martedì 28 gennaio 2014

Scopre la moglie con l'amante e la colpisce alla testa con un crick per gelosia.

Scopre la moglie con l'amante e la colpisce alla testa con un crick per gelosia.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 7 novembre 2013 – 28 gennaio 2014, n. 3793 Presidente Siotto – Relatore Rocchi 

Ritenuto in fatto 

1. Il Tribunale di Salerno, con ordinanza del 6/6/2013, rigettava la richiesta di riesame proposta da A.M. avverso l'ordinanza emessa dal G.I.P. dello stesso Tribunale di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per il tentato omicidio della moglie, colpita alla testa con un crick nella pubblica via perché sorpresa in atteggiamento affettuoso con un uomo mentre usciva da un albergo. 
Secondo il Tribunale, l'indole estremamente violenta dell'A., che già in precedenza, in cinque occasioni, aveva avuto comportamenti violenti verso la moglie e l'episodio contestato dimostravano la sua incapacità di autocontrollo, cosicché alto era il pericolo di recidiva sia nei confronti della moglie che, anche, di altri soggetti: in nessun modo si poteva, quindi, fare affidamento sul rispetto della misura cautelare degli arresti domiciliari da parte del ricorrente. 
2. Ricorre per cassazione il difensore di A.M., deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. 
Il Tribunale aveva travisato gli accadimenti, atteso che, da una parte A. era stato colto da un raptus, avendo sorpreso la moglie che usciva da un albergo in compagnia di un uomo, circostanza che non dimostrava affatto l'indole violenta del ricorrente, che avrebbe potuto ricorrere ad altre circostanze in cui la difesa della donna sarebbe stata minorata; dall'altra la denuncia della persona offesa non conteneva affatto il riferimento ad altri cinque episodi di violenta tenuta dal ricorrente nei suoi confronti. 
Il pericolo che la violenza si esercitasse anche nei confronti di altre persone era insussistente e la relativa affermazione era apodittica. Inoltre A. era stato rintracciato presso la sua abitazione e non aveva opposto alcuna resistenza ai carabinieri; egli aveva subito ammesso i fatti, dimostrandosi rammaricato per quanto accaduto: era pertanto incomprensibile il riferimento al comportamento tenuto dopo il fatto. 
La valutazione della misura più grave come unica idonea a tutelare le esigenze cautelari si basava esclusivamente sulla gravità della condotta; era incomprensibile l'affermazione della recidiva verso terzi e non era stato tenuto in considerazione il luogo assai lontano (Potenza) indicato per gli arresti domiciliari. 
La motivazione sulla scelta della misura era, in sostanza, apparente ed aggirava il disposto dell'art. 275, commi 1 e 3 cod. proc. pen.: la verifica dell'idoneità della diversa misura a tutelare le esigenze cautelari doveva essere effettuata in concreto e non in astratto. 
Il ricorrente conclude per l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata. 

Considerato in diritto 

Il ricorso deve essere rigettato. 
In primo luogo deve rimarcarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente e, invece, in conformità a quanto riportato nell'ordinanza impugnata, la denuncia della persona offesa fa espresso riferimento a cinque precedenti episodi di violenza posti in essere dall'A. nei suoi confronti, cosicché l'affermazione del Tribunale di un'indole violenta dell'uomo si fonda su una base assai solida, costituita sia dal gravissimo episodio per il quale il ricorrente è stato colpito da misura cautelare, sia da numerosi altri episodi della stessa natura (anche se di minore gravità), mentre la versione contraria di un raptus mostra tutta la sua debolezza. 
Del tutto logica è, pertanto, la valutazione del Tribunale dell'incapacità per il ricorrente di autocontrollo e quelle conseguenti della sussistenza delle esigenze cautelari e dell'inidoneità di una misura diversa da quella più grave: in effetti, se la condotta dell'A. era stata determinata da una forte gelosia, da una parte la misura degli arresti domiciliari (anche se in luogo lontano da quello del delitto) può ben essere ritenuta insufficiente ad impedire la reiterazione di condotte violente, dall'altra l'individuazione come possibile vittime di terze persone, diverse dalla moglie, è perfettamente comprensibile, atteso che è stata proprio la congiunta presenza della moglie e di un uomo a scatenare la condotta violenta del ricorrente. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. 
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'Istituto penitenziario, ai sensi dell'art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.

