domenica 16 febbraio 2014

Accertamento dell' autovelox se nascosto é illegittimo

La Polizia nasconde l'autovelox? Per la Cassazione potrebbe essere truffa ai danni dell'automobilista.

La Polizia nasconde l'autovelox? Per la Cassazione potrebbe essere truffa ai danni dell'automobilista.

Nei prossimi giorni pubblicheremo il testo integrale della sentenza.

Per la Suprema Corte, nella fattispecie il giudice dell'udienza preliminare non può pronunciare il «non luogo a procedere» se in dibattimento astrattamente possono essere rivalutati gli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini da cui emerge la sospetta truffa con l’autovelox agli automobilisti che si sospetta possa essere stata architettata dai vigili urbani e dal titolare dell’impresa che gestisce l’autovelox. Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza, dopo che il gup calabrese aveva dichiarato il non luogo a procedere per i reati di truffa e falso ideologico nella contestazione di verbali al codice della strada nei confronti di tre imputati. Le indagini erano state avviate a seguito della denuncia di un privato che aveva segnalato alla procura della Repubblica che la procedura di contestazione e rilevamento della velocità dei veicoli tramite autovelox reiteratamente non avveniva nel rispetto delle disposizioni del decreto Bianchi (Dl n. 117/2007). Come sovente accade, la visibilità delle apparecchiature era gravemente compromessa da chi si occupava della gestione del servizio. Ma per il gup la condotta «lungi dal rivestire le caratteristiche di un artificio e/ o raggiro, sarebbe stata il frutto di una certa trascuratezza nell’espletamento del servizio», ed aveva escluso la sussistenza di un accordo finalizzato a truffare gli automobilisti. Ma il sospetto del raggiro risulterebbe comunque evidente, stante «l’ostinata reiterazione di modalità di accertamento palesemente contrastante con il dettato legislativo che dimostra che i vigili urbani addetti al controllo si preoccupavano di favorire la società concessionaria del servizio, rivelando così l’accordo tacito volto a beneficiare il titolare della medesima ditta». Risulta, peraltro, altrettanto chiaro l’interesse del titolare dell’impresa individuale (che percepiva una percentuale sulle multe realmente riscosse), a far elevare il numero più elevato di multe da parte degli accertatori e non a garantire la sicurezza degli utenti della strada. Secondo gli ermellini «il non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p., comma 3, deve essere pronunciato dal gup, pur in presenza di prove che in dibattimento potrebbero ragionevolmente condurre all’assoluzione dell’imputato, solo se e in quanto questa situazione di innocenza sia ritenuta immutabile e non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuove prove o da una diversa e possibile rivalutazione degli elementi di prova già acquisiti». Ed infatti, per come rilevato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 39915/2002, «la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori, secondo il dato del novellato art. 425 c.p.p., comma 3 è sempre e comunque diretta a determinare, all’esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta oggi più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda».

