sabato 26 luglio 2014

Art. 35ter O.P. Richiesta risarcimento carcere sovraffollato per sconto di pena

All’ Ill.mo
Magistrato di Sorveglianza
di ________


ISTANZA
ex art. 35ter l.n. 354 del 1975
Rimedi risarcitori conseguenti
alla violazione dell’art. 3 Cedu nei confronti
dei soggetti detenuti o internati


Il sottoscritto Avv. __________, del foro di Napoli, difensore di fiducia del sig.

XX X X X  X

attualmente detenuto presso l’Istituto penitenziario _________, elettivamente domiciliato presso lo studio in intestazione, dal quale è rappresentato e difeso nel presente giudizio, giusta nomina a margine del presente atto in relazione alla novella legislativa intervenuta a seguito del d.l. n. 92 del 2014 che ha introdotto la possibilità per i soggetti detenuti ed internati di ottenere rimendi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 delle CEDU
C H I E D E
alla S.V. Ill.ma di voler disporre nei confronti del proposto, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva prevista dalla disposizione normativa dell’art. 35ter O.P., relativamente alla pena detentiva di cui al ____________________.
Ai fini di una compiuta articolazione della richiesta, occorre prendere le mosse della nota sentenza cd. “pilota” del caso Torreggiani ed altri vs Italia (sentenza 8 gennaio 2013) nella quale vedeva soccombere il Governo Italiano proprio nel risarcimento dovuto ai detenuti i quali erano “costretti” in strutture carcerarie che al di là di ogni certezza erano contrari ai principi ispiratori di cui all’art. 3 della CEDU. Infatti, nella suindicata pronuncia, si esplicitano tutte le condizioni che devono sussistere affinché possano essere garantite tutti i diritti inviolabili della persone e di censurano tutti quei fattori che, qualora dovessero essere presenti nelle celle dei detenuti, comporterebbero la conseguenziale violazione del divieto di pene che assumono il connotato di “inumanità”.
La Corte, dunque, ripercorre la condizione di alcuni detenuti - le quali sembrano pressappoco identiche al caso che ci occupa - e si interessa in particolar modo della disastrata realtà in cui si versano le carceri italiani che puntualmente si trovano ad ospitare detenuti in “esubero” non riuscendo a fornire tutto ciò che dovrebbe essere garantito dal nostro ordinamento.
Il carattere vincolante della sentenza cd. “pilota”.
La Corte EDU, nella pronuncia richiamata, rammenta che come interpretato alla luce dell’articolo 1 della Convenzione, l’articolo 46 crea per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico di porre in atto, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o individuali che si rendano necessarie per salvaguardare il diritto del ricorrente di cui la Corte ha constatato la violazione. Misure di questo tipo devono essere adottate anche nei confronti di altre persone nella stessa situazione dell’interessato; si presume, infatti, che lo Stato ponga fine ai problemi all’origine delle constatazioni operate dalla Corte (Scozzari e Giunta c. Italia [GC], nn. 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDU 2000VIII; S. e Marper c. Regno Unito [GC], nn. 30562/04 e 30566/04, § 134, 4 dicembre 2008).
