giovedì 22 maggio 2014

Stalking non c'è bisogno della certificazione clinica dello stato patologico

Stalking. Per la configurazione del reato di atti persecutori non è necessaria la prova clinica del disagio subito dalla vittima.

Corte di Cassazione Quinta Sezione 
sentenza 28 novembre 2013 – 19 maggio 2014, n. 20531 
Ritenuto in fatto 
Il difensore di C.V. ricorre avverso la pronuncia indicata in epigrafe, recante la conferma della sentenza 
emessa dal G.i.p. del Tribunale di Sondrio in data 02/05/2011, in forza della quale il C. era stato condannato 
alla pena di mesi 8 e giorni 10 di reclusione per il delitto di cui all'art. 612 bis cod. pen., in ipotesi commesso 
in pregiudizio di S.A. (sua ex convivente) e di G.M. , nuovo compagno della donna. Questi ultimi si erano 
costituiti parti civili, e l'imputato era stato contestualmente condannato anche al risarcimento dei relativi 
danni. 
I fatti concernono condotte di ripetuta molestia da parte del prevenuto, con pedinamenti veri e propri o 
comunque con l'imposizione della propria presenza, nei confronti della S. , episodi talora connotati da 
minacce gravi, soprattutto all'indirizzo del G. : secondo l'ipotesi accusatoria, cui entrambe le pronunce di 
merito risultano avere aderito segnalando che il C. era stato già condannato in passato per comportamenti 
analoghi, ciò aveva determinato in capo alle persone offese un forte stato di timore, inducendole a mutare 
le abitudini di vita. 
L'odierno ricorso è affidato a tre motivi. 
1. In primo luogo, il difensore dell'imputato lamenta violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., nonché 
mancanza ed illogicità della motivazione. Secondo la difesa, la prova della responsabilità del C. sarebbe 
stata fondata solo sulle dichiarazioni della S. e del G. , tuttavia portatori di interessi contrapposti a quelli del 
ricorrente e dunque soggetti la cui attendibilità avrebbe dovuto essere sottoposta ad un vaglio assai 
rigoroso, nonché alla ricerca di possibili riscontri: vaglio che la Corte territoriale non avrebbe effettuato, 
prestando apoditticamente fede agli assunti dei denuncianti e non tenendo conto che altri testimoni non 
avevano riferito alcunché di utile a sostegno dell'accusa, malgrado fossero stati presenti ai fatti. 
2. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 612‐bis cod. 
pen., nonché illogicità e carenza della motivazione. 
La Corte di appello, secondo la tesi difensiva, avrebbe liquidato in poche battute il problema della 
configurabilità del reato di atti persecutori prendendo soltanto atto della presunta ripetizione dei 
comportamenti, del riferito stato di ansia provocato nelle persone offese e dell'esistenza di precedenti 
penali, dati che dovrebbero invece reputarsi insufficienti. Viene osservato che, nella stessa ricostruzione 
offerta dalla S. , il C. non si era più avvicinato a lei tra il 2006 e il 2010, e che in quest'ultimo anno soltanto i 
fatti commessi il 7 luglio avrebbero potuto inquadrarsi nelle fattispecie di molestia o minaccia: elementi, 
questi, in antitesi rispetto al presunto disagio psichico cagionato alla donna ed al suo nuovo fidanzato (non 
essendovi peraltro traccia nella fattispecie concreta “di forme patologiche contraddistinte dallo stress, di 
tipo clinicamente definito grave e perdurante”). Gli stessi denuncianti, inoltre, non avevano affatto 
affermato di aver dovuto cambiare abitudini di vita, mutate già in passato, e poteva sostenersi che essi 
nutrissero timore non già a causa di condotte illecite del C. , ma per il solo fatto che l'imputato esistesse. 
A tale riguardo, la difesa evidenzia che la S. non era “persona dall'animo sereno ed immune da timori 
precostituiti”, vuoi per il ricordo delle condotte pregresse del C. , comunque non rinnovate, vuoi per avere 
