il ricorso del Procuratore generale. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Brescia. 

Guida in stato di ebbrezza: confisca veicolo anche se in comproprietà

Guida in stato di ebbrezza. Comproprietà veicolo? Il veicolo va confiscato.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 25 settembre – 13 novembre 2014, n. 47024 Presidente Brusco – Relatore Zoso 

Ritenuto in fatto 

R. Luca era imputato della contravvenzione di cui all'articolo 186, commi primo e secondo lettera c e secondo sexies del decreto legislativo 30 aprile 1992 numero 385 perché era stato colto alla guida dell'autovettura Mito targata EDXXXXX in stato di ebbrezza dovuto all'uso di bevande alcoliche con valore di tasso alcolemico oltre 1,5 g per litro in T.B. alle ore 00.56 del 6 gennaio 2013. 
L'imputato chiedeva di definire il giudizio mediante applicazione della pena ex articolo 447 c.p.c. ed il tribunale di Arezzo, avendo il pubblico ministero prestato il consenso, riconosciute le attenuanti generiche ed operata la diminuzione per la scelta del rito, applicava la pena di mesi due e giorni 24 di arresto ed euro 872 di ammenda, sostituita a norma dell'articolo 186, comma 9 bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992 numero 385, con la pena del lavoro di pubblica utilità da effettuarsi presso la Confraternita di Misericordia di Montevarchi per la durata di giorni 84; applicava, poi, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per la durata di anni tre. Osservava il tribunale che la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida andava determinata nella durata di anni uno e mesi sei, dovendosi ritenere tale periodo proporzionato ai valori alcolimetrici riscontrati pari a 2,02 e 2,09 grammi per litro, e doveva essere raddoppiata poiché il veicolo apparteneva a persona estranea al reato. 
Avverso la sentenza proponeva ricorso per cassazione R.L. svolgendo due motivi di doglianza. 
Con il primo motivo deduceva erronea applicazione della legge penale sostanziale in relazione alla previsione dell'articolo 186, comma due, lettera C, decreto legislativo 285/92 e mancanza e/o manifesta illogicità e/o contraddittorietà della motivazione risultante dal testo della sentenza per avere il tribunale travisato le risultanze probatorie. Sosteneva il ricorrente che l'autovettura da lui guidata era cointestata a sé medesimo ed alla convivente A.O. ed il tribunale di Arezzo, contravvenendo alla norma di cui all'articolo 186 del decreto legislativo 285/92, aveva disposto il raddoppio della durata della sospensione della patente di guida benché la vettura fosse cointestata al guidatore. La motivazione addotta dal tribunale a sostegno della decisione era illogica e contraddittoria in quanto risultava dal PRA la cointestazione dell'auto ed il giudicante aveva ritenuto superata la presunzione di comproprietà del veicolo, prevista dall'articolo 6 del RDL 15 marzo 1927 numero 436, per il fatto che la polizia giudiziaria non aveva disposto il sequestro del veicolo. 
Con il secondo motivo di doglianza il ricorrente deduceva inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale in relazione alla previsione di cui all'articolo 186, comma secondo, lettera C del Codice della Strada essendo eccessivo e sproporzionato il periodo di sospensione della patente di 
guida inflitto e facendo difetto la motivazione in relazione alla commisurazione della sanzione medesima. 
Il procuratore generale concludeva chiedendo l'accoglimento del ricorso con riguardo al primo motivo, dovendosi ritenere infondato il secondo, con conseguente pronuncia di annullamento con rinvio ad altro giudice dello stesso tribunale. 

Considerato in diritto 

In ordine al primo motivo di ricorso, si osserva quanto segue. 
Nella motivazione della sentenza si legge: "Non può conseguire la confisca amministrativa del veicolo giacché esso risulta al PRA cointestato al R. ed a tale A.O. ma non vi sono elementi che consentano di ritenere che sia civilisticamente di comproprietà del primo ( ed infatti non consta che la polizia giudiziaria abbia proceduto al sequestro amministrativo )." La motivazione in sè appare illogica considerato che questa Corte di legittimità ha affermato il principio che "È ammissibile la confiscabilità parziale di un compendio sequestrato allorché una sola parte di esso sia di proprietà del condannato e la confisca dell'intero verrebbe a sacrificare i diritti di terzi estranei al reato, quali sono gli eredi dell'imputato prosciolto da esso per morte. Al riguardo non va confusa l'applicabilità della misura di sicurezza che trova la sua disciplina nell'art. 240 cod. pen. con le modalità di esecuzione di essa quando un compendio di beni sia indivisibile o indiviso e possa comportare una incidentale comunione tra lo stato ed altri soggetti rispettivamente nella parte (o nella quota) soggetta alla misura ed altra cui essa non è estensibile" (Sez. III 17.10.1984 n.1650 rv. 167059). Principio ribadito da questa stessa sezione sez IV 27.1.2011n. 2819; IV 3.7.2009 n.41870 rv 245439; massime precedenti conformi: N. 2887 dei 2008 Rv. 238592, N. 28189 del 2009 Rv. 244690). Ciò posto, da un lato il tribunale ha affermato che il veicolo, secondo quanto risulta dal PRA, è cointestato all'imputato, dall'altro ha ritenuto che dal fatto che la polizia giudiziaria non aveva proceduto al sequestro si doveva dedurre la prova dell'insussistenza della comproprietà. Sennonché, come affermato da questa corte di legittimità ( Sez. 3 civ. n. 9314 del 20/04/2010, Rv. 612775) l'iscrizione nel pubblico registro automobilistico (p.r.a.) del trasferimento di proprietà di un'autovettura, prevista dall'art. 6 dei r.d.l. 15 marzo 1927, n. 436, convertito nella legge 19 febbraio 1928, n. 510, pur essendo volta a dirimere i conflitti tra aventi causa dal medesimo venditore, assume, altresì, valore di prova presuntiva in ordine all'individuazione del proprietario del veicolo. Ne consegue che la prova contraria dell'insussistenza del diritto di comproprietà del veicolo in capo al R. non può derivare dalla mera constatazione del non avere la polizia giudiziaria proceduto al sequestro del medesimo. Da ciò deriva che il veicolo avrebbe dovuto essere confiscato e la durata della sanzione accessoria della sospensione della patente di guida non avrebbe dovuto essere raddoppiata. 
Sennonché, in difetto di ricorso incidentale del Procuratore Generale, la confisca non può essere disposta e la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla durata della sospensione patente di guida che va determinata in anni uno e mesi sei, con esclusione del raddoppio. E non è ravvisabile il vizio di violazione di legge nella sentenza impugnata relativamente alla durata della sospensione della patente di guida in quanto tale sanzione accessoria, determinata nella durata di anni uno e mesi sei, ancorché erroneamente raddoppiata per la ritenuta non cointestazione del veicolo in capo al R., è contenuta entro i limiti previsti dalla norma; neppure è ravvisabile il difetto di motivazione poiché il tribunale, con motivazione esaustiva ed esente da vizi logici, ha ritenuto proporzionata la sanzione accessoria così determinata ai valori alcolimetrici riscontrati ( 2,02 e 2,09 g/I ), superiori di un terzo rispetto al valore minimo di riferimento indicato dall'art. 186, comma secondo, lettera c del C.d.S.. Tale motivazione è idonea a supportare la decisione e l'analisi di ulteriori elementi si risolverebbe in un giudizio di merito che è precluso in questo giudizio di legittimità. 