Altera gratta e vinci confermata la condanna

Altera un gratta e vinci facendolo risultare come vincente. E' reato.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 17 gennaio – 12 febbraio 2014, n. 6664 Presidente Lombardi – Relatore Pistorelli 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza dei 12 luglio 2012 la Corte d'appello di Caltanissetta confermava la condanna di L.O. per il reato di cui all'art. 485 c.p. in relazione all'alterazione di un tagliando di una lotteria nazionale ad estrazione istantanea del tipo "gratta e vinci" in modo da far risultare lo stesso come vincente, ma, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, lo assolveva dal connesso reato di tentata truffa aggravata ai danni dell'ente gestore la lotteria, ritenendo trattarsi di reato impossibile per inidoneità dell'azione, giacchè la falsificazione aveva prodotto una combinazione numerica cui corrispondeva la vincita di un premio non contemplato tra quelli predisposti per il giuoco. 
2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato articolando due motivi. 
2.1 Con il primo deduce vizi motivazionali del provvedimento impugnato, ritenendo ingiustificata ed apodittica la svalutazione operata dalla Corte territoriale della versione dei fatti offerta dall'imputato (il quale ha affermato di aver rinvenuto casualmente il tagliando sul tavolo di un bar) e soprattutto delle convergenti dichiarazioni rese dalla moglie del medesimo, ritenute inattendibili non in base ad un'analisi della loro intrinseca consistenza, bensì in forza del mero pregiudizio derivante dal rapporto di coniugio che lega la teste al L. 
2.2 Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l'errata applicazione della legge penale incriminatrice e correlati vizi motivazionali della sentenza, rilevando come proprio l'impossibilità originaria ed assoluta di conseguire la vincita risultante dal tagliando artefatto determinerebbe, prima ancora dell'impossibilità della truffa da cui i giudici d'appello hanno assolto l'imputato, la stessa consumazione del reato di falso, atteso che lo stesso deve essere supportato dal dolo specifico di conseguire un utile che, per l'appunto, nel caso di specie non sarebbe mai stato possibile conseguire e sulla cui sussistenza comunque la Corte distrettuale avrebbe omesso di argomentare. Non di meno e per le stesse ragioni il falso avrebbe dovuto essere qualificato come grossolano od innocuo, atteso che la vincita, quale risultato della combinazione della stringa di numeri contenuta nel tagliando, ne è un elemento indefettibile. Pertanto l'alterazione del tagliando in modo tale da non far risultare una vincita effettivamente riscuotibile, in quanto non corrispondente a nessuna di quelle previste nel montepremi, non poteva ritenersi idonea ad ingannare alcuno. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. 
1.1 Prendendo le mosse dal secondo motivo deve ritenersi corretta la qualificazione giuridica attribuita ai fatti dalla Corte territoriale. E' infatti necessario ribadire che in tema di falso grossolano o inidoneo, è esclusa la configurabilità del reato impossibile qualora la difformità dell'atto dal vero non sia riconoscibile ictu oculi, in base alla sola disamina dell'atto stesso (Sez. 5, n. 36647 del 4 giugno 2008, Vena, Rv. 241302). Riconoscibilità che nel caso di specie è stata correttamente esclusa, attesa la natura degli adempimenti che si sono resi necessari per accertare l'alterazione del tagliando. 
1.2 Né rileva il fatto che la sequenza "vincente" artatamente creata dall'imputato non trovasse effettiva corrispondenza nel montepremi. Infatti, attesa la natura di pericolo del reato previsto dall'art. 485 c.p. (Sez. 5, n. 29026 del 30 aprile 2012, p.c. in proc. Giorgio, Rv. 254610), la grossolanità del falso deve essere valutata con riguardo esclusivo alle caratteristiche intrinseche del documento che ne costituisce l'oggetto e nella prospettiva della sua idoneità ad ingannare i terzi, senza che assuma rilievo il conseguimento del risultato cui la sua realizzazione risulta strumentale. In tal senso l'effettiva possibilità di riscuotere il premio individuato dalla sequenza artefatta non incide sulla configurabilità del reato, atteso che il documento era comunque in grado di trarre in inganno. In definitiva il ricorrente fa discendere la grossolanità del falso dalle specifiche modalità di utilizzazione del documento registrate nel caso di specie, così invertendo l'oggetto dell'accertamento e valorizzando una circostanza esterna al fatto di reato. Ed ancor meno fondata risulta l'obiezione relativa alla sussistenza in concreto del dolo specifico richiesto dall'art. 485 c.p. Ma proprio la configurazione dell'elemento soggettivo nei termini indicati evidenzia come sia irrilevante ai fini della consumazione del reato che il vantaggio venga conseguito e come il dolo sia integrato anche nel caso in cui l'agente agisca nella mera soggettiva convinzione di poterlo realizzare. 
2. Infondate ai limiti dell'inammissibilità sono anche le doglianze avanzate con il primo motivo. Quanto alla svalutazione della versione dei fatti offerta dall'imputato, il giudizio sulla sua inverosimiglianza è stato giustificato in maniera non manifestamente illogica dalla Corte distrettuale, mentre il ricorrente si è limitato a riproporla in maniera assertiva. E' poi vero che la sentenza rifiuta in maniera sbrigativa ed erroneamente pregiudiziale di valutare le dichiarazioni della moglie del L., ma tale "errore" non può ritenersi viziante per la sostanziale inammissibilità della censura. Ed infatti, per un verso va rilevato che i motivi d'appello nemmeno avevano introdotto il tema della valenza probatoria della testimonianza della donna, non avendo in particolar modo l'imputato in quella sede contestato la valutazione di intrinseca inattendibilità del suo narrato formulato dal giudice di primo grado; per l'altro deve osservarsi che il ricorrente non ha saputo evidenziare perché la testimonianza di cui lamenta l'omessa valutazione sarebbe da ritenersi decisiva, posto che la moglie dell'imputato non ha assistito al presunto ritrovamento del tagliando da parte del marito, ma ha solo dichiarato di aver avuto conoscenza del fatto proprio dal coniuge. 
3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento delle spese processuali, anche alla refusione di quelle sostenute nel grado dalla parte civile che si ritiene e quo liquidare in complessivi euro 1.500,00, oltre agli accessori di legge. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile che liquida in euro 1.500,00, oltre accessori di legge. 

mercoledì 12 febbraio 2014

Simulano un sinistro e minacciano la parte per farsi firmare il cid

Dopo un sinistro stradale 2 uomini minacciano la donna che conduceva l’altro veicolo puntando al collo una pistola priva del tappo rosso e minacciandola di morte, se non avesse firmato un c.i.d. a loro favore.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 17 gennaio – 7 febbraio 2014, n. 5941 Presidente Cammino – Relatore Macchia 