Al fine di facilitare l’effettiva attuazione delle sue sentenze secondo il principio di cui sopra, la Corte può adottare una procedura di sentenza pilota che le consenta di mettere in luce chiaramente, nella sua sentenza, l’esistenza di problemi strutturali all’origine delle violazioni e di indicare le misure o azioni particolari che lo Stato convenuto dovrà adottare per porvi rimedio (Hutten-Czapska c. Polonia [GC], n. 35014/97, §§ 231-239 e il suo dispositivo, CEDU 2006VIII, e Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, §§ 189-194 e il suo dispositivo, CEDU 2004V). Quando adotta una simile prassi, la Corte tiene tuttavia in debito conto le rispettive attribuzioni degli organi della Convenzione: in virtù dell’articolo 46 § 2 della Convenzione, spetta al Comitato dei Ministri valutare l’attuazione delle misure individuali o generali adottate in esecuzione della sentenza della Corte (si veda, mutatis mutandis, Broniowski c. Polonia (composizione amichevole) [GC], n. 31443/96, § 42, CEDU 2005IX).
Altro fine perseguito – ora attuato - della sentenza pilota è quello di indurre lo Stato convenuto a trovare, a livello nazionale, una soluzione alle numerose cause individuali originate dallo stesso problema strutturale, dando così effetto al principio di sussidiarietà che è alla base del sistema della Convenzione (Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 127, CEDU 2009). Infatti, la Corte non assolve necessariamente al meglio il suo compito, che consiste, secondo l’articolo 19 della Convenzione, nell’«assicurare il rispetto degli impegni risultanti per le Alte Parti contraenti dalla (...) Convenzione e dai suoi Protocolli», ripetendo le stesse conclusioni in un gran numero di cause (ibidem).
La procedura della sentenza pilota ha lo scopo di facilitare la risoluzione più rapida ed effettiva di un malfunzionamento sistemico che colpisce la tutela del diritto convenzionale in questione nell’ordinamento giuridico interno (Wolkenberg e altri c. Polonia (dec.), n. 50003/99, § 34, CEDU 2007 (estratti)). L’azione dello Stato convenuto deve tendere principalmente alla risoluzione di tali malfunzionamenti e all’attuazione, se necessario, di ricorsi interni effettivi che consentano di denunciare le violazioni commesse. Tuttavia, essa può anche comprendere l’adozione di soluzioni ad hoc quali composizioni amichevoli con i ricorrenti o offerte unilaterali d’indennizzo, in conformità con le esigenze della Convenzione (Bourdov (n. 2), sopra citata, § 127).
Ebbene, attraverso l’introduzione dell’art. 35ter legge n. 354 del 1975, l’ordinamento giuridico italiano ha finalmente adempiuto alle prescrizione imposte introducendo un rimedio prettamente di natura processual-penalistico rispetto a quello alla precedente procedura che prevedeva l’esperibilità dell’azione di risarcimento delle lesioni dei diritti dei detenuti previsto in ambito civilistico (chiaramente a seguito della cd. “sentenza pilota” che ha statuito, per l’Italia, il punto di non ritorno); ora, l’accertamento demandata al Magistrato di Sorveglianza, ha carattere maggiormente penetrante aduso alla effettiva garanzia dei diritti dei soggetti detenuti o internati.

