mercoledì 25 giugno 2014

Allenatore di basket violenta un allieva

L’allenatore di una squadra di pallacanestro, che ha compiuto degli atti sessuali ai danni di un minore di 11 anni, è punito ai sensi dell’art. 609-quater, comma 1, numero 1 (minore di 14 anni), non rientrando il caso nell’ipotesi prevista dal numero 2 dello stesso comma (minore di 16 anni, affidato al colpevole per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia).

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 maggio – 24 giugno 2014, n. 27419 Presidente Squassoni – Relatore Marini 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza ex art. 442 cod. proc. pen. emessa il 13/7/2011 il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Bologna ha condannato il sig. C. alla pena di cinque anni di reclusione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla circostanza aggravante ex art. 61, n. 11, cod. pen., perché colpevole del reato previsto dagli artt. 81, 609-quater cod. pen. commesso in danno di persona di undici anni di età in più occasioni fino al (omissis) e quindi in data (omissis) . Lo ha condannato, altresì, alle pene accessorie di legge e al risarcimento dei danni in favore del minore e di ciascuno dei suoi genitori, costituiti parte civile. 
Il giudice ha ritenuto provato che l'imputato in più occasioni, e fino all'arresto in flagranza di reato avvenuto il 3 dicembre 2010, ebbe a compiere atti sessuali in danno di un minore di anni 11 di età che gli era affidato nella sua qualità di allenatore di una squadra di pallacanestro. 
2. Con sentenza del 16/1/2013 la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Giudice delle indagini preliminari, ha ridotto a 4 anni e 4 mesi di reclusione e modificato la durata della pena accessoria, confermando nel resto la sentenza impugnata anche nella parte relativa alla condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile. 
3. La Corte di appello ha rigettato i motivi di appello che sollecitavano l'esclusione della circostanza aggravante ex art. 61, n. 11, cod. pen. e la applicazione dell'ipotesi attenuata prevista dal comma 3 dell'art. 609 quater cod. pen., incompatibile con la gravità dell'episodio maggiormente invasivo della sfera sessuale del minore. Quindi, confermato il giudizio di equivalenza tra circostanze, ha ritenuto corretta l'entità della pena base fissata dal primo giudice (anni 5 di reclusione) ma ridotto l'entità dell'aumento relativo ai restanti episodi criminosi, giudicati di ridotta gravità. 
4. Avverso tale decisione l'avv. Cesarina Mitaritonna nell'interesse del sig. C. propone ricorso in sintesi lamentando: 
errata applicazione di legge ex art.606, lett. b) cod. proc. pen. per avere i giudici di merito ritenuto applicabile la fattispecie ex artt. 609 quater, comma 1, n. 1, cod. pen. aggravata ai sensi dell'art. 61, n. 11, cod. pen. e non la più corretta ipotesi ex art. 609 quater, comma 1, n. 2, cod. pen. (ipotesi oggetto della contestazione contenuta nel capo d'imputazione). Depongono in tal senso non solo il chiaro rapporto fra circostanza aggravante ed elemento costitutivo del reato, ma le decisioni con cui la Sez. 3 della Corte di Cassazione ha ritenuto irrilevante l'età della persona offesa in relazione alla sussistenza dell'ipotesi prevista dal n. 2 del comma 1 dell'art. 609 quater cod. pen. (n.35018 del 18/6/2003; n. 37509 del 28/9/2011). 
5. Con memoria depositata in data 16 aprile 2014 la Difesa del ricorrente insiste nell'interpretazione degli artt. 609 quater, comma 1, n. 2, e 61, n. 11, cod. pen. e nella richiesta di assorbimento della circostanza aggravante all'interno della fattispecie incriminatrice. 
6. Con memoria datata 24 aprile 2014 e trasmessa via telefax in pari data la Difesa di parte civile richiama la differenza esistente nel testo dell'art. 609-quater cod. pen. tra l'ipotesi indicata al n. 1 e quella indicata al n. 2 della fattispecie e le ricadute che questo ha sull'applicabilità della circostanza aggravante ex art. 61, n. 11 cod. pen.. 

Considerato in diritto 

1. La Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato in quanto propone una lettura non condivisibile delle disposizioni di legge applicabili al caso in esame. 
2. L'età della persona offesa al momento in cui ebbero inizio le condotte illecite, pari a soli undici anni, riconduce inevitabilmente la fattispecie concreta all'interno di quella prevista dal n. 1 del primo comma dell'art. 609-quater cod. pen., che prevede la punibilità degli atti sessuali commessi da chiunque in danno di persona infraquattordicenne. È noto che tale disposizione si fonda sulla presunzione dell'assenza di autonoma capacità di determinarsi dei minori di età inferiore ai quattordici anni e introduce una forma incondizionata di tutela della persona offesa. Diversa è la forma di tutela contenuta nel numero 2 dello stesso comma, che presuppone un difetto di libera determinazione della persona minore di anni sedici quando l'autore sia un soggetto ritenuto in grado di influire sulla volontà e sulle scelte della vittima in virtù del particolare legame esistente e della posizione di supremazia insita in quel legame. 
3. Così ritenuta corretta la soluzione adottata dai giudici di merito nel qualificare la condotta del ricorrente, non sussistono ragioni per escludere la circostanza aggravante prevista dall'art.61, n. 11 cod. pen., certamente sussistente alla luce della relazione che legava l'allenatore al proprio allievo e che ha costituito occasione per il verificarsi dei fatti e ragione ulteriore di minorata difesa da parte della vittima. 
4. Quanto alle spese sostenute dalla parte civile nel grado, la Corte ritiene che il principio di soccombenza debba essere applicato anche al presente caso. 
La qualificazione giudica del fatto, ivi compresa l'applicazione della circostanza aggravante, costituisce elemento rilevante ai fini della valutazione complessiva della vicenda e non può essere considerata elemento privo di interesse in vista della determinazione del risarcimento. A ciò si aggiunga che l'impugnazione del ricorrente sottopone al giudice di legittimità questioni che aprono alla possibilità che la Corte individui l'esistenza di istituti applicabili officiosamente, così che la parte civile non può dirsi priva di un interesse concreto nel partecipare al giudizio. 
5. Alla luce delle considerazioni fin qui esposte il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori di legge. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori di legge. 