Tifoso espone nella curva sud dello stadio di San siro uno striscione che inneggia alla violenza. Negato l'accesso del tifoso.

Tifoso espone nella curva sud dello stadio di San siro uno striscione che inneggia alla violenza. Negato l'accesso del tifoso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 6 novembre 2013 – 27 gennaio 2014, n. 3648 Presidente Squassoni – Relatore Orilia 

Ritenuto in fatto 

1. Il GIP presso il Tribunale di Milano ha convalidato, con ordinanza 7.2.2013, il Decreto del Questore emesso il 29.1.2013 con cui era stato imposto a C.M. di accedere agli impianti sportivi secondo precise modalità ivi indicate e di presentarsi alla Polizia trenta minuti dopo l'inizio e trenta minuti prima della fine di ogni incontro di calcio del Milan in campionato, nei trofei e nelle partite di coppa. 
Il GIP ha motivato la convalida in considerazione del fatto che il C. esponeva nella curva sud dello Stadio uno striscione inneggiante alla violenza e quindi il suo comportamento integrava gli estremi della violazione di cui all'art. 2 bis del DL n. 8/2007. 
Il C. - tramite difensore - ricorre per cassazione denunziando: 
2.1 la violazione dell'art. 6 comma 1 della legge n. 401 e successive modificazioni e dell'art. 2 bis della legge n. 41/07 sotto il profilo della non riconducibilità della condotta attribuita al prevenuto nell'elencazione tassativa del citato art. 6. 
2.2 Il difetto di motivazione in merito alle ragioni per cui l'interessato debba presentarsi alla autorità di polizia due volte in occasione delle partite di calcio del Milan. 
Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso. 