  Ebbene, sulla scorta della breve disamina or ora compiuta, la cui pretesa non è certo di esaustività, corre l’obbligo di perimetrare la cognizione nell’ambito del caso di specie.
-    Il sig. XXXXXXX è detenuto presso la Casa Circondariale di XXXXXXXX dal giorno XXXXXXX, in forza del provvedimento n. XXXXXXXXX a seguito della sentenza irrevocabile di condanna emessa dal Giudice XXXXXXX in data XXXXX; lo stesso occupa la cella XXXXXX, ubicata al piano XXXXX del lato XXXXX del sopraindicato Penitenziario, insieme ad altri XXXXXX detenuti;
-    In relazione a tale collocazione e alle più generali condizioni di vita esistenti all’interno del carcere, il sig …………….. è costretto da ………….. giorni/mesi/anni a subire un trattamento carcerario disumano che si pone in contrasto con i più basilari principi in tema di dignità e di rispetto dell’essere umano;
-    In particolare il sig. ……………… vive nella propria cella in condizioni che dal punto di vista igienico sono assolutamente inadeguate: i servizi igienici non sono collocati in un vano debitamente separato dal resto della cella, ma sono pericolosamente ravvicinati ai letti delle persone detenute; tra i sanitari, che sono peraltro del tutto fatiscenti e perciò spesso soggetti a ingorghi e a maleodoranti effluvi, è presente solo un lavabo, mentre manca una doccia/manca un bidet; non esistono/non sono in numero adeguato, inoltre, gli altri servizi igienici posti nelle adiacenze delle aree comuni; nelle aree adibite ai servizi igienici non scorre acqua calda, di fatto diviene impossibile qualsiasi tipo di adeguata e quotidiana igiene personale. La biancheria da letto rimane accatastata per giorni dentro i magazzini, non viene pulita e cambiata se non poche volte al mese: non è quindi garantita né la loro buona conservazione né tanto meno la loro pulizia; la biancheria personale ed il vestiario sono quantitativamente insufficienti, e, non essendo periodicamente sostituiti, non consentono una adeguata igiene; le coperte che vengono fornite nella stagione invernale non riescono a riparare in modo adeguato dalle rigide temperature dei mesi più freddi; la biancheria che viene fornita d’estate, di tessuto in lana è assolutamente inidonea viste e considerate le alte temperature che si raggiungono durante la stagione estiva; gli stessi capi di biancheria risultano poi utilizzati da diversi anni, nonostante essi siano palesemente deteriorati; la cella non garantisce uno spazio individuale sufficiente così come previsto dalla sentenza TORREGGIANI in quanto deve anche operarsi sottrazione per lo spazio riservato al mobilio, ai letti, etc.; la cella è dotata semplicemente  di una minuscola finestra è mancano in modo assoluto luce ed aria sufficiente che dovrebbero essere garantite; i detenuti fumatori sono inoltre internati nelle stesse celle con quelli non fumatori e sono costretti perciò a subire nei propri esigui e non sufficientemente spazi, anche il fumo di sigaretta passivo dei propri compagni; non esiste un impianto elettrico, anche se rudimentale, che risulti adeguato a garantire il funzionamento degli apparecchi radio o TV, né tantomeno ad illuminare sufficientemente la cella e non esiste un apposito pulsante all’interno della stessa cella; non vi sono prodotti specifici  in quantitativo sufficiente per garantire una adeguata pulizia del proprio ambiente e della propria cella; esiste una sola cucina che deve bastare per il vitto di tutte le persone ristrette in cella; il vitto è consumato, in condizioni assolutamente disagevoli, in un locale sovraffollato e privo di sufficiente areazione, che contiene al suo interno più persone di quante ne potrebbe ospitare; gli spazi adibiti alla ricreazione all’aperto non sono adeguatamente riparati dalla pioggia, cosicché viene di fatto impedito, nelle giornate invernali, la permanenza all’aperto; lo spazio adibito alla ricreazione all’aperto appare angusto e privo di aria, in quanto chiuso da un fabbricato/ da più fabbricati adiacenti ad esso.
Sulla scorta delle situazioni che ricorrono nel caso di specie