Osserva 

Con sentenza del 17 ottobre 2012, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza emessa il 1 marzo 2012 dal Tribunale della medesima città con la quale, all'esito del giudizio abbreviato, M.M. era stato condannato alla pena di anni due di reclusione ed euro 500 di multa e M.M. alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione ed euro 400 di multa quali imputati del delitto di tentata estorsione per avere, in concorso tra loro, con violenza consistita nel puntare al collo di C.A. una pistola priva del tappo rosso e successivamente cercare di colpirla con una spranga di ferro, nonché rivolgendole ripetute minacce anche di morte, tentato di costringere la predetta a firmare un c.i.d. per sinistro stradale a loro favorevole. La Corte disattendeva i rilievi dell'appellante, ricostruendo i fatti alla luce delle testimonianze e dei rilievi, e giungendo alla conclusione che gli imputati avessero volontariamente cagionato il sinistro stradale in relazione al quale avevano poi dato vita alle condotte descritte nel capo di imputazione, escludendo che il fatto - come richiesto dalla difesa degli imputati nei motivi di appello - potessero essere derubricato nel reato di cui all'art. 393 cod. pen. 
Propone ricorso per cassazione il difensore il quale deduce che i giudici dell'appello avrebbero errato nel procedere alla ricostruzione del sinistro, in quanto le deposizioni cui la sentenza fa riferimento si riferirebbero ad un momento successivo all'incidente mentre i rilievi attesterebbero solo il profilo statico del sinistro. Nulla dunque assevererebbe l'ipotesi che i due imputati avessero volontariamente cagionato l'incidente che, invece, nella loro prospettiva, era stato determinato dalla donna.. Ciò doveva dunque indurre i giudici del merito a riconoscere gli estremi per ritenere nella specie integrato il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Si lamenta poi la mancata concessione delle attenuanti generiche in favorire di M.M. 
Il ricorso è infondato. Può infatti parlarsi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone soltanto se il comportamento dell'agente si sia concretizzato nella realizzazione di una pretesa di diritto mediante la sostituzione della privata violenza agli effetti coattivi che scaturiscono, o che possono comunque scaturire, dal provvedimento giurisdizionale, conseguendo così direttamente, anche se con arbitrio, a causa dei mezzi impiegati, lo stesso effetto positivo che può scaturire da una posizione soggettiva qualificata, regolarmente azionata secundum ius. Il delitto di cui all'art. 393 cod. pen. si traduce, infatti - come anche rivela la sua collocazione topografica nel quadro dei reati contro l'amministrazione della giustizia - nella indebita attribuzione a sé stesso, da parte del privato, di poteri e facoltà spettanti esclusivamente al giudice, e l'agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa effettivamente e giuridicamente in toto, con la conseguenza che il reato di cui all'art. 393 cod. pen. non può ritenersi configurabile quando si tratti di pretesa illegittima in tutto o in parte o sia giuridicamente impossibile il ricorso al giudice. 
D'altra parte, è pure ricorrente l'insegnamento secondo il quale, per la sussistenza della fattispecie in questione, è necessario non solo che la pretesa arbitrariamente esercitata sia munita di specifica azione, ma anche che la condotta illegittima sia mantenuta nei limiti di quanto il soggetto avrebbe potuto ottenere per via giudiziaria, escludendosi, dunque, l'applicabilità dell'art. 393 cod. pen., ove il fatto trasmodi il fine, producendo effetti ulteriori rispetto alla coazione in quanto tale, che è l'elemento che accomuna la pretesa giudiziariamente realizzata e dunque "eseguibile", e la pretesa direttamente "soddisfatta" dal privato attraverso l'uso della violenza o della minaccia (sul punto, e tra le tante, v. Cass., Sez. VI, n. 32721 del 21 giugno 2010). 
Ebbene, nel caso di specie, è del tutto evidente che nessuna azione giudiziaria poteva consentire agli imputati di ottenere, da parte della persona offesa, una sottoscrizione del c.i.d. o una sorta di riconoscimento del debito, non senza rilevare, d'altra parte, non solo che risulta processualmente accertata la diretta ed esclusiva responsabilità degli stessi imputati nella genesi del sinistro, addirittura volontariamente prodotto, ma anche un evidente eccesso di violenza, del tutto incongruo rispetto alla realizzazione della ipotetica pretesa, al punto da aver esposto a pericolo di danno la stessa persona della vittima del reato. Il che basta ad escludere la riconducibilità del fatto all'interno del circoscritto perimetro entro il quale può trovare applicazione la particolare figura della "ragion fattasi". 
Palesemente inammissibile si rivela, poi, il motivo concernente la mancata concessione delle attenuanti generiche in favore di M.M., in quanto la motivazione offerta al riguardo dai giudici a quibus si rivela del tutto esente da censure rilevanti in questa sede, a fronte, per di più, delle deduzioni sostanzialmente aspecifiche formulate sul punto dal ricorrente difensore. 
Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. 

lunedì 10 febbraio 2014

Furgone trasporta 42 cuccioli di cane di varie razze tenuti dentro gabbie all’interno di spazi esigui, in condizioni incompatibili per l’età e le caratteristiche etologiche per finalità di lucro. I cuccioli risultavano privi delle necessarie certificazioni sanitarie e di valido passaporto.