P.Q.M. 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata della sospensione della patente di guida; durata che determina in anni uno e mesi sei. Rigetta il ricorso nel resto. Così deciso il 25.9.2014.

giovedì 23 ottobre 2014

Finalmente alle sezioni unite la questione sull'accertamento alcooltest

L’autista che non viene informato dalla polizia della facoltà di farsi assistere da un legale prima di sottoporsi al controllo per guida alterata dall’alcol può eccepire la nullità del procedimento anche in sede di decreto penale di condanna. La questione alle Sezioni Unite.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 26 settembre – 21 ottobre 2014, n. 43847 Presidente Brusco – Relatore Piccialli 

Ritenuto in fatto 

Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia ricorre avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Treviso, in sede di opposizione a decreto penale di condanna emesso nei confronti di B.M. per la contravvenzione di cui all'articolo 186, comma 2 del codice della strada (fatto accertato in data (omissis) ), pronunciava sentenza di assoluzione dell'imputato con la formula perché il fatto non sussiste. 
Il giudicante - accogliendo l'eccezione difensiva svolta nella memoria depositata il 30 novembre 2011 (considerata quale primo atto difensivo concretamente esperibile contestuale all'atto di nomina a difensore fiduciario) - ha fondato tale decisione sulla ritenuta ricorrenza di una ipotesi di nullità a regime intermedio per essere stato omesso, da parte della polizia operante, previamente all'esecuzione dell'alcoltest, l'avviso all'indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore. Stante l'inutilizzabilità dell'atto, il giudice ha ritenuto mancante la prova della condotta tipica, ricorrendo alla formula assolutoria sopra richiamata. 
Con l'impugnazione il ricorrente deduce violazione di legge, perché, il giudicante, pur avendo correttamente qualificate come intermedia la nullità derivante dall'omesso avviso all'indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore, ha ritenuto l'inutilizzabilità dell'atto, pur essendo la stessa sanata ai sensi dell'art. 182 cod. proc. pen.. Nel caso di specie non risultava infatti che l'eccezione fosse stata formulata nei termini indicati da un consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale la citata nullità, avente natura incontestabilmente intermedia, deve ritenersi sanata se non dedotta prima ovvero immediatamente dopo il compimento dell'atto da parte dell'interessato, non ricorrendo facoltà processuali comportanti cognizioni tecniche professionali proprie del difensore (v. da ultimo Sezione IV, 4 giugno 2013, Proc. gen. App. Bologna in proc. Martelli, rv. 255989). 