mercoledì 18 giugno 2014

Controllore biglietti di treno dice ad una passeggera: ti faccio la multa di 50 euro... proprio lei che è recidiva, che tre giorni fa non ha pagato. La frase detta davanti altri passeggeri integra l'ingiuria.

Controllore biglietti di treno dice ad una passeggera: ti faccio la multa di 50 euro... proprio lei che è recidiva, che tre giorni fa non ha pagato. La frase detta davanti altri passeggeri integra l'ingiuria.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 5 marzo – 18 giugno 2014, n. 26396 Presidente Lombardi – Relatore De Berardinis 

Fatto e Diritto 

Con sentenza in data 3.10.12 il Giudice di Pace di Cosenza pronunziava l'assoluzione di V.N. dal reato ascrittogli ai sensi dell'art. 594 commi I e IV CP., (perché, in presenza di più persone e cioè dei passeggeri del treno diretto verso Sibari, proferendo all'indirizzo di O.M.C. la frase - ti faccio la multa di € 50,00, proprio lei che è recidiva, che tre giorni fa non ha pagato - offendeva l'onore ed il decoro della stessa). 
Fatto acc. in data 12.11.10. 
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il PG. presso la Corte di Appello di Catanzaro, deducendo: 
erronea applicazione dell'art. 192 CPP.; 
- mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione 
censurando la motivazione del provvedimento come meramente apodittica, avendo il Giudice ritenuto che le frasi riportate in imputazione erano offensive e d'altra parte non riconoscendo valore alle dichiarazioni della persona offesa. Tali dichiarazioni ad avviso del PG dovevano essere valutate ai fini dell'accusa, rivelandosi precise e scevre da contraddizioni. 
Sul punto il requirente citava l'indirizzo giurisprudenziale di legittimità sancito da varie massime indicate nel ricorso. 
2 - deduceva altresì l'erronea applicazione dell'art. 594 CP e vizi della motivazione,per quanto concerne l'esistenza dell'elemento psicologico del reato (nella specie, dolo generico) 
Per tali motivi concludeva chiedendo l'annullamento dell'impugnata sentenza. 
Il ricorso risulta dotato di fondamento. 
Secondo quanto si desume dal testo della sentenza impugnata, il giudice di merito ha reso motivazione apodittica e intrinsecamente contraddittoria,pervenendo alla pronunzia assolutoria per insussistenza del fatto contestato, pur dando atto delle modalità della condotta contestata (riferendosi a quanto riferito dalla costituita parte civile) senza menzionare elementi idonei a vanificare l'assunto accusatorio, bensì rilevando assenza di riscontri a quanto aveva affermato la persona offesa. 
Orbene, deve ravvisarsi in proposito la violazione dell'art. 192 CPP., risultando disatteso l'indirizzo giurisprudenziale sancito da questa Corte, sul valore probatorio delle dichiarazioni della persona offesa dal reato (si annovera sull'argomento Cass. Sez. I, del 4.7.1995, n. 1622-RV202090 - e Sez. IV 9.4.2004, n. 227901-) 
D'altro canto risulta dotata di fondamento la censura del requirente inerente alla erronea applicazione dell'art. 594 CP. che è figura giuridica caratterizzata dal dolo generico, e riguarda ogni espressione lesiva della dignità e dell'onore della persona. 
A riguardo si evidenzia la contraddittorietà della motivazione, che dopo avere dato atto che la parte civile avrebbe potuto percepire come offensive le frasi a lei rivolte dall'imputato, esclude la sussistenza del reato, ritenendo - in assenza di elementi emersi dal dibattimento, la assenza di consapevolezza del prevenuto di ledere l'altrui dignità in presenza di più persone. 
In tal senso si condividono le censure articolate dal PG della Corte territoriale, ove rileva che la motivazione del provvedimento risulta apodittica, avendo il Giudice ritenuto che le frasi riportate in imputazione erano offensive e d'altra parte non riconoscendo valore alle dichiarazioni della persona offesa. 
Pertanto la motivazione del provvedimento risulta inficiata dai richiamati vizi di legittimità. 
In conclusione deve essere pronunziato l'annullamento della impugnata sentenza, con rinvio al Giudice di Pace di Cosenza per nuovo esame. 