Furgone trasporta 42 cuccioli di cane di varie razze tenuti dentro gabbie all’interno di spazi esigui, in condizioni incompatibili per l’età e le caratteristiche etologiche per finalità di lucro. I cuccioli risultavano privi delle necessarie certificazioni sanitarie e di valido passaporto.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 5 dicembre 2013 – 29 gennaio 2014, n. 3937 Presidente Fiale – Relatore Scarcella Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 7/06/2013, depositata in data 8/06/2013, il tribunale del riesame di UDINE rigettava la richiesta di riesame presentata dalla ricorrente contro il provvedimento 9/05/2013 emesso dal GIP del tribunale di UDINE, con cui disponeva il sequestro preventivo di un furgone Fiat Ducato tg. ..., previa riqualificazione giuridica del reato di cui all'art. 544 - ter c.p. nel reato di cui all'art. 727 c.p.. 
2. La misura cautelare reale è stata disposta in quanto la ricorrente è indagata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di UDINE: a) del reato di cui agli artt. 110, 544 - ter c.p. perché, in concorso e previo accordo con altri soggetti (M.A. e D.R.L. ) per crudeltà e senza necessità, maltrattavano 42 cuccioli di cane di varie razze con comportamenti insopportabili per le caratteristiche etologiche, trasportando i medesimi in gabbie riposte all'interno del mezzo Fiat Ducato tg. ..., in condizioni incompatibili con l'età e le caratteristiche etologiche (temperatura ed esiguità degli spazi, insufficiente somministrazione di acqua e cibo); fatto accertato in (omissis) ; b) del delitto di cui all'art. 4, commi 1, 2 e 3 della legge n. 201/2010, perché al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, trasportavano i 42 cuccioli di cui al capo a) privi delle necessarie certificazioni sanitarie e di valido passaporto, di età inferiore a 13 settimane; accertato in (omissis) ; c) del delitto di cui agli artt. 110, 477, 482 c.p. perché, in concorso e previo accordo tra loro, falsificavano i passaporti degli animali trasportati sub a), riportando sugli stessi un'età degli animali non corrispondente a quella reale. 
3. Ha proposto tempestivo ricorso la G. personalmente, impugnando l'ordinanza predetta, deducendo un unico motivo di ricorso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.. 
3.1. Deduce, in particolare, la violazione dell'art. 606, lett. B), c) ed e) c.p.p. in reazione agli artt. 544 - ter, 489 c.p. e art. 4, legge n. 201 del 4/11/2010; in sintesi, si duole la ricorrente per essere l'ordinanza impugnata inficiata da un'erronea valutazione degli atti processuali, offrendo una motivazione carente ed illogica in relazione alle doglianze espressamente formulate in sede di riesame. 
3.2. Quanto alla configurabilità del reato di cui all'art. 4 della legge n. 201/2010, rileva che il trasporto è stato eseguito nel rispetto della normativa, atteso che i cuccioli erano regolarmente accompagnati dai passaporti identificativi, erano muniti di microchip ed erano indicati nel modello Traces n. (omissis) ; in particolare, si censura il fatto che il tribunale del riesame avrebbe omesso di valutare che il Traces, i passaporti degli animali ed i microchip vengono rilasciati dal servizio veterinario slovacco ed immediatamente comunicati al servizio veterinario italiano mediante il caricamento nel database del modello Traces appena compilato; il Traces sequestrato corrisponde a quello rilasciato dal Dipartimento di prevenzione, U.O. Veterinaria dell'ASL di Salerno X; in definitiva, dunque, è il veterinario dell'ASL slovacca che compila i documenti ed attesta l'idoneità degli animali e delle loro condizioni di salute, la regolarità della documentazione e del furgone utilizzato per il trasporto, senza che gli acquirenti (tra cui la ricorrente, titolare di omonima ditta avente ad oggetto l'importazione di cani e gatti anche dall'estero) abbiano possibilità di accedere, compilare o modificare atti e documenti loro rilasciati al momento della verifica prima della partenza da parte del servizio Veterinario nazionale della Slovacchia. 
3.3. Quanto alla configurabilità dell'ipotizzata falsità dei documenti, poi, la ricorrente si sarebbe esclusivamente limitata ad acquisire gli animali in Slovacchia, neppure di persona, secondo qualità e caratteristiche riscontrate e certificate dall'ASL slovacca; avrebbe, comunque, agito in buona fede, nella convinzione di effettuare una lecita importazione di cuccioli, in quanto nel procedere all'acquisto ed al trasporto dei cani avrebbe fatto affidamento su quanto certificato dall'Autorità veterinaria slovacca, unica autorità sanitaria che li aveva potuti visitare. 
3.4. In merito al presunto maltrattamento di animali, si duole dell'aver ritenuto il tribunale configurabile il delitto di cui all'art. 544 - ter c.p. nell'aver trasportato i cani in gabbie riposte all'interno di un furgone Fiat Ducato tg. ...; diversamente, si tratterebbe di un furgone appositamente predisposto, con sistema di ventilazione e riscaldamento a temperatura costante, fornito di acqua, cibo e materiali per assorbire gli escrementi gli animali, alloggiati in gabbie dalle dimensioni generose, come del resto risulta dall'autorizzazione rilasciata dall'ASL di ...; quanto all'età dei cuccioli, rileva come gli accertamenti diretti alla verifica dell'età presentano notevoli difficoltà sia per il ridotto arco temporale da accertare (12-14 settimane) sia per il fatto che molti di essi appartengono alle razze "toy", ossia con dimensioni e caratteristiche notevolmente inferiori rispetto allo standard della razza, difficoltà confermate dalla circostanza che lo stesso veterinario, nominato come ausiliario dalla PG operante, ha riscontrato un'età superiore alle 12 settimane in molti esemplari di cane, ugualmente sottoposti a sequestro. 
3.5. Difetterebbe, conclusivamente, sia l'elemento oggettivo (il trasporto non può equivalere a trattamenti che procurano danni alla salute) che quello soggettivo dei reati ipotizzati, valutazione, quest'ultima, relativa all'elemento soggettivo, che il tribunale del riesame avrebbe potuto effettuare secondo la giurisprudenza di legittimità. 
4. Quanto al periculum, infine, censura la motivazione con cui i giudici del riesame hanno ritenuto sussistere che la disponibilità del furgone potesse agevolare la commissione di altri reati, affermazione censurata come errata da un punto di vista logico - motivazionale, soprattutto laddove si è ritenuto di mantenere il vincolo reale sul mezzo perché già sottoposto in precedenza a sequestro da parte dell'A.G. bolognese per motivi analoghi, senza tuttavia considerare che il tribunale del riesame felsineo ne aveva disposto l'annullamento per difetto dell'elemento psicologico; censura, ancora, l'affermazione contenuta nell'ordinanza impugnata che ha ritenuto irrilevanti, ai fini dell'imposizione del vincolo, le deduzioni difensive secondo cui le falsità in contestazione sarebbero ascrivibili al veterinario slovacco che ha formato la documentazione, affermazione frutto di un'erronea valutazione delle emergenze processuali condensate in un'espressione del tipo "non potevano non rendersi conto..da un semplice esame visivo", trattandosi di documenti predisposti da un veterinario slovacco, ciò che legittimerebbe qualsiasi cittadino a diffidare di un atto pubblico o redatto da un pubblico ufficiale; censura, infine, l'affermazione del tribunale secondo cui, al fine di giustificare il mantenimento del vincolo cautelare sul mezzo, sarebbe irrilevante la circostanza che al furgone in sequestro fossero state rilasciate le autorizzazioni, tenuto conto peraltro che non può qualificarsi come maltrattamento il trasporto su mezzo idoneo ed autorizzato. 