Considerato in diritto 

Come è noto, in tema di guida in stato di ebbrezza, il cosiddetto alcool test, eseguito dall'agente accertatore, costituisce la prova "regina" a fondamento della responsabilità del conducente, anche perché solo attraverso l'esame alcolimetrico è possibile verificare quale delle tre ipotesi previste rispettivamente dalle lettere a), b) e c) del comma 2 dell'articolo 186 del codice della strada risulti integrata: la prima delle quali è di rilievo solo amministrativo. 
Il tema da affrontare è quello delle facoltà difensive attribuite all'interessato in occasione della sottoposizione all'esame tecnico, con particolare riferimento all'eventuale mancato avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell'articolo 114 delle disposizioni di attuazione cod. proc. pen.. 
Deve, invero, innanzitutto rilevarsi, sotto un profilo di ordine generale che l'atto in questione (il rilievo del tasso alcol emico mediante il c.d. alcol-test) è sussumibile nella previsione dell'art. 354 cod. proc. pen., concernente l'accertamento urgente e la conservazione delle tracce del reato, e che, ai sensi dell'art. 356 cod. proc. pen., il difensore dell'indagato "ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato", ai sensi, poi, dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., la polizia giudiziaria, nel compimento degli atti di cui all'art. 356 cod. proc. pen. avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia; in mancanza di questo, non è prevista per il compimento di tali atti la nomina di un difensore di ufficio come disposto per altri atti (tra gli altri, v. artt. 340,364 cod. proc. pen.). 
Ciò posto, per l'orientamento giurisprudenziale prevalente (v. da ultimo, Sezione IV, 4 giugno 2013, n.36009, P.G ed altro e, da ultimo, 11 marzo 2014, Pittiani, non massimata), il mancato avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell'articolo 114 delle disposizioni di attuazione cod.proc. pen., da luogo ad un nullità a regime intermedio, soggetta pertanto alla disciplina dettata dagli articoli 178, lettera c), 180 e 182 cod. proc. pen. Tale nullità deve, pertanto, ritenersi sanata se non è dedotta prima del compimento dell'atto, oppure, se ciò non è possibile, immediatamente dopo il compimento dell'atto al quale la parte ha partecipato, ai sensi dell'articolo 182, comma 2, cod. proc. pen., anche mediante lo strumento delle memorie o richieste, senza quindi attendere il compimento di un successivo atto del procedimento. 
Come emerge anche dall'ultima relazione sul tema dell'Ufficio del Ruolo e del Massimario n. 12 del 6 febbraio 2014, la giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nell'inquadramento della nullità predetta tra quelle generali a regime intermedio, dovendosi ritenere superate le diverse opzioni interpretative, secondo le quali tale nullità doveva essere qualificata come relativa (v. in tal senso, tra le altre, Sezione IV, 16 settembre 2003, n. 42020, P.M. in proc Della Luna, rv. 227294) e quelle decisioni che, invece, affermavano, sia pure con riferimento a fattispecie diverse da quella in esame, che il ritardato deposito del verbale contenente l'accertamento strumentale dell'alcoltest comportasse una mera irregolarità (v. Sezione IV, 5 marzo 2008, n. 15272, Ardolino, rv. 239538; 18 dicembre 2009, n. 1855/10, Testani, n.n.), ulteriormente precisando, in taluni casi, che il verbale contenente gli esiti del c.d. alcoltest non è soggetto al deposito ex articolo 366 c.p.p. e conseguentemente ritenevano non configurabile la nullità dell'accertamento urgente derivante dall'omesso deposito (v. Sezione IV, 7 febbraio 2006, n. 26738, Belogi, rv. 234512 e per altri riferimenti, anche la relazione del Massimario preliminare alla trattazione del procedimento Zedda rimesso alle Sezioni unite all'udienza del 25 marzo 2010 per la stessa questione, in caso identico a quello in esame, che non venne affrontata, in ragione dell'abnormità della sentenza impugnata). 
Inquadrata, alla luce della consolidata giurisprudenza sopra richiamata, la predetta nullità tra quelle a regime intermedio, va, invece, rilevata una diversità di interpretazioni nell'ambito della giurisprudenza di legittimità quanto al limite temporale entro il quale è utilmente proponibile l'eccezione di nullità. 
Sulla questione sono ravvisabili due distinti orientamenti. 
Il primo, più restrittivo, che parte da una interpretazione rigorosa della lettera dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., ritiene che l'assistenza della parte (nel caso di specie, l'imputato, presente all'atto dell'accertamento del tasso alcol emico) comporti la necessità di procedere immediatamente a sollevare l'eccezione (ossia, prima del compimento dell'atto) oppure, nel caso di impossibilità (da intendersi, soggettiva, in quanto impedito dalla mancata conoscenza della facoltà di farsi assistere dal suo difensore, proprio perché non preventivamente avvisato dalla polizia giudiziaria in base all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen.) di doverla sollevare "immediatamente dopo", nel senso di non poter attendere il primo atto del procedimento ma di dovervi provvedere attraverso il meccanismo delle memorie ex art. 121 cod. proc. pen.. 
In conseguenza, proprio con riferimento all'esecuzione di alcoltest, è stata considerata tardivamente proposta l'eccezione di nullità per l'omesso avviso previsto dall'art. 114 disp att. cod. proc.pen., allorché la parte, invece di sollevare l'eccezione immediatamente dopo il compimento dell'atto, abbia atteso il compimento di un successivo atto del procedimento (v. Sezione IV, 11 ottobre 2012, n. 44840, PG in proc. Tedeschi, rv. 254959; 19 settembre 2012, n. 38003, Avventuroso, rv. 254374; 08/05/2007, n. 27736, Nania, rv. 236934). 
Nello stesso senso, è stato ulteriormente precisato (v. Sezione II, 9 febbraio 2012, n. 14873, Rispo rv. 252397; Sezione IV, 14 marzo 2008, n. 15739, Alberti, rv. 299737), sempre con riferimento alla violazione da parte della polizia giudiziaria all'obbligo di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., avvenuta però nel corso di una perquisizione, che l’espressione "immediatamente dopo" va intesa nel senso che la nullità deve essere eccepita dal difensore subito dopo la sua nomina, ovvero entro il termine di cinque giorni che l'art. 366 cod. proc. pen. concede a quest'ultimo per l'esame degli atti. 
A questa tesi se ne affianca una meno rigorosa che muovendo da una lettura costituzionalmente orientata del combinato disposto degli articoli 354, 356, 366 cod. proc. pen. e 114 disp. att. cod. proc. pen. giunge all'opposta conclusione di considerare come tempestiva l'eccezione di nullità sollevata con il primo atto procedimentale utile (che, nel caso di specie sarebbe costituito dall'opposizione al decreto penale di condanna), non essendo pertinente il richiamo all'art. 121 cod.proc.pen., né potendosi considerare intempestiva un'eccezione di nullità sollevata in sede di opposizione, tenuto conto della brevità dei termini previsti dalla legge processuale per impugnare il provvedimento emesso inaudita altera parte (v. in tal senso, Sezione V, 9 febbraio 2012, n. 7654, Masella, rv. 252172; Sezione III, 14 maggio 2009, n. 26588, Di Sturco, rv. 244370; Sezione III, 12 luglio 2005, n. 33517, Rubino, rv. 233164, secondo le quali la nullità derivante dall'omesso avviso all'indagato - da parte della polizia giudiziaria che proceda al sequestro del corpo di reato - della facoltà di farsi assistere dal difensore può essere fatta valere anche in sede di richiesta di riesame). 
Si segnala, in particolare, per l'argomentata motivazione la sentenza Rubino concentrata su una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen., al fine di individuare la soluzione ermeneutica più conforme al dettato legislativo ed allo stesso tempo più adeguatrice rispetto al fondamentale ed inviolabile principio del diritto di difesa sancito dall'art. 24 Cost.. 