P.Q.M. 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Giudice di Pace di Cosenza per nuovo esame. 


giovedì 5 giugno 2014

Bidello si collega dalla scuola ad internet su siti hot .... Peculato

Bidello si collega da scuola ad internet per vedere siti pornografici. Una sessantina di accessi in orari d’ufficio ed una spesa ammontante a qualche centinaia di euro, il bidello si giustifica adducendo a connessioni automatiche che non aveva saputo arrestare se non, preso dal panico, spegnendo il personal computer.

Il peculato d’uso ex art. 314, comma 2, c.p. Nel caso di abuso del sistema informatico, lo spreco di energia elettrica costituisce il danno diretto.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 4 febbraio – 4 giugno 2014, n. 23352 Presidente Agrò – Relatore Leo 

Ritenuto in fatto 

1. È impugnata la sentenza del 18/04/2011 con la quale la Corte d'appello di Venezia ha confermato, in punto di responsabilità dell'imputato e di qualificazione giuridica del fatto, la decisione in data 22/04/2009 del Tribunale di Verona, assunta in esito a giudizio condotto nelle forme ordinarie. 
Con tale decisione, M.G. era stato dichiarato colpevole del delitto di cui all'art. 314, comma 1, cod. pen., perché, nella propria qualità di dipendente di un Istituto scolastico con la qualifica di collaboratore, in servizio per due giorni presso una Scuola elementare (8-10/10/2005), avendo la disponibilità di un computer installato per ragioni del servizio, si appropriava dell'energia necessaria per realizzare connessioni internet a siti a pagamento. Era accaduto, in sostanza, che il giorno 8 ottobre, mentre M. si trovava nella Scuola in sostituzione di un collaboratore assente, il computer installato presso una sala comune era stato utilizzato, per circa due ore al mattino e per un'ora al pomeriggio, in guisa da realizzare 53 accessi a siti internet, per una spesa complessiva - come successivamente fatturata dalla società di telefonia all'istituto scolastico - di circa 660 Euro. 
1.1. Il fatto era stato accertato la mattina del 10 ottobre, allorquando una impiegata aveva avviato il computer, constatando l'apertura in sequenza di connessioni a siti di contenuto pornografico, che aveva potuto arrestare solo spegnendo la macchina. Il 12 ottobre la polizia giudiziaria aveva direttamente constatato e documentato il fenomeno (mediante immagini dello schermo e stampe), affidando poi il computer ad un ausiliario, il quale aveva copiato su supporto digitale le immagini concernenti le connessioni ed il contenuto dei siti, ed in seguito, su richiesta delle autorità scolastiche, aveva formattato il disco rigido della macchina. 
I sospetti si erano concentrati sul M. , il quale era stato interpellato dal dirigente scolastico, ammettendo - secondo quanto poi riferito dallo stesso dirigente - che aveva operato un accesso personale ad internet, non riuscendo poi a fermare una serie di connessioni automatiche, ed impegnandosi a pagare la bolletta del gestore di telefonia (promessa poi non mantenuta). 
1.2. In esito al giudizio di primo grado, nel cui ambito era già stata spiegata gran parte degli argomenti posti a sostegno dell'odierno ricorso, M. era stato condannato alla pena di due anni di reclusione, interamente condonata, nonché alla interdizione temporanea dai pubblici uffici. 
Proposto appello dal difensore con numerosi motivi, la Corte territoriale ha respinto le varie eccezioni di inutilizzabilità delle prove valutate dal primo giudice, disattendendo anche gli argomenti relativi al merito dell'imputazione, limitandosi a riconoscere le attenuanti generiche e ad operare una conseguente diminuzione delle pene principale ed accessoria, fino alla durata di un anno e sei mesi. 
2. Propone personalmente ricorso l'imputato, prospettando censure varie che vengono ricondotte a cinque motivi essenziali di impugnazione. 
2.1. Con un primo motivo, proposto in base alle lettere b) ed e) del comma 1 dell'art. 606 cod. proc. pen., si denunciano la violazione dell'art. 314 cod. pen e, comunque, un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del fatto. 
In sintesi, non costituirebbe peculato un comportamento occasionale, produttivo di un danno insignificante sul piano patrimoniale, avente ad oggetto un quid non riconducibile al concetto di cosa mobile o di energia elettrica, non comprovatamente attinente ad un utilizzo della rete internet per fini non istituzionali (argomento connesso alla dedotta inutilizzabilità di tutta la documentazione pertinente alle connessioni instaurate). Un collaboratore scolastico, d'altra parte, non potrebbe considerarsi incaricato di pubblico servizio e, alla luce delle sue mansioni (sostanzialmente quelle di un bidello), non avrebbe disponibilità di un computer “per ragioni di servizio”. 
2.2. Con un secondo motivo, a norma dell'art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., si denuncia violazione dell'art. 429, commi 1, lettera c) e 2, dello stesso codice. 
L'imputazione formalizzata con il decreto di rinvio a giudizio sarebbe imprecisa, non chiarendo a quale "energia" di sarebbe riferita la condotta appropriativa, con conseguente nullità dell'atto introduttivo del giudizio, denunciata sia in apertura del dibattimento di primo grado che coi motivi di appello. 
2.3. Viene eccepita, in rapporto all'utilizzazione della documentazione predisposta dall'ausiliario della polizia giudiziaria prima della formattazione del computer, e della successiva sua testimonianza, la violazione degli artt. 191, 354, 360 e 512 cod. proc. pen., nonché dell'art. 117 delle relative disposizioni di attuazione. 
Come anticipato, l'ausiliario si era limitato ad effettuare alcuni screen-shot ed a copiare dati individuati a sua discrezione, invece che procedere secondo la procedura prescritta dal novellato comma 2 dell'art. 354 cod. proc. pen., e dunque procedere alla c.d. clonazione dell'hard disk del computer. Trattandosi poi di accertamenti irripetibili, avrebbero dovuto comunque essere attivate le corrispondenti garanzie per la difesa. Né l'irripetibilità potrebbe considerarsi sopravvenuta a norma dell'art. 512 cod. proc. pen., posto che la formattazione del computer era stata effettuata volontariamente e con il consenso della stessa autorità inquirente. 
2.4. Analoga eccezione di inutilizzabilità, in rapporto alla violazione degli artt. 191 e 62 cod. proc. pen., e 220 disp. att., viene proposta dal ricorrente con riferimento alla testimonianza indiretta del già citato dirigente scolastico. 
Il Giudice di appello ha escluso che, al momento del colloquio con il M. , questi avesse assunto la veste di persona indagata a fini disciplinari. L'assunto sarebbe contraddetto dalle risultanze, dovendosi per altro aver riguardo alla posizione sostanziale dell'interessato, e non alla sua veste formale. 
2.5. Con ultimo motivo, segnato da diffusa analisi delle risultanze processuali e della loro concludenza, il ricorrente denuncia mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, nella parte in cui addebita al ricorrente la condotta di indebita utilizzazione del computer. 
3. In data 23/09/2013 il Difensore dell'imputato ha depositato memoria ex art. 121 cod. proc. pen., assumendo in sostanza - in rapporto al decisum delle Sezioni unite penali circa la qualificazione giuridica dell'abuso di apparati telefonici da parte dei pubblici dipendenti (sentenza n. 19054/2012) - che il fatto ascritto al M. dovrebbe essere riqualificato come peculato d'uso, a norma dell'art. 314, comma 2, cod. proc. pen. Con la conseguenza che, trattandosi di autonoma fattispecie di reato, il termine prescrizionale dovrebbe considerarsi ormai decorso. 