subito la recente perdita del figlio avuto dallo stesso ricorrente (vicenda, questa, che giustificherebbe 
comunque la condotta dell'uomo di sostare in prossimità dell'abitazione della ex compagna, peraltro anche 
in periodi di assenza per ferie della S. , visto che in quel luogo erano state sparse le ceneri del defunto): 
emblematica avrebbe dovuto ritenersi la reazione della donna alla sola vista dell'imputato, in occasione dei 
fatti del (omissis) , quando altri testimoni l'avevano notata turbata e piangente senza che il C. avesse 
adottato comportamenti molesti di sorta. Il ricorrente segnala infine che le telefonate mute indicate dalle 
persone offese non erano risultate provenienti da utenze del C. , e che non vi era stato riscontro alla 
deposizione del G. circa la presenza dell'auto dell'imputato in prossimità della sede della ditta dove il primo 
lavorava. 
3. Con l'ultimo motivo, il difensore dell'imputato si duole della inosservanza e dell'erronea applicazione 
dell'art. 62‐bis cod. pen., nonché di mancanza ed illogicità della motivazione, in punto di negazione 
all'imputato delle circostanze attenuanti generiche, che il C. avrebbe meritato a dispetto dei precedenti 
specifici, come tali non ostativi perché assai risalenti: la Corte di appello avrebbe altresì ignorato il descritto 
stato psicologico in cui versava il ricorrente a causa della perdita del figlio, in base al quale ben avrebbe 
potuto disattendersi la contestata recidiva. 
Considerato in diritto 
1. Il ricorso deve qualificarsi inammissibile, giacché fondato su motivi da un lato manifestamente infondati, 
e dall'altro riproducenti le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame. Detti 
motivi debbono perciò considerarsi non specifici, in quanto il difetto di specificità ‐ rilevante ai sensi 
dell'art. 581, lett. c), cod. proc. pen. ‐ va apprezzato non solo in termini di indeterminatezza, ma anche “per 
la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a 
fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del 
giudice censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591, comma 1, lett. 
c), cod. proc. pen., all'inammissibilità dell'impugnazione” (Cass., Sez. II, n. 29108 del 15/07/2011, 
Cannavacciuolo). 
1.1 In ordine all'attendibilità riconosciuta ai denuncianti, va ricordato che “le regole dettate dall'art. 192, 
comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono 
essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità 
dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e 
dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso 
rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone” (Cass., Sez. U, n. 41461 del 
19/07/2012, Bell'Arte, Rv 253214). Nella pronuncia appena richiamata si fa rilevare che la ricerca di 
riscontri alle dichiarazioni della persona offesa può essere opportuna, rimanendo pur sempre non 
indispensabile, in caso di costituzione di parte civile: ciò è peraltro accaduto nella fattispecie concreta, 
atteso che il ricorrente sostiene che i testimoni D.B.F. , D.M.W. e B.F.R. non avrebbero offerto dati di 
conferma agli assunti della S. o del G. , laddove nella motivazione della sentenza impugnata si legge apertis 
verbis (a pag. 3) il contrario, pur facendosi ovviamente riferimento a quanto tali soggetti ebbero modo di 
percepire, assistendo solo ad alcuni degli episodi lamentati. 
1.2 Del tutto insostenibile appare la tesi difensiva circa la natura del disagio psichico che occorrerebbe 
dimostrare per ritenere configurabile il delitto in esame, visto che nell'interesse del ricorrente si vorrebbe 
ritenere necessaria l'emergenza di tracce cliniche di detto disagio. Da un lato, va comunque sottolineato 
che il perdurante e grave stato di ansia o di paura, il fondato timore per l'incolumità propria o di un 