In particolare, partendo dall'interpretazione letterale dell'art. 182 cod. proc. pen. si evidenzia come il presupposto per potersi applicare il primo periodo del secondo comma dell'art. 182 cod. proc. pen. (ovvero che la nullità di un atto deve essere eccepita, quando la parte vi assista, prima del suo compimento ovvero, se ciò non sia possibile, immediatamente dopo) è la circostanza che la parte assista al compimento dell'atto nullo. Nell'interpretare la disposizione in esame nella parte in cui impone all'indagato di sollevare l'eccezione "prima del suo compimento" dell'atto, la Corte evidenzia che la stessa presuppone anche che la parte che vi assiste sia in grado di eccepire la nullità prima del compimento dell'atto, ossia che possa presumersi che essa sia a conoscenza o sia comunque in grado di essere a conoscenza dell'atto che si sta per compiere, così come presuppone che la parte stessa non decada dal diritto di eccepire la nullità dell'atto dopo il suo compimento fino a quando non possa ritenersi provato che essa abbia avuto conoscenza o almeno la possibilità di avere conoscenza della nullità dell'atto e sia quindi in grado di eccepirne immediatamente la nullità. E difatti, in tanto il legislatore impone l'obbligo alla polizia giudiziaria di avvisare l'indagato che ha facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia proprio in quanto presuppone che normalmente l'indagato non sia e non debba essere a conoscenza di questa facoltà e quindi impone alla polizia giudiziaria di avvisarlo appunto perché egli possa esercitare il suo diritto di difesa e per evitare una violazione dell'art. 24 Cost.. 
Nell'affrontare la questione dell'applicabilità della medesima disposizione nella parte in cui impone all'indagato di eccepire la nullità immediatamente dopo il compimento dell'atto nullo e nello stabilire quando l'eccezione debba considerarsi tardiva, la Corte, sottolinea che l'ignoranza della parte non viene meno solo perché l'atto è stato compiuto e quindi deve logicamente presumersi che la parte continui ad ignorare la sussistenza della nullità e non possa quindi eccepirla almeno sino a quando non sia provato o possa presumersi che essa ne sia venuta a conoscenza o almeno sia stata in grado di venirne a conoscenza, il che generalmente avviene solo nel momento in cui si ha la prova che l'indagato abbia contattato un difensore e possa perciò ritenersi che questi lo abbia messo a conoscenza della nullità ed in condizione di eccepirla. La sentenza indicata, nel sottoporre a critica l'opposto orientamento, sottolinea l'esigenza di ancorare la presunzione di conoscenza o della nullità che inficiava l'atto ad un momento ben preciso ed alla presenza di un atto che possa dare una qualche sicurezza sul punto, derivandone altrimenti la più assoluta incertezza, diversità ed arbitrarietà di opinioni e di soluzioni. 
È tematica peraltro meritevole di ulteriore approfondimento, nell'ottica di una effettiva soddisfazione delle esigenze difensive, ove si consideri che, in assenza dell'assistenza del difensore, è fin troppo ovvio che si determini la sanatoria della nullità per il formarsi delle condizioni di cui sopra. 
Ciò a fronte di quell'orientamento secondo cui l'eccezione può e deve essere formalizzata dallo stesso interessato, non essendo necessario l'intervento del difensore, in quanto non ricorrono facoltà processuali che comportino la cognizione di elementi tecnici rientranti nelle specifiche competenze professionali del difensore (Sezione IV, 4 giugno 2013, Proc. gen. App. Bologna in proc. Martelli). 
È necessario allora un intervento chiarificatore, ove si consideri che il richiamato orientamento che accredita la capacità diretta dell'interessato presenta profili di dubbia corrispondenza con i principi del diritto di difesa, trascurando di considerare a tacer d'altro proprio le condizioni pregiudicate in cui si trova, nel contesto dell'accertamento, il trasgressore e, in ogni caso, trascura di considerare il ruolo della difesa tecnica di cui svaluta la portata e il significato. 
In questa prospettiva, il tema centrale della questione ruota intorno alla tutela del diritto alla difesa e, ad avviso del Collegio, ai fini della soluzione del quesito non può prescindersi dalla instaurazione del rapporto tra l'indagato/imputato ed il difensore. 
Appare utile richiamare in proposito alcune decisione del Giudice delle Leggi in materia. Chiamata a verificare la legittimità costituzionale, in rapporto all'art. 24 Cost., comma 2, dell'art. 401 codice di rito 1930 nella parte in cui faceva decorrere il termine di cinque giorni per la deduzione delle nullità relative intercorse nell'istruzione sommaria dalla notifica all'imputato del decreto di citazione a giudizio, anziché dalla notificazione al difensore dell'avviso della data fissata per il dibattimento, la Corte costituzionale, ha puntualizzato che "il diritto di difesa deve essere garantito in modo adeguato alle circostanze, con modalità che a queste si adattino, esplicandosi anche come effettiva potestà di assistenza tecnica e professionale". Pertanto il principio costituzionale invocato è stato ritenuto violato dalla previsione di un breve termine decorrente dalla conoscibilità del decreto di citazione a giudizio da parte del diretto interessato piuttosto che del suo difensore, benché la cognizione di elementi tecnici rientranti nella specifica competenza professionale del difensore fosse indispensabile per rendersi conto delle nullità e far rilevare i vizi invalidanti (C. cost. sent. n. 162 del 17/06/1975, n. 162). 
Il principio è stato ribadito in successive pronunce, tra le quali merita di essere ricordata in questa sede la sentenza n. 120 del 2002, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 458 c.p.p., comma 1, nella parte in cui prevede che il termine entro cui l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato decorre dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, anziché dall'ultima notificazione, all'imputato o al difensore, rispettivamente del decreto ovvero dell'avviso della data fissata per il giudizio immediato. In tale occasione la Corte ha evidenziato come il nucleo centrale della questione di legittimità costituzionale attenesse alla violazione del diritto alla difesa tecnica, in quanto la disciplina censurata era congegnata in maniera tale che il termine stabilito a pena di decadenza per presentare richiesta di giudizio abbreviato poteva scadere senza che il difensore avesse potuto illustrare al proprio assistito le opzioni difensive rispettivamente collegate al giudizio abbreviato e alla celebrazione del dibattimento. Tanto rilevato i giudici della Consulta hanno ribadito che il diritto di difesa, inteso come effettiva possibilità di ricorrere all'assistenza tecnica del difensore, risulta violato in ogni caso in cui, "ai fini dell'esercizio di facoltà processuali che comportano la cognizione di elementi tecnici rientranti nelle specifiche competenze professionali del difensore", venga posto a pena di decadenza un termine decorrente dalla notificazione all'imputato, anziché al difensore, dell'atto da cui tali facoltà conseguono (C. cost. 26/02/2002, n. 120). 
Alla luce delle puntualizzazioni operate dalla Consulta va, pertanto, esaminato se la verifica del rispetto del diritto di difesa vada condotta tenuto conto della semplicità/complessità delle cognizioni richieste dalla proposizione dell'eccezione (v. da ultimo, in tal senso, la già richiamata sentenza n. 36009/2013, che, proprio con riferimento all'ipotesi dei test previsti dall'art. 186 C.d.S., commi 3 e 4, ha ritenuto che la deduzione dell'omesso avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore non richiede necessariamente l'intervento del difensore medesimo. Ciò perché l'avviso intende garantire la semplice conoscenza da parte del difensore del compimento dell'atto, che non deve essere ritardato in attesa che egli giunga, ove abbia deciso di assistervi. Ed inoltre perché l'accertamento non è invasivo e non scaturisce da attività pregresse la cui conoscenza è essenziale per l'esercizio della difesa) sicché il termine decadenziale per la formulazione di una eccezione di nullità intermedia prescinde dalla instaurazione del rapporto tra l'indagato/imputato ed il difensore oppure, secondo la soluzione più garantista, che, secondo questo Collegio, appare meglio tutelare le esigenze difensive, tale termine abbia corso solo dopo la nomina di un difensore o, comunque, dal compimento di un atto difensivo (per es. l'opposizione a decreto penale). 
In conclusione, per tutte le ragioni che si son sinora esposte, la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, afferente il regolamento di un diritto di rilievo costituzionale, quale il diritto alla difesa, sembra imporre l'intervento regolatore delle Sezioni unite di questa Corte, sulla seguente questione: "se in tema di accertamento della contravvenzione di guida sotto l'influenza dell'alcol (art. 186 c.d.s.), nel caso di mancato avvertimento alla persona da sottoporre al controllo alcoli metrico della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia in violazione dell'art. 114 disp.att. cod. proc. pen., tale nullità- da ritenere a regime intermedio - possa ritenersi sanata se non eccepita dall'interessato prima del compimento dell'atto ovvero immediatamente dopo ai sensi dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen; nel caso in cui si ritenga verificata la decadenza entro quale termine e con quali mezzi la nullità possa essere eccepita". 