Considerato in diritto 

5. Il ricorso dev'essere rigettato per le ragioni di seguito esposte. 
6. Deve, preliminarmente ricordarsi, che in sede di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l'art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità solo per motivi attinenti alla violazione di legge. Nella nozione di "violazione di legge" rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606 stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 - dep. 13/02/2004, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003 - dep. 10/06/2003, Pellegrino S., Rv. 224611). 
7. Tanto premesso sui limiti del sindacato di questa Corte, ritiene il Collegio che sia evidente l'infondatezza del motivo di ricorso, che censura l'ordinanza impugnata ritenendola inficiata da un'erronea valutazione degli atti processuali, offrendo una motivazione carente ed illogica in relazione alle doglianze espressamente formulate in sede di riesame. Diversamente, a giudizio di questa Corte, il giudice del riesame ha correttamente proceduto alla valutazione critica degli elementi d'accusa, tenendo conto delle critiche proposte dalla difesa della ricorrente nella fase impugnatoria cautelare, applicando correttamente il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui il tribunale del riesame non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l'indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro (v., ex plurimis: Sez. 2, n. 44399 del 27/09/2004 - dep. 12/11/2004, Rosellini ed altro, Rv. 229899). 
8. Deve, anzitutto, preliminarmente osservarsi che il ricorso soffre di un vizio originario, nella parte in cui la ricorrente svolge le proprie censure sul reato di cui all'art. 544 ter cod. pen., laddove, diversamente, il tribunale del riesame ha confermato l'ordinanza genetica sulla base di una diversa qualificazione giuridica del fatto (peraltro legittimamente: Sez. 1, n. 41948 del 14/10/2009 - dep. 30/10/2009, Weijun, Rv. 245069); ed invero, come risulta chiaramente dalla lettura della motivazione dell'impugnata ordinanza, il giudice del riesame, nel valutare gli elementi offerti dall'accusa, ha ritenuto che la fattispecie sub a) dell'imputazione provvisoria cautelare fosse idonea ad integrare "quanto meno" gli estremi del diverso reato di cui all'art. 727 cod. pen. (v. pag. 7 ordinanza), con riferimento sia alle condizioni approssimative di trasporto degli animali, sia alla conferma dello stato di sofferenza dei cuccioli legato a tali condizioni di trasporto, apparentemente contrastanti con le previsioni del Reg. CE n. 1/2005 e del D. Lgs. n. 151/2007 sulla protezione degli animali. Sotto tale profilo, dunque, il tribunale del riesame ha fornito una motivazione completa circa la configurabilità, nei fatti, della diversa ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 727 cod. pen., non certamente suscettibile di sindacato ex art. 325 cod. proc. pen., avendo infatti puntualmente espresso le ragioni della sussumibilità del fatto nella fattispecie contravvenzionale e non in quella delittuosa originariamente ipotizzata dal GIP, ritenendo che per ravvisare il fumus dell'art. 727 cod. pen. è sufficiente l'accertamento di un'obiettiva condizione di sofferenza degli animali connessa alle complessive modalità della loro detenzione. Il tribunale del riesame si è, peraltro, fatto carico delle obiezioni difensive circa la pretesa insussistenza del reato nel fatto di trasportare un animale a bordo di un mezzo attrezzato; sul punto, ha osservato il giudice del riesame che il trasporto a bordo di un veicolo non può fornire una giustificazione alle sofferenze patite dall'animale, poiché il trasportare un cane a bordo di un furgone costituisce condizione contraria alla natura dell'animale, sicché, onde evitare che tale situazione si riveli del tutto incompatibile, si impone certamente una maggiore attenzione affinché le concrete modalità di trasporto riducano al minimo i disagi per l'animale. Quanto sopra, pertanto, esclude, quindi, la fondatezza della censura difensiva. 