Considerato in diritto 

1. Il primo motivo di ricorso è infondato. 
Va premesso che tra le condotte in relazione alle quali l'art. 6, comma 1, della legge n. 401 del 1989 prevede, ove sia intervenuta denuncia o condanna, il potere del Questore di disporre, unitamente al divieto di accesso ai luoghi di svolgimento delle manifestazioni sportive, l'obbligo di presentazione nell'ufficio o comando di polizia competente, rientra, testualmente, anche quella di avere "incitato, inneggiato o indotto alla violenza"; ed infatti, questa Corte ha già affermato, sulla scorta appunto del dato testuale appena richiamato, che tra i fatti che a norma della legge n. 401 del 1989, art. 6 e successive modificazioni, possono giustificare l'adozione del provvedimento di divieto di accesso agli stadi e, quindi, quello strumentale di presentazione ad un ufficio di polizia, è contemplato anche il comportamento di colui il quale in qualsiasi modo, in occasione di manifestazioni sportive, inciti, inneggi o induca alla violenza. Le condotte innanzi descritte, qualora siano in concreto idonee, configurano, se non accolte, delitto di istigazione a delinquere e, se accolte, il concorso nel delitto istigato. Peraltro, la formulazione della norma consente di ritenere che la categoria dei fatti in questione possa essere sganciata dalla necessità di una denuncia per istigazione a delinquere o per concorso nel delitto istigato ed essere applicata alla sola condizione che si tratti di comportamento specifico attribuito al soggetto, idoneo all'incitamento alla violenza. Siffatta interpretazione discende infatti, si è aggiunto, dalla volontà del legislatore il quale, con una norma d'interpretazione autentica (art. 2 bis del d.l. n. 336 del 2001, convertito con modifiche nella l. n. 377 del 2001), ha stabilito che per incitamento, inneggiamento e induzione alla violenza deve intendersi la specifica istigazione alla violenza in relazione a tutte le circostanze indicate nella prima parte dell1 art. 6, comma 1, l. n. 401 del 1989. Il requisito richiesto è costituito quindi dalla specificità del comportamento e dall'idoneità di esso ad incitare alla violenza ossia a turbare la tranquilla competizione sportiva, implicando, peraltro, tali concetti, valutazioni di fatto che si sottraggono al sindacato di legittimità ove non affette da vizi logici o giuridici (cfr. Sez. 3, n. 12137 del 16/01/2008, Ferrari, non massimata). 
Ne consegue pertanto come anche l'esposizione di striscioni o scritte ben possa essere ricondotta tra le condotte contemplate dall'art. 6 a condizione che il contenuto dei medesimi sia idoneo, appunto, ad incitare od indurre alla violenza. 
Questa stessa Corte, del resto, se ha ritenuto non correttamente operata la convalida laddove lo striscione esposto abbia avuto contenuto semplicemente insultante o diffamatorio proprio perché esulante dalla sfera applicativa della norma (si vedano in proposito Sez. 3, n. 27284 del 15/06/2010, Arnetta, non massimata, e Sez. 2, n. 29581 del 01/07/2003, Troise, Rv. 225417), ha, in altro senso, ritenuta integrata la condotta giustificativa del provvedimento di comparizione laddove la scritta abbia presentato effettivo contenuto istigatorio (cfr. la già richiamata Sez. 3, n. 12137 del 16/01/2008, Ferrari, non massimata). 
Premesso dunque quanto sopra, nella specie il Giudice della convalida appare avere fatto corretta applicazione dei suddetti principi, laddove, in considerazione del fatto che lo striscione, lungi dall'avere contenuto semplicemente offensivo, inneggiava a personaggi implicati e condannati per il reato di omicidio di un Ispettore di Polizia in occasione di disordini intervenuti durante una partita di calcio, ha ravvisato, nei confronti dell'interessato, quale uno degli autori dell'esposizione dello striscione, la suddetta necessaria componente istigatoria, tenuto conto, tra l'altro, del contesto espositivo, di altissima ed esasperata competitività, e della idoneità a raggiungere un numero elevatissimo di persone. 
Va aggiunto che questa stessa Corte ha ritenuto, proprio con riferimento ad uno striscione inneggiante ad un fatto-reato esposto all'interno di uno stadio, correttamente motivata la ritenuta sussistenza del reato di istigazione a delinquere, in tal modo confermandosi, per quanto qui rileva, la natura di incitamento alla violenza della scritta di specie, quando l'esaltazione del reato, finalizzata a spronare altri all'imitazione, sia concretamente idonea, per le sue modalità, a provocare la commissione di delitti (Sez. 1, n. 25833 del 23/04/2012, Testi, Rv. 253101). 
2. Il secondo motivo è infondato perché, mentre il divieto di accesso agli impianti sportivi ha una portata ampia, essendo esteso a tutti gli impianti del territorio nazionale e degli stati membri dell'Unione Europea, l'obbligo di presentazione alla Polizia - contrariamente a quanto affermato dal ricorrente - non contiene alcuna estensione alle partite disputate fuori casa, mentre per le partite giocate in casa appare senz'altro congruo, tenuto conto appunto della ratio della misura, finalizzata ad evitare effettivamente (ad ulteriore presidio del divieto di accesso formalmente imposto) che l'interessato possa presentarsi allo stadio durante la competizione sportiva. 

P.Q.M. 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

giovedì 16 gennaio 2014

Lui è un pastore di Caltagirone e quando arriva a casa è solito consumare rapporti sessuali con la moglie che stavolta si rifiuta perchè il marito non si lava. Violenza sessuale.

Lui è un pastore di Caltagirone e quando arriva a casa è solito consumare rapporti sessuali con la moglie che stavolta si rifiuta perchè il marito non si lava. Violenza sessuale.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 11 giugno 2013 – 13 gennaio 2014, n. 980 Presidente Foti – Relatore Ciampi 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza in data 16 aprile 2012 la Corte d’appello di Catania, in sede di rinvio, decidendo sul solo appello proposto da C.M. avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Caltagirone in data 15 novembre 2007, determinava la pena inflitta all’imputato in anni due e mesi sei di reclusione. 
Questi era stato tratto a giudizio per rispondere dei reati di cui agli artt. 572, 609 bis e 610 c.p. e condannato alla pena di giustizia dal Tribunale di Caltagirone. 
Con sentenza dell’8 ottobre 2008 la Corte d’appello di Catania assolveva il C. dal reato di cui all’art. 609 bis c.p. poiché il fatto non sussiste e determinava la pena in ordine ai residui reati in anni due mesi uno e giorni dieci di reclusione. 
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione la Procura Generale. La S.C annullava la sentenza della Corte d’appello limitatamente al reato di cui al capo c). 
La Corte territoriale con la gravata sentenza rigettava i motivi di appello in ordine a tale reato, ritenendo tuttavia sussistente l’ipotesi di minore gravità di cui all’ultimo comma dell’art. 609 bis c.p., rideterminando la pena come sopra indicato. 
2. Avverso tale decisione ricorre il C., deducendo la contradditorietà e manifesta illogicità della motivazione. 