P.Q.M. 

Dispone trasmettersi gli atti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Lesioni volontarie durante una partita di calcio. Condanna all'autore del gesto violento.

Durante una partita del campionato di Terza categoria un calciatore colpisce al volto, con una gomitata, un componente della squadra avversaria. Per l'arbitro la gomitata fu volontaria. Condannato l'autore del gesto violento per lesioni.

Corte di Cassazione, sez. Feriale Penale, sentenza 4 settembre – 22 ottobre 2014, n. 44014 Presidente Bianchi – Relatore Lignola 

Ritenuto di fatto 

1. P.E. ricorre in Cassazione, con atto del difensore, avv. M.G., avverso la sentenza, indicata in epigrafe, della Corte d'appello di Messina che ha confermato la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti il 21 settembre 2010 dal Tribunale di Patti, in ordine al reato di lesioni personali lievi in danno di S. G., inferte mediante una gomitata al volto, durante una partita di calcio valevole per il campionato di terza categoria. 
In particolare la Corte territoriale ha confermato l'affermazione di responsabilità valorizzando le dichiarazioni del direttore di gara, l'arbitro S., che ha descritto la dinamica dell'episodio riferendo che il colpo fu inferto mentre l'azione di gioco era in corso, ma i due calciatori si trovavano dall'altra parte del campo, lontano dal pallone. 
2. Con un unico motivo si denuncia vizio di motivazione, in relazione alle dichiarazioni della persona offesa e di una serie di testi (vengono richiamate le deposizioni di D., P. e S.) indicati nei motivi di appello, in base alle quali l'episodio era riconducibile ad un normale contrasto di gioco, con conseguente esclusione dell'elemento soggettivo dei reato contestato; la decisione impugnata si limita a registrare una prova complessivamente contraddittoria, rispetto alla quale viene valorizzato, quale elemento decisivo, l'esame del teste S., in tal modo incorrendo in un vizio di motivazione, sotto il profilo della mancanza e della illogicità, nella parte in cui si riconosce valenza decisiva alla ricostruzione dell'arbitro, senza dare risposte alle censure riguardanti il suo posizionamento ed il ridotto campo di osservazione, bensì solo in considerazione della sua competenza, esperienza ed imparzialità; ulteriore carenza motivazionale è indicata rispetto alle ragioni per cui le altre testimonianze sarebbero inattendibili. 

Considerato in diritto 

1. II ricorso è inammissibile. 
1.1 Costituisce principio consolidato quello secondo cui non può formare oggetto di ricorso l'indagine sull'attendibilità dei testimoni, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione adottata dal giudice di merito, che, nella fattispecie, appare coerente e logica (Sez. 2, n. 20806 dei 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362); infatti il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova è devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità della Corte Suprema. 
1.2 La Corte territoriale ha confermato la valutazione di totale inattendibilità - al limite della falsa testimonianza - dei testi indicati dall'una e dall'altra parte, tutti compagni di gioco o dirigenti delle rispettive squadre, che hanno riferito a seconda della propria appartenenza ed in maniera confusa, contraddittoria ed imprecisa. 
1.3 Ha viceversa ritenuto decisiva la versione offerta dall'arbitro S., soggetto terzo per definizione, della cui imparzialità peraltro non dubitava neppure l'appellante, fornendo una specifica risposta alle deduzioni difensive riguardanti la sua ridotta visuale di gioco. Nella sentenza si osserva infatti che un arbitro, proprio per la sua preparazione ed esperienza specifica, di norma riesce a tenere sotto controllo senza particolari difficoltà quanto avviene sull'intero campo di gioco e che il direttore di gara, in conseguenza del gesto, provvide ad espellere l'imputato per condotta antisportiva; P. fu poi squalificato per tre giornate di gara. Peraltro, completando sul punto, la decisione impugnata chiarisce che l'imputato si trovava soltanto a 5 m dall'arbitro e che questi ha riferito di aver assistito ad una gomitata al setto nasale data "volontariamente", particolare che egli non aveva alcun motivo di riferire se non fosse stata effettivamente notato. 
2. In presenza di tale congrua e logica motivazione sulle ragioni che hanno indotto la Corte a ritenere attendibile la versione dello S., il ricorso va dichiarato inammissibile, con le conseguenze di cui all'art. 616 cod. proc. pen., ivi compresa, in assenza di elementi che valgano ad escludere ogni profilo di colpa, l'applicazione della prescritta sanzione pecuniaria, il cui importo stimasi equo fissare in euro mille. 

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende. 

mercoledì 17 settembre 2014

Risarcimento detenuti

Risarcimento ai detenuti e modifiche al c.p.p.: il testo coordinato in Gazzetta

Decreto Legge , testo coordinato 26.06.2014 n° 92 , G.U. 20.08.2014

In vigore dal 28 giugno 2014 le disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore di detenuti e internati, contenute nel Decreto Legge n. 92/2014, convertito con Legge 11 agosto 2014, n. 117 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 20 agosto 2014, n. 192.
Il provvedimento contiene altresì modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile.
Il decreto ha la finalità di adempiere alle direttive dettate da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu) nei confronti dello Stato italiano nella sentenza “Torreggiani” del gennaio 2013, nella quale la Corte aveva imposto l’adozione di specifiche misure riparatorie in favore dei detenuti che hanno scontato la pena in una condizione di sovraffollamento.
Si stabilisce che i detenuti che hanno subito un trattamento non conforme al disposto della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo abbiano diritto a ottenere la riduzione di un giorno di pena per ogni dieci durante il quale è avvenuta la violazione del loro diritto a uno spazio e a condizioni adeguate, con contestuale previsione in favore di coloro che non si trovino più in stato di detenzione di un risarcimento pari a 8 euro per ciascuna giornata di detenzione trascorsa in condizioni non conformi alle indicazioni della Cedu.
Il decreto legge contiene una serie di puntuali modifiche normative, di cui si segnalano:
   art. 678 c.p.p. "Procedimento di sorveglianza": inserito il comma 3-bis, che prevede un obbligo di comunicazione al Ministro della giustizia a carico del tribunale di sorveglianza e del magistrato di sorveglianza, quando provvedono su richieste di provvedimenti incidenti sulla liberta' personale di condannati da Tribunali o Corti penali internazionali, della data dell'udienza e della pertinente documentazione, il Ministro, a sua volta, deve informare tempestivamente il Ministro degli affari esteri e, qualora previsto da accordi internazionali, l'organismo che ha pronunciato la condanna.
   art. 275, co. 2-bis c.p.p. "Criteri di scelta delle misure": qualora il giudice procedente ritenga che la pena detentiva irrorata possa essere contenuta in un massimo di tre anni, non possono essere disposte le misure della custodia cautelare o degli arresti domiciliari (in coerenza con le disposizioni contenute nell’art. 656 c.p.p. in materia di sospensione dell’esecuzione della pena);
   art. 97-bis. D.Lgs. n. 271/1989 "Modalità di esecuzione del provvedimento che applica gli arresti domiciliari": l’imputato è autorizzato a recarsi senza scorta al luogo di esecuzione della misura, salvo particolari esigenze, anche segnalate dal pubblico ministero, dal direttore dell'istituto penitenziario o dalle forze di polizia.
art. 24 D.Lgs. n. 272/1989 "Esecuzione di provvedimenti limitativi della libertà personale": le misure cautelari, le misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell'esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il 25° anno di età (sempre che, per quanti abbiano già compiuto il ventunesimo anno, non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto altresì delle finalità rieducative); la norme consentirà di completare percorsi rieducativi modulati su specifiche esigenze rieducative