Considerato in diritto 

1. È fondata la tesi espressa dal Difensore del ricorrente con la memoria recentemente depositata (supra, p.3), e cioè che il reato in contestazione deve essere considerato ormai estinto per intervenuta prescrizione. 
L'effetto si connette ad una corretta qualificazione giuridica del fatto, in termini di “peculato d'uso”, per le ragioni che di seguito saranno indicate. 
Lo stesso Difensore assume che resterebbero “assorbiti” gli originari motivi di ricorso. In realtà, ed a parte i presupposti per una ipotetica sussistenza delle condizioni di cui al comma 2 dell'art. 129 cod. proc. pen., va rilevato che la maturazione del termine prescrizionale è intervenuta in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata. V'è dunque la necessità di verificare che il ricorso qui in esame sia stato proposto in base a motivi consentiti dalla legge e non manifestamente infondati, che altrimenti dovrebbe dichiararsene l'inammissibilità, così come richiesto in udienza dal Procuratore generale. 
2. Si è visto che il fatto in contestazione consiste nell'abuso di un computer con connessione internet che il M. avrebbe avuto a disposizione nell'ottobre del 2005, trovandosi nell'edificio che ospitava l'apparecchio in qualità di supplente del collaboratore scolastico usualmente addetto al servizio. 
Il tema della qualificazione giuridica da conferirsi all'uso di un mezzo di comunicazione del quale l'agente pubblico abbia il possesso per ragioni dell'ufficio o del servizio è stato prevalentemente affrontato con riguardo all'effettuazione di chiamate telefoniche per ragioni personali. Si ammette, per altro, che il problema si pone in termini analoghi quanto all'abuso della connessione internet utilizzata mediante un computer: anche in questo caso viene sfruttato un apparecchio di proprietà pubblica connesso ad una linea digitale per la cui utilizzazione il fornitore del servizio riscuote un compenso, calcolato a consumo o forfettariamente; anche in questo caso, l'apparecchio viene “restituito” alla destinazione propria nel momento in cui ne cessa l'uso per finalità improprie, senza che altrettanto possa avvenire per l'energia utilizzata, e per la somma di successivo ed eventuale addebito (per l'analogia di qualificazione tra abuso del telefono e abuso della connessione internet di un computer si veda Sez. 6, Sentenza n. 34524 del 02/07/2013, rv. 255810; la stessa analogia era stata già prospettata, per altro, nella decisione delle Sezioni unite di cui appresso). 
In relazione all'abuso di linee e apparecchi telefonici, com'è noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno indicato nel comma 2 dell'art. 314 cod. pen., e dunque nel c.d. “peculato d'uso”, la norma incriminatrice correttamente applicabile: “la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d'ufficio per fini personali al di fuori dei casi d'urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d'uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell'ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative” (Sez. U, Sentenza n. 19054 del 20/12/2012, Vattani, rv. 255296). 
Di particolare rilievo, in un caso come quello di specie, ove l'abuso dello strumento comunicativo ha implicato un rilevante addebito da parte della società fornitrice del servizio, è l'individuazione dei profili rilevanti del fatto, nell'economia della fattispecie di peculato. Le Sezioni unite hanno valutato se l'oggetto della appropriazione definitiva, rilevante ai sensi del comma 1 dell'art. 314 cod. pen., non debba individuarsi nelle somme al cui esborso l'indebito uso del telefono d'ufficio espone la pubblica amministrazione. Ma la costruzione è stata ritenuta “non accettabile”, giacché “posticipa artificialmente il vantaggio, che il pubblico agente ritrae immediatamente dalla sua indebita condotta, al momento successivo [...] in cui la pubblica amministrazione ne sostiene l'onere economico. Le somme di cui si discute non sono certamente oggetto di previo possesso in capo all'infedele funzionario, né il loro esborso è ricollegabile a un suo potere giuridico di disposizione, ma è solo la oggettiva conseguenza di una condotta fattuale che si inserisce nel vincolo esistente fra la pubblica amministrazione e il gestore di telefonia”. 
Posta la già riscontrata analogia tra il caso del telefono e quello del computer, si constata quindi la correttezza dell'imputazione elevata contro il M. , nella parte in cui designa quale oggetto dell'appropriazione “l'energia necessaria per l'effettuazione di numerosi collegamenti via internet a siti a pagamento”. 
Al tempo stesso, e per altro, deve constatarsi che erroneamente il fatto è stato qualificato a norma dell'art. 314, comma 1, cod. pen., trattandosi piuttosto di un “peculato d'uso”, proprio per le ragioni ampiamente indicate dalle Sezioni unite con riguardo all'abuso del telefono (per una conforme applicazione del principio all'utilizzazione indebita della connessione internet si veda la già citata sentenza n. 34524/2013). 
3. L'ipotesi delineata dal comma 2 dell'art. 314 cod. pen. non costituisce una fattispecie diminuente della figura “ordinaria” di peculato, ma un'autonoma previsione di reato (Sez. 6, Sentenza n. 6094 del 27/01/1994, rv. 199187; Sez. 6, Sentenza n. 46244 del 15/11/2012, rv. 254286). 