Considerato in diritto 

3. Il ricorso è manifestamente infondato. 
Nell’annullare, su ricorso dei Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Catania, la sentenza della Corte distrettuale emessa nei confronti dell’odierno ricorrente in data 8 ottobre 2008 e con cui il C. era stato assolto dal reato di cui all’art. 609 bis c.p. in danno della moglie G.L., questa Suprema Corte ha rilevato quanto segue. 
La Corte di Appello di Catania, con sentenza in data 08/10/08, assolveva C.M. dal reato di cui all’art. 609 bis c.p., perché il fatto non sussiste. La Corte Territoriale argomentava sul punto, asserendo che - pur essendo la donna contraria ai rapporti sessuali, perché l’uomo era solito consumarli al rientro dalla propria attività di pastore, senza praticare alcuna igiene e pulizia del proprio corpo, finiva per poi accettare volontariamente i rapporti sessuali. Trattasi di motivazione carente ed insufficiente, posto che la donna - come evidenziato con motivazione coerente e puntuale del giudice di 1^ grado - non accettava volontariamente i rapporti sessuali, ma li subiva coattivamente. L’uomo, invero - dopo aver immobilizzato con le mani la moglie - le imponeva i rapporti sessuali, senza aderire affatto alle richieste della coniuge di effettuare la necessaria igiene del proprio corpo. Orbene la Corte Territoriale, sul punto de quo, non ha precisato in modo univoco le ragioni per cui i rapporti sessuali imposti coattivamente alla donna dovevano ritenersi comunque consumati consensualmente. Invero la peculiarità dei motivi del dissenso non eliminava il dissenso medesimo, per cui i rapporti sessuali, laddove imposti con la forza dall’uomo, erano e restavano violenti. Va annullata, pertanto, la sentenza della Corte di Appello di Catania in data 08/10/08, con rinvio a detta Corte Territoriale, altra sezione, per nuovo esame in relazione al reato di cui all’art. 609 bis c.p. capo B) della rubrica." 
La sentenza impugnata attenendosi ai rilievi di questa Corte e ritenendo irrilevante la circostanza che l’unico motivo per cui la donna rifiutava i rapporti sessuali era costituito dalla scarsa igiene del marito e che avrebbe consentito a tali rapporti se lo stesso si fosse previamente lavato, ha ritenuto che detta circostanza non elimina la violenza del rapporto sessuale sussistendo il reato di cui all’art. 609 bis c.p. in tutti i casi in cui i rapporti sessuali vengano in qualsiasi modo imposti, essendo del tutto irrilevanti le modalità ed i mezzi utilizzati e le motivazioni che avessero indotto la parte offesa a rifiutare non un astratto rapporto sessuale con il marito, ma il rapporto sessuale da questi preteso (e poi imposto) senza che avesse praticato quella igiene che la donna riteneva indispensabile atteso il lavoro svolto dal C. 
Nel caso di specie, la Corte di Appello ha pienamente osservato l’ambito funzionale del giudizio di rinvio, considerando altresì che le dichiarazioni accusatorie rese dalla persona offesa, in ordine agli abusi sessuali in addebito, risultavano credibili oggettivamente e soggettivamente. 
Trattasi di un logico apparato argomentativo, che si sottrae all’ulteriore richiesto vaglio di legittimità che non può del resto spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali, hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Rv. 207945). 
E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per effetto della L. n. 46 del 2006, resta immutata la natura dei sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasto preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 17905 dei 23.03.2006, dep. 23.05.2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1769 del 23/03/1995, dep. 28/04/1995, Rv. 201177; Cass. Sez. 6, Sentenza n. 22445 in data 8.05.2009, dep. 28.05.2009, Rv. 244181). 
4. Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Cost., sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del ricorrente medesimo al pagamento delle spese processuali e di una somma, che congruamente si determina in mille euro, in favore della cassa delle ammende. 

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.