9. In merito, poi, agli ulteriori profili di censura, si osserva - quanto al fumus del reato di cui all'art. 4, l. 4 novembre 2010, n. 201, recante "Ratifica ed esecuzione della Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia, fatta a Strasburgo il 13 novembre 1987, nonché norme di adeguamento dell'ordinamento interno" -, che il tribunale ha ritenuto configurabile tale ipotesi di reato alla luce dei dati oggettivi emergenti dagli atti (cuccioli di età anche inferiore alle 12 settimane, privi di idonee certificazioni sanitarie e di passaporti individuali, in molti casi falsificati in quanto attestanti un'età dell'animale difforme da quella reale), evidenziando come si trattasse di condotta penalmente sanzionata a norma della richiamata disposizione di legge in quanto finalizzata al conseguimento di un illecito profitto derivante dalla vendita di esemplari di razza, dunque aventi pregio economico. Analogamente, poi, quanto al fumus del reato di falso ipotizzato, l'ordinanza si fa carico di motivare adeguatamente e con completezza sulle ragioni per le quali non risultano, allo stato, meritevoli di positiva valutazione le critiche difensive secondo cui le falsità della documentazione accompagnatoria degli animali sarebbero ascrivibili al veterinario slovacco, facendo coerente applicazione della giurisprudenza di questa Corte secondo cui il sequestro preventivo è legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, e indipendentemente dall'accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell'agente o della sussistenza dell'elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all'adozione della misura cautelare reale (Sez. 1, n. 15298 del 04/04/2006 - dep. 03/05/2006, Bonura, Rv. 234212; Sez. 6, n. 10618 del 23/02/2010 - dep. 17/03/2010, P.M. in proc. Olivieri, Rv. 246415). 
Orbene, a tal proposito osserva questa Corte che, la misura "de qua", pur raccordandosi, nel suo presupposto giustificativo, ad un fatto criminoso, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di colpevolezza, essendo ontologicamente legata non necessariamente all'autore del reato, bensì alla cosa, che viene riguardata dall'ordinamento come strumento, la cui libera disponibilità può rappresentare una situazione di pericolo. È ben vero che, peraltro, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al "fumus" del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, sicché lo stesso giudice può rilevare anche il difetto dell'elemento soggettivo del reato, ma a condizione che lo stesso emerga "ictu oculi" (v. Corte cost., 4 maggio 2007, n. 153; nella giurisprudenza di legittimità, in senso conforme, v., tra le tante: Sez. 4, n. 23944 del 21/05/2008 - dep. 12/06/2008, P.M. in proc. Di Fulvio, Rv. 240521). Ciò che, peraltro, difetta, nel caso in esame, è proprio la circostanza positiva richiesta ai fini della valutazione della insussistenza dell'elemento soggettivo, con riferimento alle violazioni ipotizzate, ossia l'immediata evidenza del difetto dell'elemento psicologico, come chiaramente e puntualmente motivato dal giudice del riesame (v. pag. 7 ordinanza) in cui si esclude che la buona fede della ricorrente risultasse ictu oculi, ove si consideri, da un lato, che la giovanissima età di numerosi esemplari emergeva in modo palese a un semplice esame visivo ed anche per tabulas in base alla risultanze della relazione del veterinario nominato ausiliario di PG e, dall'altro, tenuto conto della circostanza che il furgone fosse stato sequestrato in base a provvedimento di altra A.G. per gli stessi fatti, ciò che appariva contrastare con i certificati rilasciati da autorità veterinarie straniere ed era, quindi, di per sé idoneo a far dubitare soggettivamente circa l'autenticità dei documenti accompagnatori degli animali. Gli ulteriori elementi di censura prospettati dalla ricorrente (procedimento di rilascio dei documenti da parte della ASL slovacca, questioni relative alle difficoltà di accertamento dell'età dei cuccioli ed alla loro natura "toy", etc.), costituiscono in realtà deduzioni di puro fatto, in quanto tali sottratte al sindacato di legittimità di questa Corte. 
10. Infine, quanto alla censura relativa al profilo del periculum in mora, per escluderne la fondatezza, è sufficiente in questa sede ricordare che le censure riguardanti la motivazione del provvedimento del tribunale del riesame che qualificano, come nel caso di specie, errata la motivazione da un punto di vista logico - motivazionale, sono assolutamente inammissibili in quanto esulano dall'unico profilo sindacabile davanti a questa Corte ex art. 325 cod. proc. pen., ossia quello di violazione di legge, come dianzi precisato, né la motivazione dell'impugnato provvedimento può considerarsi assolutamente carente o apparente, avendo infatti argomentatamene motivato il giudice del riesame su tutti i profili, ivi compreso il profilo del periculum con riferimento a tutte le violazioni ipotizzate. Gli ulteriori elementi di censura prospettati dalla ricorrente sotto il profilo del periculum, infine, costituiscono in realtà deduzioni di puro fatto, in quanto tali sottratte al sindacato di legittimità di questa Corte. 
11. Il ricorso dev'essere, complessivamente, rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La cassetta della verdura è esposta ai gas di scarico delle auto: punito il commerciante.