prossimo congiunto e l'alterazione delle abitudini di vita costituiscono “eventi di danno alternativamente 
contemplati dall'art. 612‐bis cod. pen.” (v., da ultimo, Cass., Sez. III, n. 46179 del 23/10/2013, Bernardi); 
dall'altro, ai fini della integrazione del reato de quo “non si richiede l'accertamento di uno stato patologico 
ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori [...] abbiano un effetto destabilizzante della serenità e 
dell'equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612‐bis 
cod. pen. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è 
configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” (Cass., Sez. V, n. 16864 del 
10/01/2011, C, Rv 250158). 
1.3 Il tema della volontà dell'imputato di rimanere comunque vicino ad un contesto che lo aveva 
emotivamente segnato, senza finalità persecutorie, risulta già ampiamente trattato, e logicamente 
smentito, nella sentenza oggetto di ricorso, laddove si legge: “né appare giustificabile la permanenza del C. 
vicino all'abitazione della S. in ragione del lutto per la morte del figlio, come vorrebbe l'appellante. Infatti il 
C. non si limitava a soffermarsi nelle vicinanze della casa della donna, ma la ricercava ovunque, anche 
altrove, il che mette in luce come il vero obiettivo fosse appunto la donna, e di riflesso il G. , attuale 
convivente. Gli elementi segnalati non vanno letti isolatamente, bensì inquadrati nel contesto laddove la 
presenza del C. , avvistato anche dal G. nei pressi della ditta ove quest'ultimo lavora, denota l'insistente 
ricerca delle sue vittime da parte del C. , con modalità che, considerati i trascorsi, risultano idonee ad 
ingenerare timore per l'incolumità personale, pregiudicando le condizioni di vita”. 
1.6 In ordine al trattamento sanzionatorio, infine, già il riferimento alla particolare gravità dell'addebito od 
all'esistenza di precedenti penali deve considerarsi ‐ per costante giurisprudenza ‐ sufficiente per fondare il 
giudizio negativo espresso dalla Corte territoriale, atteso che la sussistenza di circostanze attenuanti 
rilevanti ai fini dell'art. 62‐bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con 
motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di 
legittimità neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori 
attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (v. Cass., Sez. VI, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi). Peraltro, 
ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a 
prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a 
determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla 
personalità del colpevole od all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente 
in tal senso (v. Cass., Sez. II, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone). 
2. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna dell'imputato al pagamento delle spese del 
procedimento, nonché ‐ ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, da 
ascrivere alla volontà del ricorrente (v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) ‐ al versamento in favore 
della Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000,00, così equitativamente stabilita in ragione dei 
motivi dedotti. 
Vista la natura della contestazione di reato, peraltro occorso in ambito di rapporti fra ex coniugi, il collegio 
ritiene doveroso disporre l'oscuramento dei dati identificativi delle parti private del presente processo, nei 
termini di cui al dispositivo. 
P.Q.M. 
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della 
somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. 
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a 
norma dell'art. 52 d.lgs. n. 196/2003, in quanto imposto dalla legge 