Da ciò consegue l'autonoma determinazione del tempo necessario per la prescrizione, che resta fissato, al lordo della proroga, in sette anni e sei mesi (art. 157, comma 1, cod. pen.). 
Nel caso di specie, nell'assenza di rilevanti periodi di sospensione della decorrenza, detto termine può considerarsi spirato nell'aprile 2013, in epoca di molto successiva alla pronuncia della sentenza d'appello. 
Si pongono dunque le condizioni per una decisione di annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato, visto che non ricorre l'ipotesi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., e considerata d'altra parte l'ammissibilità del ricorso. 
3.1. In punto di sussistenza del fatto, e di responsabilità dell'odierno ricorrente per il medesimo, non può certo definirsi mancante del tutto la prova a carico del M. . E ciò, si noti, a prescindere dagli accertamenti “tecnici” della cui regolarità si fa questione nei motivi di ricorso o dalla testimonianza del preside della scuola sulle ammissioni che M. avrebbe compiuto alla sua presenza. 
La sentenza di primo grado, ripresa e confermata sul punto da quella di appello, enuncia una serie di risultanze: la presenza del M. nell'edificio scolastico alla data delle connessioni, e l'uso del computer da parte sua (constatato dalla teste P. ); l'abitudine dei collaboratori scolastici (M. sostituiva il titolare dell'incarico, assente per malattia) di stazionare nella sala ove si trova anche il menzionato computer; la disponibilità sostanzialmente esclusiva delle chiavi dell'edificio da parte del M. nel pomeriggio di sabato durante il quale erano state effettuate parte delle connessioni. 
D'altra parte, il fatto obiettivo delle connessioni a pagamento è stato riscontrato - a prescindere dalle approssimative indagini “tecniche” successivamente attuate - dal personale scolastico che aveva riavviato il computer dopo la pausa domenicale, ed aveva constatato appunto la sequenza dei collegamenti, informandone poi la polizia giudiziaria. 
Nella prospettiva di valutazione segnata dall'art. 129 cod. proc. pen., e come del resto sostanzialmente ammesso dalla stessa Difesa con la memoria depositata di recente, non può dirsi evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non l'ha commesso. 
La qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al M. , nel momento in cui avrebbe abusato del computer e della relativa connessione, è certamente corretta. In relazione alla analoga figura del “bidello”, questa Corte ha osservato che lo stesso, “accanto a prestazioni di carattere meramente materiale, che sono la maggioranza, svolge anche mansioni di vigilanza, sorveglianza degli alunni, guardiania e custodia dei locali, che non si esauriscono nell'espletamento di un lavoro meramente manuale, ma che, implicando conoscenza e applicazione delle relative normative scolastiche sia pure a livello esecutivo, presentano aspetti collaborativi, complementari e integrativi delle funzioni pubbliche devolute ai capi di istituto e agli insegnanti in materia di sicurezza, ordine e disciplina all'interno dell'area scolastica. Nei limiti di queste ultime incombenze, compete ai bidelli la qualifica di incaricati di un pubblico servizio” (Sez. 6, Sentenza n. 5543 del 07/03/2000, rv. 220523; nello stesso senso, più recentemente, Sez. 3, Sentenza n. 21934 del 24/04/2008, rv. 240052). 
Neppure potrebbe dirsi, d'altra parte, che il possesso della cosa posta temporaneamente ad oggetto di appropriazione, ad opera del M. , fosse indipendente dalle ragioni di servizio. Tale possesso “non deve necessariamente rientrare nel novero delle specifiche competenze o attribuzioni connesse con la [...] posizione gerarchica o funzionale, essendo sufficiente che esso sia frutto anche di occasionale coincidenza con la funzione esercitata o con il servizio prestato” (Sez. 6, Sentenza n. 17920 del 11/03/2003, rv. 227140; in seguito, nello stesso senso, Sez. 1, Sentenza n. 9179 del 17/01/2008, rv. 239502; Sez. 6, Sentenza n. 34489 del 30/01/2013, rv. 256120; Sez. 6, Sentenza n. 34490 del 12/03/2013, rv. 255799). 
3.2. In punto di ammissibilità del ricorso va notato come, se alcuni dei motivi potrebbero considerarsi pertinenti al merito (e dunque diversi da quelli consentiti nella sede di legittimità) o manifestamente infondati, analogo giudizio non possa essere formulato per le questioni poste riguardo alle procedure di acquisizione della prova e di utilizzabilità della prova medesima. 
Si allude alla testimonianza indiretta del preside della scuola coinvolta nei fatti (che il ricorrente assume inutilizzabile in connessione al disposto dell'art. 220 disp. att. cod. proc. pen. ed all'asserita natura ispettiva-disciplinare del colloquio intrattenuto con il M. ) e, comunque, alla prospettata elusione, riguardo agli accertamenti effettuati sul computer, delle procedure e delle garanzie specifiche stabilite dal comma 2 dell'art. 354 cod. proc. pen., nel testo riformato dalla legge n. 48/2008. 
È appena il caso di notare che non si discute qui del fondamento delle questioni, e men che meno delle implicazioni che il loro parziale o completo accoglimento avrebbe sortito sulla decisione del ricorso, ma solo della loro natura (attinente ad ipotetice violazioni della legge processuale) ed alla loro consistenza, non tale da legittimare una valutazione di infondatezza tanto manifesta da implicare una pendenza solo formale del giudizio di legittimità nel momento di maturazione del termine prescrizionale. 