-    Ricorre un’evidente violazione delle norme sull’ordinamento penitenziario. In via generale, infatti le norme contenute nella legge 26 luglio 1975 n. 354 prescrivono all’art. 5, comma I, che “Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati”, all’art. 6, comma, I, invece sanciscono che “I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono esser di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia”. In particolare risulta violato anche il “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà” introdotto recentemente con il D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230. In tale regolamento infatti l’art. 6, comma I, prevede che “I locali in cui si svolge l’attività dei detenuti e internati devono essere igienicamente adeguati”; l’articolo 6, comma II, prevede che “Le finestre delle camere devono consentire il passaggio diretto di luce ed aria naturali. Non sono consentite schermature che impediscano tale passaggio”; l’art. 6, comma III, prevede che  “Sono approntati pulsanti per l’illuminazione artificiale delle camere, nonché per il funzionamento degli apparecchi radio e televisivi, sia all’esterno, per il personale, sia all’interno, per i detenuti e internati”; l’art. 6, comma V, prevede che “I detenuti che siano in condizioni fisiche e psichiche che lo consentano,  provvedono direttamente alla pulizia delle loro camere e dei servizi igienici. A tal fine sono messi a disposizione mezzi adeguati”; l’articolo 6, comma VII, prevede che “Se le condizioni logistiche lo consentono, sono assicurati reparti per non fumatori”; l’articolo 7, comma I, prevede che  “I servizi igienici sono collocati in un vano annesso alla camera”; l’articolo 7, comma II, prevede che “I vani in cui sono collocati i servizi igienici forniti di acqua corrente, calda e fredda, sono dotati di lavabo, di doccia e, in particolare negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet, per le esigenze igieniche dei detenuti ed internati”; l’articolo 7, comma III, prevede che i “Servizi igienici, lavabo e doccia devono essere inoltre collocati nelle adiacenze dei locali e delle aree dove si svolgono attività in comune”; l’articolo 9, comma II e comma III, prevede che “Gli oggetti che costituiscono il corredo da letto, i capi di vestiario e di biancheria personale, nonché gli altri effetti di uso che l’Amministrazione è tenuta a corrispondere ai detenuti e agli internati (…) devono avere caratteristiche adeguate al variare delle stagioni e alle particolari condizioni climatiche delle zone in cui gli istituti sono ubicati; la loro quantità deve consentire un ricambio che assicuri buone condizioni di pulizia  e di conservazione. Per ciascun capo o effetto è prevista la durata d’uso”; l’articolo 9, comma IV, prevede che “L’Amministrazione sostituisce, anche prima della scadenza del termine di durata, i capi e gli effetti deteriorati”; l’articolo 13, comma I, prevede che “Negli istituti ogni cucina deve servire alla preparazione del vitto per un massimo di duecento persone. Se il numero dei detenuti è maggiore, sono attrezzate più cucine”; l’articolo 13, comma III, prevede che “Il vitto è consumato di regola in locali all’uopo destinati, utilizzabili per un numero non elevato di detenuti o internati”.
-    Si è in presenza anche e soprattutto di una grave ed illecita lesione a quelli che sono i valori fondamentali dell’esser umano, ossia i cd. “beni della vita” a cui corrispondono diritti inviolabili dell’uomo sanciti dalla Costituzione; se nelle norme sull’ordinamento penitenziario ai sensi della legge 26 luglio 1975 n.354, è infatti sancito all’art. 1 che “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”, è nello stesso dettato costituzionale, a cui, infatti la norma è ispirata, che è previsto che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost) ed è espressamente vietata ogni forma di “violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà(art. 13 Cost); tali fondamentali principi sono poi garantiti e tutelati da Convenzioni internazionali ratificate e perciò vincolanti per lo Stato Italiano quali, a livello europeo, la Convenzione Europea di Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali che all’art. 3 stabilisce “Nessuno può esser sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti disumani o degradanti) e, a livello internazionale, il “Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici” ove, all’art.10 è sancito che “Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e con rispetto della dignità inerente alla persona umana).
-    Sussiste inoltre l’evidente violazione a) del diritto alla “pari dignità sociale” del cittadino che (ex art. 2 Cost.) versi, come nel caso del sig. ………., sottoposto a misure restrittive della libertà personale, in particolari condizioni personali o sociali; b) del diritto al libero e pieno sviluppo della personalità dell’essere umano (art. 2 Cost.); c) del diritto alla salute (art. 32 Cost); 
-    Ricorre, pertanto, un evidente danno ingiusto di natura non patrimoniale, che ricomprende al suo interno anche un danno più propriamente esistenziale;
Alla stregua delle considerazioni svolte in punto di fatto ed in punto di diritto ricorrono tutti i presupposti per l’applicazione nuovo art. 35ter l.n. 354 del 1975 e, pertanto, il sottoscritto difensore nell’interesse del proprio assistito