(Fonte: Altalex.com)

martedì 16 settembre 2014

In tema di discoteche

Apertura abusiva di luoghi di pubblico spettacolo o trattenimento. Risponde del reato anche il co-gestore della discoteca.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 14 aprile– 12 settembre 2014, n. 37585 Presidente Chieffi– Relatore Casa 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza del 26.9.2011, il Tribunale di Trieste in composizione monocratica dichiarava T.P. e T.F. responsabili, in concorso tra loro e con G.M. (giudicata separatamente), di una duplice violazione dell'art. 681 c.p. (rispettivamente accertate in data (omissis) e in data (omissis) ), per aver consentito, la prima quale socia di fatto responsabile della gestione, il secondo quale co-gestore di fatto, nell'ambito dell'attività di discoteca o di intrattenimento musicale esercitata presso "(omissis) ", l'accesso di un numero di persone superiore (614 la prima volta, 1164 la seconda) a quello di 168 indicato nell'autorizzazione comunale del 9.6.2009. 
2. Con sentenza del 9.5.2013, la Corte d'Appello di Trieste, in parziale riforma della pronuncia del primo Giudice, sostituiva la pena detentiva inflitta a T.P. con quella di 15.000,00 Euro di ammenda, confermando nel resto la decisione impugnata. 
2.1. Nell'esaminare il primo motivo di gravame, comune a entrambi gli imputati, la Corte d'Appello riaffermava la certezza del dato fattuale relativo alla presenza, in occasione dei due controlli di P.G. effettuati presso l’"(omissis) ", di un numero di persone nettamente superiore a quello autorizzato, evincendolo dalle testimonianze rese dal primo accertatore L.S. e da B.L. , Comandante della Compagnia Carabinieri di Trieste, che coordinò le operazioni del secondo accertamento. 
Evidenziavano i Giudici territoriali che, in entrambi i casi, il conteggio aveva riguardato solo le persone in uscita da un'area delimitata, quella destinata alla discoteca all'aperto e che l'accesso al punto d'imbarco per tornare sulla terraferma dall'area discoteca non era comune alle altre zone della diga, servite da altro passaggio; tali assunti, riferiti dagli agenti operanti, frutto delle specifiche modalità di controllo e privi di contenuti valutativi, erano stati confermati anche dal teste C.A. , bagnino della società NEREIDE, titolare dell'autorizzazione relativa all'attività di trattenimento danzante, e dall'ing. G. , autore di relazione tecnica commissionatagli dalla citata società, i quali avevano affermato che dall'area dello stabilimento balneare, per accedere al punto d'imbarco della diga, si poteva transitare sia da apposito passaggio che dall'area ristorazione/intrattenimento, senza che le due zone dovessero necessariamente interferire l'una con l'altra. 
Anche i due testi a discarico Tr. e Gi. avevano confermato la circostanza, peraltro desumibile dallo stesso stato dei luoghi documentato dalla pianta acquisita agli atti che consentiva di escludere che il deflusso verso la terraferma da parte di soggetti che non si trovavano all'interno dell'area danzante avvenisse, principalmente, transitando per quella zona. 
Secondo la Corte triestina, non era decisivo l'argomento introdotto dalla difesa di T.P. , avente ad oggetto il dato relativo al rapporto tra la superficie dell'area destinata al trattenimento danzante ed il numero di persone individuate dalla P.G. in occasione del controllo di cui al capo b) della rubrica (quello del 13-14.8.2009), trattandosi di calcolo evidentemente variabile a seconda dell'indice di affollamento utilizzato per l'operazione. 
2.2. In sintonia con il primo Giudice, la Corte di secondo grado disattendeva, poi, la tesi sostenuta dalla difesa della T. in ordine all'applicabilità del disposto dell'art. 80 T.U.L.P.S. ai soli luoghi chiusi e non alle aree scoperte, in quanto, tra le prescrizioni imposte dall'autorità a tutela della pubblica incolumità, rientravano anche quelle relative alle vie di esodo ed alla capacità di deflusso delle persone ospitate nell'area destinata a discoteca, che doveva essere garantita in relazione alle particolari condizioni ed allo stato dei luoghi interessati al trattenimento; inoltre, l'autorizzazione comunale rilasciata, che richiamava, in premessa, proprio l'art. 80 TULPS, individuava uno specifico limite numerico dell'affollamento dell'area e tale prescrizione, dunque, non poteva che essere stata adottata ai fini della tutela della pubblica incolumità (Cass., Sez. I, sent. n. 3128 del 29.9.2011-25.1.2012, RV. 251843). 
2.3. Venendo alla responsabilità dell'imputato T.F. , osservava la Corte distrettuale che non potevano considerarsi pertinenti, né aderenti alle risultanze processuali, i riferimenti dell'appellante all'assenza, in capo all'imputato, dei requisiti di continuatività e stabilità della qualità assunta nell'ambito della NEREIDE s.r.l.. 
Doveva rilevarsi, in primo luogo, che il T. , non solo era presente, sul luogo del fatto, insieme alla figlia P. , in occasione dell'accertamento di cui al capo b) dell'imputazione, come riferito dal teste B. , ma aveva anche interloquito con quest'ultimo su aspetti concernenti il controllo, seguendo personalmente le relative operazioni sino al sequestro effettuato dagli operanti. 
Che l'attività svolta dal T. , nell'ambito della gestione del locale, non fosse affatto occasionale, risultava, poi, con chiarezza dalle dichiarazioni del teste BA. , il quale, dipendente della NEREIDE quale addetto alla manutenzione presso la diga, aveva riferito di essere stato assunto proprio dall'imputato, con il quale aveva intrattenuto il relativo colloquio, aggiungendo che sia il predetto che la figlia P. si interessavano attivamente della gestione del locale. 
Ulteriori convergenti elementi di prova si desumevano dalla deposizione della teste D.M. , in servizio con mansioni di cuoca presso la Capitaneria di Porto di Trieste, la quale aveva dichiarato di essere andata una sera (il (…)), su richiesta del T. , alla diga, dove aveva cucinato per circa un'ora in sostituzione del cuoco ammalato; tale circostanza era stata confermata dal sottufficiale della Capitaneria CO.Th. . 
Anche il teste C. , pur non avendo confermato quanto riferito nella fase procedimentale, aveva ribadito di aver visto l'imputato talvolta in ufficio.
Quanto, infine, alle dichiarazioni rese dai due testi a discarico TR. e GI. in ordine ai rapporti intrattenuti esclusivamente con T.P. , esse non escludevano, di per sé, il ruolo effettivamente rivestito dal T.F. , posto che, nella comune gestione dell'esercizio, gli imputati ben potevano distribuirsi le sfere operative di competenza. 