P.Q.M. 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. 

Molestie telefoniche

Squilli, telefonate e sms di continuo. Palermitano condannato per ingiuria e molesie. I tabulati non lasciano dubbi.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 2 aprile – 4 giugno 2014, n. 23233 Presidente Lombardi – Relatore Lapalorcia 

Ritenuto in fatto 

1. C.V. ricorre personalmente avverso la sentenza 24-6-2013 con la quale la Corte d'Appello di Palermo, confermando quella del tribunale della stessa sede in data 15-7-2011, lo ha riconosciuto responsabile dei reati di ingiuria e di molestie telefoniche in danno di A.Q.. 
2. Il ricorso è affidato a due motivi (il secondo indicato come terzo). 
3. Primo: inosservanza o erronea applicazione degli artt. 81, 660 e 594 cod. pen.. 
4. Quanto alla fattispecie di molestie, si osserva che non è provato oltre ogni ragionevole dubbio l'elemento della petulanza in quanto gli sms e gli squilli erano scambievoli e avvenivano in orario diurno. 
5. Quanto al reato di ingiuria, la corte territoriale non aveva motivato la portata offensiva delle espressioni usate né tenuto conto della reciprocità delle telefonate ed sms e della provocazione da parte della p.o.. 
6. Comunque i tabulati telefonici erano inutilizzabili in quanto acquisiti dalla PG in violazione dell'art. 267 cod. proc. pen. con conseguente divieto di utilizzazione ex art. 271 stesso codice, riferibile, secondo le sezioni unite penali di questa corte, anche all'acquisizione dei tabulati predetti. Senza contare che non vi era prova che l'utenza 320XXXXXXX fosse riferibile all'imputato. 
7. Con il secondo motivo si lamentano erronea applicazione della legge penale e processuale ed illogicità della motivazione, quest'ultimo vizio in relazione all'esclusione della reciprocità o provocazione delle molestie. Si reitera la questione della non riferibilità dell'utenza di cui sopra al V. e della mancanza di prova del suo collegamento a quella effettivamente in uso all'imputato (320…), prova non desumibile dalla testimonianza dell'ispettore di polizia. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso merita rigetto. 
2. Va in primo luogo rilevata l'infondatezza della questione relativa all'utilizzabilità dei tabulati telefonici. 
3. Premesso che la giurisprudenza di questa corte ritiene sufficiente per l'acquisizione dei dati esterni relativi al traffico telefonico - concernenti gli autori, il tempo, il luogo, il volume e la durata della comunicazione, fatta esclusione del contenuto di questa - archiviati dall'ente gestore del servizio di telefonia, in considerazione della limitata invasività dell'atto, e sulla base dello schema delineato nell'art. 256 cod. proc. pen., eterointegrato dall'art. 15, comma secondo, Cost., il decreto motivato del pubblico ministero (Cass. Sez. U, 6/2000 e 16/2000), l'accesso agli atti, consentito dalla natura della doglianza, dimostra la sussistenza nella specie, in linea con l'orientamento ricordato, del decreto autorizzativo del PM, emesso in data26-9-2009
4. Tale provvedimento, richiamando i sufficienti indizi del reato di molestie e l'utilità dell'acquisizione del tabulati alla prosecuzione delle indagini, dà sufficiente conto delle ragioni di prevalenza sul diritto alla privacy dell'interesse pubblico alla persecuzione del reato, in tal modo soddisfacendo l'obbligo di motivazione del provvedimento acquisitivo che, secondo l'orientamento di questa corte, stante il modesto livello di intrusione nella sfera di riservatezza delle persone, si attua anche con espressioni sintetiche, nelle quali si sottolinei la necessità dell'investigazione, in relazione al proseguimento delle indagini ovvero all'individuazione dei soggetti coinvolti nel reato. (Cass. 46086/2007). 
5. Quanto alle residue doglianze, si osserva cha la corte territoriale ha ineccepibilmente spiegato -non mancando di rilevare che il teste m.llo L. per mero errore aveva invertito le due utenze di cui oltre - le modalità del collegamento tra il numero Wind di servizio (320XXXXXXX) e quello dell'imputato (320XXXXXXX), il primo utilizzato dal prevenuto attraverso l'opzione della non visibilità del numero chiamante per fa sì che le chiamate e i messaggi apparissero partiti dal numero di servizio, mentre in realtà erano effettuati dalla sua utenza (la seconda), che restava anonima. 
6. La corte territoriale ha poi motivatamente escluso reciprocità e ritorsione osservando che la Q. aveva sempre subito le iniziative telefoniche - chiamate, sms, squilli - del V., a fronte delle quali si era limitata a manifestare la sua volontà di denunciarlo. 
7. Quanto poi alla petulanza ed alla portata offensiva delle espressioni usate, messe in discussione dal ricorrente, la loro citazione testuale in sentenza, evidenziandone il riferimento, in termini assai volgari, alla sfera sessuale dell'imputato e della p.o., elimina in radice ogni dubbio al riguardo. 
8. Al rigetto dell'impugnazione segue la condanna di V. alle spese del procedimento. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