sabato 3 maggio 2014

Affida l'auto al parcheggiatore abusivo ... Lui la ruba !!!

Affida l'auto al posteggiatore che se la porta via: è furto.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 12 marzo – 29 aprile 2014, n. 17957 Presidente Marasca – Relatore Demarchi Albengo 

Ritenuto in fatto 

1. C.A. propone ricorso per cassazione contro l'ordinanza emessa dal tribunale del riesame di Napoli che ha accolto l'appello proposto dal pubblico ministero avverso l'ordinanza, emessa dal gip del tribunale di Napoli, di rigetto della misura cautelare. 
2. Sostiene il ricorrente che il tribunale abbia erroneamente applicato l'articolo 646 del codice penale, ritenendo che la fattispecie contestata integrasse il reato di furto invece che quello di appropriazione indebita; nel caso di specie si trattava di un posteggiatore abusivo che, con la scusa di parcheggiare l'autovettura, aveva sottratto il veicolo alla legittima proprietaria. 
3. Il tribunale ha ritenuto che l'assoluta illiceità della causa del contratto intervenuto tra l'indagato e la persona offesa rendesse impossibile l'interversione del possesso che si richiede per la configurabilità dei delitto di cui all'articolo 646 cod. pen.. 
4. Il ricorrente ritiene che la nozione di possesso accolta dal diritto penale sia più ampia di quella civilistica ed includa anche chi abbia solo la detenzione, a qualsiasi titolo, del bene, purché esplicantesi al di fuori della diretta vigilanza del proprietario; poiché la persona offesa aveva dato spontaneamente e consapevolmente le chiavi della vettura all'indagato, così facendo gli aveva attribuito la piena disponibilità sul bene, per cui nessun rilievo può avere la causa illecita del negozio. Per tali motivi chiede che l'ordinanza cautelare emessa dal giudice di appello venga annullata. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è infondato; come questa Corte ha più volte affermato, ai fini della delimitazione dei confini tra il reato di furto e quello di appropriazione indebita, possono rientrare nella nozione di possesso vari casi di detenzione, ma deve comunque trattarsi di detenzione "nomine proprio" e non in "nomine alieno" (cfr. Sez. 2, n. 4853 del 20/12/1993, Balzaretti, Rv. 197781, ove si afferma che non è sufficiente la detenzione materiale o meramente precaria, al limitato fine di determinate operazioni). 
2. D'altronde, il presupposto del delitto di appropriazione indebita è costituito da un preesistente possesso della cosa altrui da parte dell'agente, cioè da una situazione di fatto che si concretizzi nell'esercizio di un potere autonomo sulla cosa, al di fuori dei poteri di vigilanza e di custodia che spettano giuridicamente al proprietario. Laddove, invece, sussista un semplice rapporto materiale con la cosa, determinato da un affidamento temporaneo e condizionato, che non attribuisca all'agente alcun potere di autonoma disponibilità sulla cosa medesima, si versa nell'ipotesi di furto e non in quella di appropriazione indebita (Sez. 2, n. 7079 dei 17/03/1988, Farfarillo, Rv. 178616; Conff. Mass. N. 171928; n. 146563; n. 115755; n. 113017). 
3. Si veda anche Sez. 2, n. 11122 dei 03/07/1981, Corrao, Rv. 151323, secondo cui risponde del delitto di furto e non di appropriazione indebita colui che si impossessi della cosa mobile di cui aveva la detenzione e non il possesso (sulla nozione di possesso, inteso come signoria sulla cosa, analoga a quella del proprietario ed esercitabile anche fuori della sfera di vigilanza dei proprietario medesimo, si vedano le seguenti massime RV 115755/70, 113017/69; 131315/75, 128632/74, 125451/74; 122388/72; 127709/74; 146563/80, 113017/69). "I confini tra il reato di furto e quello di appropriazione indebita sono stabiliti in base all'estensione della detenzione: il possesso a qualsiasi titolo implica un potere di fatto sulla cosa, che comprende non tanto la mera esistenza della cosa nelle mani dello agente, quanto almeno qualche facoltà di disporre della cosa stessa. Se l'agente non ha alcuna facoltà idonea ad esercitare il possesso, deve ravvisarsi il delitto di furto e non di appropriazione indebita" (Sez. 2, n. 1392 del 24/10/1977, Leogrande, Rv. 137835). 
4. Nel caso di specie, non vi è alcun dubbio che l'imputato non esercitasse alcuna forma di possesso, ma una semplice detenzione qualificata dallo scopo di parcheggio dell'autovettura; nessun potere autonomo di disposizione della cosa, ma un affidamento temporaneo e condizionato, al limitato fine di una singola e semplice operazione, di brevissima durata nel tempo. 
5. Ne consegue che, proprio in virtù della giurisprudenza di questa corte, il ricorso debba essere rigettato; ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

Infraventunenne guida in stato di ebbrezza. Minore anni 21

Infraventunenne viene trovato alla guida di un autoveicolo in stato di ebbrezza. Sentenza annullata per errato trattamento sanzionatorio.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 7 marzo – 28 aprile 2014, n. 17805 Presidente Zecca – Relatore Dovere 

Ritenuto in fatto 

1. Il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Ancona ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, condannando F.T. per il reato di cui all'articolo 186 bis, comma 1 lett. a) in relazione all'art. 186, co. 2 lett. b), 2bis e 2sexies Cod. str., del codice della strada, ha determinato la pena in mesi sei di arresto ed Euro 2400 di ammenda, concedendo altresì la non menzione della condanna nel certificato penale e la sospensione condizionale della pena e ordinando la sospensione della patente di guida per otto mesi. Deduce il ricorrente che la pena inflitta è illegale perché il giudice ha pretermesso l'aumento previsto dall'art. 186bis, comma 3 per i conducenti infraventunenni che guidino in stato di ebbrezza ai sensi dell'art. 186, co. 2, lett. b) e c); ed altresì perché non è stata aumentata la pena pecuniaria, secondo quanto disposto dall'art. 186, co. 2 sexies Cod. str. 