Il TR. , poi, non poteva considerarsi seriamente attendibile, dal momento che, in occasione del suo esame, aveva fornito una risposta - relativa alla ricezione di direttive dalla signora P. - addirittura anticipando la domanda del difensore che aveva tutt'altro oggetto. 
In conclusione, doveva confermarsi la sentenza impugnata quanto alla responsabilità di entrambi gli imputati. 
3. Ha presentato ricorso per cassazione T.F. per il tramite del suo difensore di fiducia. 
3.1. Con il primo motivo, deduce, vizio di motivazione in relazione alla statuizione sull'elemento oggettivo del reato. 
La Corte di Appello era giunta ad escludere quello che il primo Giudice aveva acclarato, ossia che un passaggio tra l'area adibita a intrattenimento danzante e lo stabilimento balneare effettivamente vi fosse e fosse rimasto aperto; ciò che avrebbe consentito il passaggio di persone così da rendere sostanzialmente inattendibile l'accertamento svolto dalla P.G. in uscita dall'area transennata, fondante le imputazioni contestate. 
Sul punto la Corte si era affidata solo alle deposizioni degli accertatori, senza considerare l'elemento cruciale costituito dalle planimetrie della diga che evidenziavano inequivocamente il passaggio in questione. 
La mancata considerazione di tale elemento documentale comportava un evidente vulnus della motivazione, che aveva preso in esame, incongruamente e illogicamente, solo una parte degli elementi probatori acquisiti. 
Non esaustiva appariva la sentenza impugnata nel disattendere l'ulteriore argomento difensivo sulla incongruenza del numero delle persone conteggiate rispetto alla superficie dell'area adibita ad intrattenimento (335 mq) che avrebbe portato ad una media di 1,83 persone a metro quadro nel primo episodio e di 3,48 persone a metro quadro nel secondo. 
Né poteva essere a tal fine invocata la relazione tecnica dell'ing. G. , in cui si ipotizzava quale mero metodo di calcolo una possibile presenza di due persone per mq come "tetto" di presenze nel locale. 
Così facendo, la Corte triestina aveva confuso il piano del dato teorico e astratto con quello della risultanza fattuale concreta, denunciando un ulteriore profilo di illogicità. 
3.2. Con il secondo motivo, si denuncia l'inosservanza e/o l'erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche (art. 606 lett. b) c.p.p.). 
Dopo aver illustrato il quadro di riferimento normativo, giurisprudenziale e dottrinario sulla figura dell'amministratore di fatto, il difensore del ricorrente evidenziava come i testi escussi (C. , Tr. e Gi. ) avessero costantemente individuato in T.P. il loro referente all'interno della NEREIDE s.r.l., escludendo qualsiasi coinvolgimento in attività gestorie da parte del di lei padre. 
Il solo teste di segno contrario BA. non poteva considerarsi pienamente attendibile, a fronte di un esame dibattimentale contrassegnato da risposte incongrue e cadute di memoria. 
Doveva, pertanto, concludersi per l'erroneità della sentenza impugnata, che rendeva falsa applicazione delle norme civilistiche atte a qualificare un soggetto, in forza dell'attività gestoria da lui svolta, quale "amministratore di fatto", ciò sulla scorta di una permanente confusione tra l'attribuzione a un soggetto di detta qualità e la condotta minima rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 681 c.p., che ben poteva consistere nello svolgimento di un'attività saltuaria e non sistematica.
Sotto altro profilo errava la Corte d'Appello nel ritenere dimostrato in capo al T. , nonostante l'equivocità del testimoniale assunto, lo svolgimento di un'attività gestoria rilevante ai fini dell'attribuzione della qualità di "amministratore di fatto" della NEREIDE s.r.l.. 
Risultava, quindi, evidente la falsa applicazione delle norme poste dagli artt. 110-681 c.p. con particolare riferimento alla erronea qualifica di "co-gestore di fatto" attribuita al ricorrente. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è infondato. 
1.1. Il primo motivo riguarda la prova dell'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 681 c.p., contestata sulla base del rilievo che la Corte di Appello di Trieste, affidandosi alle sole deposizioni degli accertatori e non tenendo conto della planimetria in atti, aveva escluso l'esistenza di un passaggio, situato tra l'area adibita a intrattenimento danzante e lo stabilimento balneare, che poteva consentire il transito di persone dall'uno all'altro luogo, così da rendere sostanzialmente inattendibile l'accertamento svolto dalla P.G. in uscita dall'area transennata sul numero dei soggetti presenti nello spazio adibito alle danze. 
Tale rilievo, che ripropone, nella sostanza, le osservazioni e deduzioni già formulate in sede di gravame, in contrapposizione argomentativa alle non condivise risposte già ricevute, si scontra, con non consentite incursioni nel merito, con una esaustiva e affatto illogica e contraddittoria lettura delle emergenze processuali svolta in sede di merito. 
La sentenza d'appello, infatti, con motivazione esente da evidenti incongruenze e da interne contraddizioni, ha analizzato le risultanze probatorie, illustrando gli elementi fattuali, tratti dai due sopralluoghi effettuati, rispettivamente, dalla Capitaneria di Porto (teste L.S. ) per il primo episodio (dalle ore 00,35 alle ore 2 del (omissis)) e dai Carabinieri della Compagnia di Trieste (teste B. ) per il secondo (nella notte tra il (omissis) ), nonché dalle dichiarazioni dei testi (S. , B. , G. , ma anche da quelle dei testi introdotti dalla difesa Tr. e Gi. ) e dalla planimetria dei luoghi, e ha coerentemente giustificato la loro ricostruzione, anche alla luce delle deduzioni difensive, puntualizzando: 
- che il conteggio delle persone presenti era stato fatto all'uscita dall'area transennata della discoteca all'aperto e, subito dopo, al momento in cui le stesse persone prendevano il barchino per la terraferma, proprio al fine di non duplicare il conteggio; 
- che, per passare dalla zona dello stabilimento balneare alla zona d'imbarco vi era un'area apposita e non bisognava percorrere necessariamente l'area destinata all'intrattenimento musicale, sicché non si creava possibilità di confusione tra coloro che si trovavano nella zona balneare - che, tra l'altro, dopo le ore 19-19,30 erano chiusi - e coloro che erano presenti all'interno dell'area discoteca. 