martedì 3 giugno 2014

Stupefacenti: rideterminazione della pena a seguito di incostituzionalità di norma non incriminatrice

Stupefacenti: rideterminazione della pena a seguito di incostituzionalità di norma non incriminatrice



Si segnala la decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di stupefacenti sulla rideterminazione della pena in seguito ad una sentenza che abbia dichiarato l‘illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale diversa dalla norma incriminatrice (nella specie, la sentenza della Corte costituzionale 15 novembre 2012 n. 251 che ha dichiarato illegittimo l’art. 69, comma quarto, c.p., nella parte in cui esclude il giudizio di prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309 sulla recidiva ex art. 99, quarto comma, stesso codice).

Il 31 gennaio scorso, infatti, la prima sezione aveva rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto:

Se la dichiarazione della illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale, diversa dalla norma incriminatrice (nella specie l’art. 69 c.p., comma 4, in parte de qua, giusta sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012), comporti, ovvero no, la rideterminazione della pena in executivis, così vincendo la preclusione del giudicato.

In base all’informazione provvisoria resa nota dalla Corte di Cassazione si apprende che è stata fornita la seguente soluzione:

Affermativa, con la precisazione che nella specie il giudice della esecuzione, ferme le vincolanti valutazioni di merito espresse dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta, ove ritenga prevalente sulla recidiva la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, ai fini della rideterminazione della pena dovrà tenere conto del testo di tale disposizione come ripristinato a seguito della sentenza Corte Cost. n. 32 del 2014, senza tenere conto di successive modifiche legislative.

Ciò significa che tutti coloro i quali, da recidivi, siano stati condannati in via definitiva per piccolo spaccio potranno ora ottenere la rideterminazione della pena a seguito della dichiarazione di incostituzionalità di quella norma che aveva impedito nei loro confronti la concessione delle circostanze attenuanti con la precisazione – scrivono i giudici delle sezioni unite – che nel ricalcolo della pena il giudice dell’esecuzione dovrà tenere conto del testo di tale disposizione così come ripristinato a seguito della nota sentenza Corte Cost. n. 32 del 2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge Fini Giovanardi.

Assegno di mantenimento

Assegno di mantenimento. Il padre non provvede a versarlo alla figlia minore perchè precario. Assolutamente irrilevanti le regalie e i versamenti personali per la figlia.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 29 – 3 giugno 2014, n. 23017 Presidente De Roberto – Relatore Citterio 

Considerato in fatto 


1. Con sentenza del 18 gennaio 2013 la Corte d'appello di Catania ha confermato la condanna di A.P. per reato ex articolo 570 secondo comma codice penale, come deliberata dal Tribunale di Modica il 26 gennaio 2009. 
Questo il capo d'imputazione: reato ex articolo 570.2 c.p., per avere fatto mancare i mezzi di sussistenza alla moglie, dalla quale era separato non per colpa, non versando l'assegno di mantenimento di 300,00 euro a titolo di contributo per il mantenimento della minore, nata il 23 marzo 2005, così come stabilito dal presidente del Tribunale di Gela il 17. 5. 2006. In Pozzallo, dal mese di luglio 2005 alla data odierna, in permanenza. 
Nell'interesse del P. ha proposto ricorso il difensore, enunciando due motivi: erronea applicazione della legge penale per incompetenza territoriale del Tribunale di Modica e mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del contestato reato. 
Con il primo motivo rileva che l'eccezione di incompetenza territoriale dei Tribunale di Modica in favore di quello di Ragusa era stata formulata all'udienza di prima trattazione del 3.3.2009, e quindi tempestivamente, differentemente da quanto argomentato dalla Corte d'appello, che aveva disatteso l'eccezione solo con tale infondato rilievo. Nel merito della stessa, osserva che il Tribunale avrebbe errato nell'interpretare l'articolo 1182 del codice civile, perché al momento della determinazione della convenzione (allegato al decreto di omologazione del Tribunale) era stata indicata la città di Ragusa come luogo di dimora della coniuge. 
Il secondo motivo enuncia deduzioni per l'insussistenza dello stato di bisogno della donna, nonché della stessa minore alla quale l'imputato non avrebbe fatto mancare nulla. Il ricorrente ripropone la tesi difensiva già indicata nell'atto d'appello secondo la quale egli avrebbe corrisposto tutto ciò che in concreto avrebbe potuto compatibilmente con la precarietà dell'attività lavorativa svolta, pure con regalie varie. Su tali aspetti sarebbe mancata motivazione da parte della Corte d'appello. 