PER QUESTI MOTIVI

Chiede che venga riconosciuta la riduzione di pena prevista conseguente alla violazione dell’art. 3 CEDU ex art. 35ter O.P.


Con Ossequi

Avv. ______________




In Allegato: - nomina con procura speciale


lunedì 21 luglio 2014

Parcheggiatore abusivo: non è reato ma solo sanzione amministrativa

La Corte d’appello di Catania condanna un uomo ai sensi dell’art. 650 c.p. per non aver rispettato l’ordine del direttore dell’aeroporto di Catania di cessazione dell’attività di parcheggiatore abusivo, per motivi di ordine e sicurezza pubblica. La Cassazione annulla.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 gennaio – 16 luglio 2014, n. 31248 Presidente Giordano – Relatore Caiazzo 

Ritenuto in fatto 

Con sentenza in data 13.11.2012 la Corte d'appello di Catania confermava la sentenza emessa il 29.9.2011 dal Tribunale di Catania con la quale D.M.P. era stato condannato alla pena di un mese di arresto per il reato di cui all'art. 650 c.p., non avendo il predetto osservato l'ordine del Direttore dell'aeroporto di Catania Fontanarossa di cessare l'attività di parcheggiatore abusivo. In Catania fino al 25.9.2009. 
La Corte d'appello rilevava che il Direttore dell'aeroporto aveva ordinato all'imputato di cessare dallo svolgere l'attività di parcheggiatore abusivo nell'area aeroportuale per ragioni di ordine e sicurezza pubblica, in quanto la suddetta attività recava pregiudizio alle operazioni che si svolgevano nella suddetta area. 
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, chiedendone l'annullamento per violazione di legge, in quanto l'ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 650 c.p. ha carattere sussidiario e trova applicazione solo quando l'inosservanza non sia sanzionata da altra norma penale, amministrativa o processuale. 
All'imputato, per la sua condotta di parcheggiatore abusivo, erano state contestate in una occasione la violazione dell'art. 7/15 C.d.S. e in altra occasione la violazione dell'art. 1174 del Codice della Navigazione, violazioni previste come illeciti amministrativi. 

Considerato in diritto 

Il ricorso è fondato. 
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'esercizio abusivo dell'attività di parcheggiatore integra l'illecito amministrativo previsto dall'art. 7, comma quindicesimo-bis, c.d.s., e non il reato di inosservanza dei provvedimenti dell'autorità previsto dall'art. 650 cod. pen., stante l'operatività dei principio di specialità di cui all'art. 9 della l. n. 689 del 1981 (V. Sez. 1 sentenza n. 47886 del 6.12.2011, Rv. 251184) 
L'inosservanza punita dall'art.650 c.p. deve riguardare un provvedimento adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna specifica previsione normativa che comporti una specifica ed autonoma sanzione, mentre nel caso in esame l'attività di parcheggiatore abusivo svolta dall'imputato era stata già contestata dagli operanti come violazione dell'art. 7/15-bis C.d.S. e come violazione dell'art.1174 dei Codice della Navigazione. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. 

P.Q.M. 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

giovedì 17 luglio 2014

Spara ad un piccione con arma ad aria compressa. Condannato

Spara ad un piccione con un'arma ad aria compressa. Sono utilizzabili le dichiarazioni spontanee anche nel giudizio abbreviato.

Dichiarazioni spontanee nell’immediatezza del fatto: si applica l'art. 350, c. 7, cpp inutilizzabili solo in dibattimento

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 26 febbraio – 15 luglio 2014, n. 30903 Presidente Teresi – Relatore Grillo 