Considerato in diritto 

2. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati. 
2.1. In rapporto al reato ritenuto nella sentenza impugnata, va rammentato che l'art. 186 bis, comma 3 prevede un aumento da un terzo alla metà delle pene rispettivamente previste dalle lettere b) e c) dell'art. 186, co. 2 Cod. str. In particolare la menzionata lettera b) prevede l'arresto sino a sei mesi e l'ammenda da 800 a 3200 Euro. 
L'art. 186, co. 2sexies prevede che l'ammenda prevista dal comma 2 deve essere aumentata da un terzo alla metà quando il fatto sia commesso tra le ore 22,00 e le ore 7,00. 
Il comma 2bis dell'art. 186, dal canto suo, dispone che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente, le sanzioni di cui al comma 3 dell'art. 186bis sono raddoppiate. 
Si è quindi in presenza di una pluralità di circostanze, accedenti ad autonoma fattispecie incriminatrice [che tale sia la natura delle due ipotesi di cui all'art. 186, co. 2, lett. b) e c) è stato precisato da Sez. 4, Sentenza n. 7305 del 29/01/2009, Carosiello, Rv. 242869], tutte ad effetto speciale (per la qualificazione della ipotesi di procurato incidente quale circostanza aggravante ad effetto speciale Sez. 4, n. 7460 del 13/11/2012 - dep. 14/02/2013, P.G. in proc. Florio, Rv. 254475). 
Ciò premesso, bisogna evidenziare che il ricorso, sia pure indirettamente, pone la questione concernente le modalità di computo della pena in presenza delle menzionate circostanze aggravanti. 
Questa Corte ha già ripetutamente precisato che "le regole dettate in via generale dall'art. 63 c.p., comma 4 non hanno ragione di essere evocate in tutti i casi in cui la questione circa l'entità della pena applicabile derivante dal concorso di più circostanze aggravanti è risolta nell'ambito della singola fattispecie criminosa" (Sez. 6, n. 41233 del 24/10/2007 - dep. 08/11/2007, Attardo e altro, Rv. 237671; Sez. 1, Sentenza n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo e altri, Rv. 244460; Sez. 6, Sentenza n. 7916 del 13/12/2011, P.G., La Franca e altri, Rv. 252069). Il principio è stato posto a riguardo delle previsioni dell'art. 416bis cod. pen. che, si è scritto, "racchiude in sé e risolve ogni profilo attinente al trattamento sanzionatorio nelle varie forme circostanziate da esso contemplate. In particolare, con riferimento al caso in esame, per effetto della previsione del comma 6, la pena stabilita nel comma 4 (quindici anni) è aumentata da un terzo alla metà". 
Si è però aggiunto, con il richiamo della decisione Sez. U, n. 16 del 08/04/1998 - dep. 11/06/1998, Vitrano e altro, Rv. 210709, che tanto non vale ove si tratti della circostanza aggravante speciale di cui all'art. 628 co. 3 cod. pen. e quella comune e meno grave, ma "ad effetto speciale", di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7. In tal caso, e in casi similari, resta applicabile il meccanismo del cumulo giuridico di cui all'art. 63 co. 4 cod. pen., che si impone quando ricorrano circostanze che, per la loro natura, "interrompono il collegamento con la pena stabilita per il reato cui accedono", di talché, avendo "autonomia sanzionatola, non vi è una base sulla quale apportare gli aumenti successivi". 
2.2. Calando tali premesse nel caso che occupa, è agevole rilevare che nelle disposizioni richiamate dalla contestazione si rinviene innanzitutto una norma che ha quale scopo proprio quello di risolvere il rapporto tra più, individuate, circostanze ad effetto speciale convergenti sull'ipotesi base della guida in stato di ebbrezza nei casi previsti dalla lettere b) e c) dell'art. 186, co. 2 Cod. str. Si tratta dell'art. 186, co. 2bis, nella parte in cui dispone che "se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, le sanzioni di cui... al comma 3 dell'articolo 186-bis sono raddoppiate...". 