Ragioni della decisione 

2. Il ricorso va rigettato. 
Errata la risposta della Corte d'appello (essendo effettivamente tempestiva l'eccezione di incompetenza territoriale (v. ordinanza ud. 3.3.2008 p. 22 atti Tribunale), la censura è tuttavia infondata in diritto (il che può essere con immediatezza rilevato da questa Corte di legittimità). L'ordinanza impugnata attesta che è in Pozzallo l’"effettiva dimora" della moglie separata: è un'indicazione in fatto, specifica, che, da un lato, non è stata contrastata espressamente nel primo motivo d'appello (che ha invece svolto il diverso tema dell'allocazione della casa coniugale e della dimora dei coniugi, palesemente irrilevante in questa sede); dall'altro, applica correttamente la giurisprudenza di questa Corte suprema, secondo la quale proprio «il luogo dell'effettiva dimora dell'avente diritto è quello dove si consuma il reato ascritto» (Sez. 6, sent. 27117/2011), che qui si condivide e conferma. 
Il secondo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. Il Tribunale aveva articolatamente argomentato la sussistenza degli elementi costitutivi dei contestato reato sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, in ordine non solo alla mancata continuativa sufficiente corresponsione di quanto dovuto, ma pure allo stato di bisogno, proprio e della figlia minore, che tale omissione aveva determinato (prima e seconda pagina della motivazione del Tribunale), spiegando in particolare (terza pagina) l'irrilevanza, sotto tale aspetto, degli occasionali versamenti periodici e delle altrettanto occasionali regalie in favore della figlia. Il Tribunale aveva poi espressamente escluso la sussistenza di prova di uno stato di vera e propria indigenza economica dell'imputato che impedisse in assoluto l'adempimento costante, pur parziale, dell'obbligazione. 
La Corte d'appello ha confermato anche l'apprezzamento di merito del primo Giudice su tale punto, giudicando, sia pure in termini sostanzialmente assertivi, inconsistenti e generiche le rinnovate affermazioni difensive ad esso relative. 
Il ricorso, al tempo stesso: 
- sollecita, in termini generici e richiamando aspetti già disattesi con motivazione specifica dai Giudici del merito (tra l'altro, intrinsecamente contraddittorie risultano l'affermazione di trovarsi in assoluta indigenza e la pretesa di computare nell'adempimento dell'obbligazione le discrezionali e occasionali regalie, per quanto prima osservato), una rilettura dell'aspetto afferente l'omessa corresponsione di contributi sufficienti ad escludere lo stato di bisogno: è censura di merito, diversa da quelle consentite in questa sede; 
- richiama in termini del tutto generici, e senza l'osservanza dell'onere di autosufficienza, aspetti dell'istruttoria probatoria che già sono stati considerati inidonei a fondare una specifica prova idonea a sostenere l'assunto dell'assoluta impossibilità ad adempiere. 
In diritto, deve essere ribadito il principio già affermato, tra le altre, nella sentenza n. 47035/2009 di questa Sezione, e con cui il ricorrente non si confronta, secondo cui «l'adempimento dell'obbligo di assicurare i mezzi di sussistenza non può che concretizzarsi con la messa a disposizione - continuativa, regolare e certa, che non lasci pause o inadeguatezze - dei mezzi economici in favore del genitore affidatario, responsabile immediato di una 'gestione' ordinata delle quotidiane esigenze di 'sussistenza' del minore; o, quantomeno, con la contribuzione autonoma ma in accordo, nei suoi contenuti, con il genitore affidatario». 
Infatti, i contributi economici materiali che, pur comportando impegno di risorse a vantaggio mediato del minore, non siano armonici al coordinamento delle sue esigenze primarie, non sono idonei all'adempimento dell'obbligo: si pensi a spese, da parte del genitore non affidatario, voluttuarie e comunque superflue o non indispensabili, pur in favore del minore (come le regalie invocate nella prospettazione difensiva), che intervengano in presenza di difficoltà, da parte del genitore affidatario, nell'assicurare il quotidiano soddisfacimento delle esigenze primarie: vitto adeguato, alloggio confortevole, scuola, sanità. E' indubbio che tali esigenze primarie, perché tali, debbono essere assolte prioritariamente, sicchè ogni regalia occasionale da parte del genitore obbligato che si ponga, come nella fattispecie ricostruita dai Giudici del merito, in alternativa alla regolare contribuzione per concorrere, per la propria parte, a sollevare il minore dalle naturali permanenti esigenze di sostentamento, è assolutamente irrilevante. 
Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.