Ritenuto in fatto 

1.1 Con sentenza dell'8 ottobre 2012 la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza del Giudice per l'udienza Preliminare di quel Tribunale del 12 marzo 2012 con la quale S.A.B., imputato dei reati di cui agli artt. 544 bis e 674 cod. pen. era stato condannato alla pena complessiva, condizionalmente sospesa, di mese uno e giorni venti di arresto. 
1.2 Propone ricorso il nominato S.A.B., deducendo quattro specifici motivi. Con il primo, la difesa lamenta la manifesta illogicità della motivazione ed erronea applicazione della legge penale in punto di conferma del giudizio di colpevolezza con specifico riferimento alla indebita utilizzazione di dichiarazioni di asserito tenore confessorio rese dalla S. alla P.G. in quanto in violazione dell'art. 350 comma 3 cod. proc. pen. Con un secondo motivo viene denunciato vizio di travisamento della prova confermativa della responsabilità dello S., tenuto conto della assoluta genericità ed equivocità delle notizie riferite dalle persone informate sui fatti, sentite nella immediatezza dalla P.G. Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge per inosservanza della legge penale processuale (art. 191 cod. proc. pen.) in riferimento alla omessa e illogica valutazione degli indizi a carico, nient'affatto gravi, precisi e concordanti. Con l'ultimo motivo la difesa lamenta carenza assoluta di motivazione in ordine alla conferma del giudizio di colpevolezza riguardante il reato di cui all'art. 674 cod. pen., a fronte di specifico motivo di appello cui la Corte distrettuale non ha dato alcuna risposta. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è fondato in parte per le ragioni che di seguito, qui sinteticamente, si espongono. 
2. Va, anzitutto, premesso che S.A.B. è stato giudicato con il rito abbreviato in ordine a due distinte ipotesi criminose rappresentate dalla violazione dell'art. 544 bis cod. pen. (uccisione di animali) e dall'art. 674 cod. pen. (getto pericoloso di cose). La vicenda che lo vede protagonista trae origine dalla segnalazione di alcuni condomini di un edificio nella Via Moncalvo 31 di Milano che avevano sentito un rumore sordo tipico di un colpo di arma da fuoco e, subito dopo, avevano notato un piccione caduto al suolo ucciso verosimilmente per un colpo di arma da fuoco con foro di entrata ed uscita in un'ala. I Carabinieri intervenuti avevano sentito alcuni residenti dei luogo che, oltre a confermare la notizia, indicavano un possibile autore in una persona abitante in un edificio limitrofo separato da un muro altro circa cm. 130, il quale, a loro dire, aveva l'abitudine di sparare ai piccioni in volo con un fucile ad aria compressa. Risulta dalla sentenza che lo S., individuato dai Carabinieri nel soggetto indicato dai residenti del luogo, aveva immediatamente confessato di aver abbattuto il volatile con un'arma ad aria compressa che esibiva alla P.G. e che veniva sottoposta a sequestro. 
Così ricostruiti i fatti come esposti nella sentenza di primo grado richiamata per relationem dalla Corte di Appello, va esaminata la prima censura con la quale la difesa dello S. sostanzialmente lamenta la violazione degli artt. 63, 350 e 191 cod. proc. pen. Erroneamente i giudici di merito hanno, a suo avviso, ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rilasciate dallo S. di tenore asseritamente confessorio (per come indicato nell'annotazione di P.G. allegata al ricorso), considerando tali dichiarazioni spontanee. L'erronea applicazione della legge processuale penale consisterebbe, anzitutto, nell'inosservanza del disposto di cui all'art. 350 comma 7 cod. proc. pen., il quale prevede che dette dichiarazioni possono essere raccolte dall'indagato. Ma nel caso in esame a carico dello S. non era in corso alcuna indagine sicchè il disposto di cui all'art. 350 comma 7 non poteva, comunque, trovare applicazione, non assumendo egli la veste di indagato: le dichiarazioni da lui rese nella circostanza potevano essere, tutt'al più, qualificare come dichiarazioni rese nella qualità di persona informata sui fatti. 