Sin qui, pertanto, il concorso delle circostanze aggravanti previste dall'art. 186bis, co. 3 e dell'art. 186, co. 2bis non da luogo all'applicazione della regola posta dall'art. 63, co. 4 cod. pen., dovendo trovare applicazione, alla stregua del principio sopra rammentato, la sola pena prevista dall'art. 186, co. 2 bis. 
Ma nel caso di specie è stata ritenuta anche l'ulteriore aggravante di cui all'art. 186, co. 2sexies, essa pure ad effetto speciale. Poiché tale disposizione si rapporta esclusivamente all'ipotesi base di cui all'art. 186, co. 2, non vi è dubbio che essa non valga a regolare relazioni tra ipotesi circostanziate come quelle appena menzionate. Deve quindi trovare applicazione rispetto ad esse il cumulo giuridico previsto dall'art. 63, co. 4 cod. pen.; con l'effetto che risultando certamente più grave la circostanza aggravante di cui all'art. 186, co. 2bis, la pena da applicare sarà quella del doppio della pena prevista dall'art. 186 bis, co. 3, alla quale il giudice può apportare un aumento sino ad un terzo. 
Può quindi essere formulato il seguente principio di diritto: "In tema di reati di guida in stato di ebbrezza alcolica, ove le circostanze aggravanti di cui rispettivamente ai commi 2 bis e 2 sexies dell'art. 186 concorrano con l'ipotesi di cui al comma 3 dell'art. 186bis Cod. strada, in applicazione di quanto previsto dall'art. 63, co. 4 c.p., dovrà essere inflitta il doppio della pena prevista dall'art. 18 6bis, co. 3, al quale il giudice può apportare un aumento sino ad un terzo". 
2.3. Ciò posto, la pena inflitta con la sentenza impugnata risulta determinata in violazione delle regole appena rammentate. 
Il giudice ha esplicato di aver determinato la pena partendo da una pena base di mesi 3 di arresto ed Euro 900 di ammenda, alla quale ha apportato un aumento per l'aggravante di cui all'art. 186, co. 2bis, giungendo a mesi 6 di arresto ed Euro 1800 di ammenda, ulteriormente 
aumentata ai sensi dell'art. 186, co. 2sexies a mesi sei ed Euro 2400 di ammenda. Non si coglie, in questi passaggi, la determinazione della pena base nell'ambito dei termini edittali definiti dall'art. 186, co. 2 bis, in relazione all'art. 186 bis, co. 3; la quale, tenendo presente che si versa nell'ipotesi di cui all'art. 186, co. 2 lett. b), è quella da 1334 a 6400 Euro di ammenda e da giorni dieci ad un anno di arresto. In particolare, la pena pecuniaria risulta determinata in misura inferiore al minimo legale. 
Inoltre, pur a voler considerare tamquam non esset la indicazione di una pena base determinata al di fuori del riferimento all'art. 186, co. 2 bis, per la possibilità di assumere direttamente questa in tale ruolo, risulta comunque errato l'aumento disposto per la ricorrenza dell'aggravante di cui all'art. 186, co. 2sexies, il quale non può riguardare la sola ammenda ma, ai sensi dell'art. 63, co. 4 cod. pen., deve concernere tanto la pena pecuniaria che quella detentiva. 
3. L'impugnata sentenza deve essere pertanto annullata, limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio al Tribunale di Ancona, per l'ulteriore corso. 

P.Q.M. 

annulla la impugnata sentenza con rinvio al Tribunale di Ancona limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio. Fermo il resto.