È, dunque, radicalmente infondato il rilievo della difesa ricorrente per cui la Corte di merito avrebbe erroneamente escluso l'esistenza di un passaggio dalla zona dello stabilimento balneare a quella dello spazio discoteca, avendo, viceversa, i Giudici correttamente dato atto, in base all'univoco testimoniale assunto e alla planimetria, dell'esistenza di due passaggi alternativi (uno solo dei quali coinvolgente l'area adibita a intrattenimento danzante) per raggiungere il punto d'imbarco dallo stabilimento; precisando, inoltre, proprio sulla base delle risultanze della planimetria in atti - che la difesa, a torto, aveva ritenuto trascurata - che la via di accesso separata dalla zona di balneazione al punto d'imbarco era più comoda e rapida di quella, più lunga e disagevole, che doveva passare per l'area discoteca. 
Sempre in fatto, quindi egualmente inammissibile, la censura sulla incongruenza del numero delle persone conteggiate rispetto alla superficie dell'area adibita ad intrattenimento (335 mq), peraltro affrontata con argomentare più che plausibile, imperniato sulla variabilità del calcolo a seconda dell'indice di affollamento utilizzato. 
2. Il secondo motivo di ricorso è infondato. 
Al riguardo il Collegio osserva che la contravvenzione prevista dall'art. 681 c.p. è configurabile ogniqualvolta l'agente organizzi un pubblico spettacolo in assenza di licenza e delle prescrizioni ad essa normalmente inerenti ovvero senza avere osservato le prescrizioni imposte, ai sensi del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 80, (T.U.L.P.S.) dall'autorità a tutela dell'incolumità pubblica (Sez. 1, Sentenza n. 3128 del 29/9/2011 - dep. 25/1/2012, Pennarola, Rv. 251843). 
Per quanto concerne il soggetto attivo del reato, destinatario della norma di cui all'art. 681 c.p. è "chiunque", cioè tutti coloro i quali, a qualunque titolo e in qualunque veste aprono o tengono aperti luoghi di pubblico spettacolo, trattenimento o ritrovo, senza aver osservato le prescrizioni dell'autorità a tutela dell'incolumità pubblica. 
Nella disposizione generica "chiunque" è, quindi, compreso, non solo il titolare di diritto del locale, per esserne proprietario in forza di un titolo giuridico valido, ma altresì chiunque gestisca di fatto il locale stesso, giacché scopo della norma è quello di tutelare la pubblica incolumità e di prevenire eventuali danni o lesioni alle persone che frequentano il locale stesso (Sez. 6, Sentenza n. 7659 del 14/5/1973, Palchetti, Rv. 125337); conseguentemente, la norma de qua si applica anche nei confronti di chi, occasionalmente e se pure per una sola volta, abbia aperto un luogo di pubblico spettacolo (Sez. 1, Sentenza n. 33779 del 10/6/2013, Tonetto, Rv. 257176). 
La Corte di merito, in coerenza con le descritte coordinate normative e giurisprudenziali, ha ravvisato in capo al ricorrente la qualità di co-gestore di fatto, unitamente alla figlia P. , della NEREIDE s.r.l., sulla base delle fonti testimoniali assunte, correttamente evincendone il coinvolgimento, in forma continuativa e stabile, nella gestione dell'azienda dai seguenti elementi fattuali: 
- il T. era presente, in azienda, insieme alla figlia P. , in occasione dell'accertamento di cui al capo b) dell'imputazione, e, come riferito dal teste B. , aveva interloquito con quest'ultimo su aspetti concernenti il controllo, seguendo personalmente le relative operazioni sino al sequestro effettuato dagli operanti; 
- il T. si era personalmente occupato dell'assunzione del teste B. quale addetto alla manutenzione presso la diga, come riferito da esso teste, il quale aveva aggiunto che sia l'imputato che la figlia P. si interessavano attivamente della gestione del locale: in particolare, il ricorrente "ogni giorno, dopo il turno di lavoro, giungeva in diga e si dedicava attivamente a gestire tutta l'attività" impartendo le opportune direttive ed era solito rimanere sul posto "fino alla fine di ogni serata, a volte anche fino alle due o alle tre del mattino" (foglio n. 8 della sentenza impugnata); 
- la teste D.M. , in servizio con mansioni di cuoca presso la Capitaneria di Porto di Trieste, aveva dichiarato di essersi recata la sera del (…), su richiesta del T. , presso la diga, dove aveva cucinato per circa un'ora in sostituzione del cuoco ammalato, circostanza confermata dal sottufficiale della Capitaneria CO.Th. . 
A fronte di argomenti del tutto scevri da vizi logici o da illogicità manifeste, la difesa ricorrente ha rappresentato in modo alquanto distorto le emergenze istruttorie dibattimentali, omettendo di considerare, accanto alla deposizione del BA. (a torto indicato quale unico teste a carico), quelle del Capitano B. e della cuoca D.M. ; tacciando, in modo generico e assertivo, di inattendibilità la testimonianza del BA. predetto e descrivendo il testimoniale a discarico (formato dalle dichiarazioni dei testi C. , TR. e GI. ) in termini di coesione e univocità. 
I Giudici di seconde cure, a tal proposito, hanno dato risposte razionali e sempre contenute nei limiti della plausibile opinabilità di apprezzamento, insindacabile in questa sede, osservando: 
- quanto al teste BA. , che il difetto di memoria sull'identità della persona con la quale aveva sottoscritto il contratto di lavoro per la NEREIDE, a distanza di tre anni dal fatto, non indeboliva, ma, anzi, rafforzava la sua attendibilità, essendo comprensibile che ricordasse l'identità della persona che l'aveva, nella sostanza, assunto, piuttosto che l'identità di quella con la quale aveva concluso l'adempimento formale della sottoscrizione del contratto; 
- quanto alle dichiarazioni del teste C. , che egli, pur non avendo confermato quanto riferito nel corso delle indagini a proposito del coinvolgimento del T. nella gestione dell'azienda, aveva, comunque, dichiarato di aver visto il ricorrente qualche volta in ufficio; 
- infine, quanto alle deposizioni rese dai testi TR. (sui profili di inattendibilità del quale, valutati dalla Corte, si è dato atto nella parte espositiva del fatto) e GI. sul rapporti intrattenuti esclusivamente con T.P. , che esse non escludevano, di per sé, il ruolo effettivamente rivestito dal ricorrente, dal momento che, nella comune gestione dell'esercizio, gli imputati ben potevano distribuirsi le rispettive sfere operative di competenza. 
Anche la censura sulla qualificazione della condotta del T.F. come co-gestione di fatto dell'azienda in esame si rivela, pertanto, infondata. 
3. Il ricorso, in conclusione, va, nel complesso, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.