La cassetta della verdura è esposta ai gas di scarico delle auto: punito il commerciante.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 17 gennaio - 10 febbraio 2014, n. 6108 Presidente Teresi – Relatore Ramacci 

Ritenuto in fatto 

1. Il Tribunale di Noia, in composizione monocratica, con sentenza dell'11.4.2013 ha condannato B.M. alla pena dell'ammenda riconoscendolo colpevole della contravvenzione di cui all'art. 5, lett. b) della legge 283/1962, per aver detenuto per la vendita 3 cassette di verdure di vario tipo in cattivo stato di conservazione (in Pomigliano d'Arco, 29.3.2009). 
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione. 
2. Con un unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, lamentando che il giudice del merito sarebbe pervenuto all'affermazione di penale responsabilità sulla base di una motivazione meramente apparente, valorizzando la sola collocazione all'aperto degli alimenti, ritenuti esposti agli agenti atmosferici e senza considerare la presenza di segni evidenti della cattiva conservazione o l'inosservanza di particolari prescrizioni finalizzate alla preservazione delle sostanze alimentari. 
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso. 

Considerato in diritto 

3. Il ricorso è infondato. 
Come è noto, la contravvenzione in esame vieta l'impiego nella produzione, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione. 
Secondo le Sezioni Unite di questa Corte (SS.UU. n. 443, 9 gennaio 2002, citata anche nella sentenza impugnata) si tratta di un reato di danno, perché la disposizione è finalizzata non tanto a prevenire mutazioni che nelle altre parti dell'art. 5 legge 283/1962 sono prese in considerazione come evento dannoso, quanto, piuttosto, a perseguire un autonomo fine di benessere, assicurando una protezione immediata all'interesse del consumatore affinché il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura. Conseguentemente, si è escluso che la contravvenzione si inserisca nella previsione di una progressione criminosa che contempla fatti gradualmente più gravi in relazione alle successive lettere indicate dall'art. 5, perché, rispetto ad essi, è figura autonoma di reato, cosicché, ove ne ricorrano le condizioni, può anche configurarsi il concorso (in senso conforme, Sez. III n. 35234, 21 settembre 2007; difforme Sez. III n. 2649, 27 gennaio 2004). 
Le Sezioni Unite, sempre nella decisione in precedenza richiamata, hanno anche precisato che, ai fini della configurabilità del reato, non vi è la necessità di un cattivo stato di conservazione riferito alle caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari, essendo sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, che devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza (conf. Sez. III n. 15094, 20 aprile 2010; Sez. III n. 35234, 21 settembre 2007, cit.; Sez. III n. 26108, 10 giugno 2004; Sez. III n.123124, 24 marzo 2003; Sez. IV n. 38513, 18 novembre 2002; Sez. III n. 37568, 8 novembre 2002; Sez. III n. 5, 3 gennaio 2002). 
Conformandosi al primo dei principi appena ricordati, altra pronuncia (Sez. III n. 35828, 2 settembre 2004) ha successivamente chiarito che la natura di reato di danno attribuita dalle Sezioni Unite alla contravvenzione in esame non richiede la produzione di un danno alla salute, poiché l'interesse protetto dalla norma è quello del rispetto del cd. ordine alimentare, volto ad assicurare al consumatore che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura. 
Si è inoltre affermato che è comunque necessario accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento delle sostanze (Sez. III n. 439, 11 gennaio 2012; Sez. III n. 15049, 13 aprile 2007) escludendo, tuttavia, la necessità di analisi di laboratorio o perizie, ben potendo il giudice di merito considerare altri elementi di prova, come le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza, quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e, pertanto, rilevabile da una semplice ispezione (Sez. III n. 35234, 21 settembre 2007, cit.) ed affermando che il cattivo stato di conservazione dell'alimento può assumere rilievo anche per il solo fatto dell'obiettivo insudiciamento della sola confezione, conseguente alla sua custodia in locali sporchi e quindi igienicamente inidonei alla conservazione (Sez. III n. 9477, 10 marzo 2005) ed è configurabile anche nel caso di detenzione in condizioni igieniche precarie (Sez. III n. 41074, 11 novembre 2011). 
4. Considerati tali principi, che il Collegio condivide pienamente, deve rilevarsi che, nella fattispecie, ad un corretto richiamo della giurisprudenza delle Sezioni Unite, il giudice del merito ha fatto seguire l'altrettanto corretta affermazione secondo la quale la messa in commercio di frutta all'aperto ed esposta agli agenti inquinanti costituisca una violazione dell'obbligo di assicurare l'idonea conservazione delle sostanze alimentari e rispettare l'osservanza di disposizioni specifiche integrative del precetto. 
Il giudice fonda il proprio convincimento in base a quanto riferito dal teste escusso, il quale ha evidenziato che tre cassette di verdura erano esposte all'aperto e, pertanto, a contatto con agenti atmosferici e gas di scarico dei veicoli in transito. 
Tale diretto accertamento da parte della polizia giudiziaria risulta del tutto sufficiente a giustificare l'affermazione di penale responsabilità, evidenziando una situazione di fatto certamente rilevante a tal fine la cui sussistenza risulta peraltro confermata dallo stesso ricorrente, laddove, nell'atto di impugnazione (pag. 2 del ricorso), si riconosce che la verdura era esposta per la vendita sul marciapiede antistante l'esercizio commerciale. 
5. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

sabato 1 febbraio 2014

DASPO: i cortei dei tifosi non rientrano nella nozione di “manifestazioni sportive” di cui all’art. 6 L. 401/89

DASPO: i cortei dei tifosi non rientrano nella nozione di “manifestazioni sportive” di cui all’art. 6 L. 401/89

Cassazione Penale, Sez. III, 28 gennaio 2014 (ud. 8 gennaio 2014), n. 3713
Presidente Squassoni, Relatore Ramacci, P. G. Lettieri (concl. diff.)

Depositata il 28 gennaio 2014 la pronuncia numero 3713 della terza sezione penale (relatore Ramacci) relativa alla nozione di “manifestazioni sportive” rilevante al fine di delimitare l’ambito di applicazione del divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive (cd. DASPO), di cui all’art. 6 l. 401/1989.

Questi, brevemente, i fatti: l’imputato era stato condannato, sia in primo grado sia in appello, per il reato di cui alla L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 6, commi 1 e 6, perchè, sottoposto a provvedimento del Questore impositivo del divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive calcistiche, ai luoghi interessati alla sosta, al transito o al trasportoda e verso i luoghi medesimi, nonchè all’obbligo di presentarsi presso la locale Questura trenta minuti prima e trenta minuti dopo gli incontri disputati dalla squadra dell’Inter,contravveniva allo stesso partecipando al corteo di tifosi che dallo stadio  raggiungeva varie zone della città, tra cui la sede RAI manifestando in esito agli avvenimenti relativi alla sospensione della prevista partita tra le squadre di Inter e Lazio.
Proponeva, allora, ricorso per Cassazione osservando, preliminarmente, come la zona ove egli venne filmato non fosse nè adiacente allo stadio, nè soggetta al transito di tifosi in occasione di una manifestazione sportiva; in secondo luogo, veniva fatto notare come nel daspo non può mai mancare il collegamento diretto con l’espletamento di una manifestazione sportiva che, nel caso di specie, non è mai avvenuta.

I giudici della terza sezione hanno ritenuto il motivo fondato.
Il divieto in questione - nella parte in cui vieta l’accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive calcistiche, ai luoghi interessati alla sosta, al transito o al trasporto da e verso i luoghi medesimi – non può ritenersi violato nell’ipotesi in cui il soggetto colpito dal divieto questorile partecipi ad una manifestazione inscenata da alcun tifosi per le vie cittadine dopo la sospensione della partita che avrebbe dovuto disputarsi.
La manifestazione, infatti, non può intendersi come una fase di deflusso dall’impianto sportivo e, dunque, ricompresa, in quanto tale, nel provvedimento del questore.
Si tenga presente, inoltre, che nessun dubbio può aversi su cosa si intenda per “manifestazione sportiva”, dal momento che il Legislatore, con la Legge 377/2001, nel convertire il d. l. 336/2001 – con il quale veniva modificata la legge 401/89 – ha introdotto nel suddetto decreto l’art. 2-bis – come norma di interpretazione autentica - la quale dispone che «per manifestazioni sportive ai sensi degli artt. 1 e 2, si intendono le competizioni che si svolgono nell’ambito delle attività previste dalle federazioni sportive e dagli enti e organizzazioni riconosciuti dal CONI».
La fattispecie in esame, per di più, è del tutto simile ad altre già affrontate dalla giurisprudenza nelle quali la Corte ha chiarito come «il fine perseguito dalla disposizione dalla norma è quello della sicurezza in occasione delle manifestazioni sportive e non anche in occasione di una qualsivoglia manifestazione collegata all’attività sportiva» (v. Cass. Pen., Sez. III, n. 44431, 30 novembre 2011) e che «non sussistono  i presupposti per l’applicazione del DASPO nel caso di un raduno di tifosi presso uno stadio con fumogeni e striscioni per ascoltare la radiocronaca di un incontro giocato altrove e manifestare contro l’adozione della “tessera del tifoso”, in quanto trattavasi di evento verificatosi in luogo in cui non si stava svolgendo alcuna manifestazione sportiva e per diversa finalità» (v. Cass. Pen., Sez. III, n. 27067, 13 luglio 2010).

In conclusione, privilegiando un’interpretazione letterale - evitando, così, di sfociare neldivieto di analogia in malam partem – deve respingersi la tesi, pur sostenuta dalle corti territoriali, secondo cui la manifestazione debba considerarsi come una fase di deflusso dall’impianto sportivo e, in quanto tale, ricompresa nel provvedimento del questore.
Non essendosi in quel giorno disputata alcuna manifestazione sportiva, la sentenza di condanna deve essere annullata senza rinvio per insussistenza del fatto.