3.1 Sotto altro profilo, laddove lo S. dovesse essere considerato indagato, avrebbe dovuto trovare applicazione il disposto di cui all'art. 63 cod. proc. pen., in quanto dalle sue stesse dichiarazioni, se correttamente riportate nella annotazione di P.G., emergevano indizi di reità a suo carico: ciò avrebbe dovuto determinare gli organi di P.G. ad interrompere qualsiasi dichiarazione e comunicare allo S. che, da quel momento in poi, egli avrebbe potuto rivestire la qualità di indagato, contestualmente invitandolo a nominare un difensore, ad eleggere domicilio e, in sintesi, ad attuare tutti gli adempimenti collegati a tale figura. Non essendo così avvenuto, le dichiarazioni, peraltro neanche separatamente verbalizzate, ma contenute - come già accennato - nella annotazione di servizio, dovevano ritenersi affette da inutilizzabilità cd. "patologica". Peraltro la difesa lamenta che nemmeno si trattava di dichiarazioni spontanee come affermato dal giudice di merito, in quanto dalla lettura dell'annotazione emergeva che era stato lo S. a rispondere alle contestazioni, ammettendo le proprie responsabilità e consegnando l'arma, di guisa che nessuna spontaneità era ravvisabile potendosi considerare tale solo quella dichiarazione che, di propria iniziativa, un soggetto effettua, mentre chi le riceve mantiene un atteggiamento di assoluta passività, limitandosi a registrare dette dichiarazioni. Inoltre la dichiarazione in forma riassuntiva, contenuta nella annotazione di servizio, non sottoscritta dal ricorrente, non offrirebbe alcuna garanzia di fedeltà e obiettività, in quanto lo S. era impossibilitato a controllare eventualmente il contenuto di quanto verbalizzato, senza che fosse comunque possibile sanare il vizio denunciato. 
3.2 Tale censura non è fondata. L'indirizzo formatosi nella giurisprudenza di questa Corte Suprema in tema di utilizzabilità delle dichiarazioni rese spontaneamente alla Polizia Giudiziaria è nel senso di affermare la piena utilizzabilità di tali dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari in quanto il divieto opera soltanto con riferimento alla fase dibattimentale (S.U. 25.9.2008 n. 1150, Correnti, Rv. 241884). 
3.3 Quanto alla utilizzabilità nel giudizio abbreviato definito "a prova contrata" (cfr. S.U. 21.6.2000 n. 16, Tammaro, Rv. 216246), alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, se non può contestarsi che la sentenza Tammaro ha distinto tra vizi "fisiologici" (che non comportano la inutilizzabilità) e vizi "patologici" (che determinano la inutilizzabilità assoluta), è dei pari, innegabile che la ricordata sentenza 1150/08 ha ritenuto che le dichiarazioni spontanee rese ex art. 350 comma 7 possono avere piena cittadinanza nella fase delle indagini preliminari. E' stato anche precisato in più occasioni, da questa Corte Suprema, che le spontanee dichiarazioni contra sé da parte di chi non ha ancora assunto la veste qualità di indagato, sono certamente utilizzabili nel giudizio abbreviato, pesino contra alios (v. tra le più recenti, Sez. 5^ 20.2.2013 n. 18519, P.G. in proc. Ballone e altri, Rv. 256236; Sez. 4^ 4.12.2013 n. 5619, P.G., Mastino, Rv. 258216). 
3.4 la difesa dello S. contesta la utilizzabilità di dette dichiarazioni anche sotto un diverso profilo, ritenendo che non di dichiarazioni ex art. 350 comma 7 si tratterebbe, ma di sommarie informazioni rilasciate ex art. 350 comma 3 del codice di rito, che la polizia giudiziaria avrebbe dovuto interrompere ai sensi dell'art. 63 cod. proc. pen. formulando gli avvertimenti di rito e l'invito a nominare difensore. Ma anche così prospettata, la censura non coglie nel segno, posto che non è sostenibile che una persona invitata dalla polizia giudiziaria a raccontare quanto sia accaduto sotto i suoi occhi, sia assimilabile ad una persona interrogata dagli inquirenti. Anche in questo caso soccorrono i principi affermati con la ricordata sentenza n. 1150/08, essendo stato chiarito che le dichiarazioni spontanee rese dall'indagato nella immediatezza del fatto e riferite nell'informativa confermata dal verbalizzante, pur se sollecitate dalla polizia giudiziaria, non sono assimilabili all'interrogatorio in senso tecnico. Ne deriva che, per l'assunzione di tali dichiarazioni, non è necessario il preventivo invito rivolto al dichiarante alla nomina del difensore, né l'avvertimento circa la facoltà di non rispondere: alle dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria non è dunque applicabile la disciplina del comma 2 dell'art. 63 citato, ma esclusivamente quella di cui all'art. 350 comma 7 cod. proc. pen. 
3.5 Ad abundantiam si rileva - come risulta pacificamente sia dalla motivazione della sentenza di primo grado che da quella di appello - che il giudice di merito non si è affatto basato sulle dichiarazioni asseritamente confessorie rese dallo S. (non mancando di rilevare che la difesa ha contestato, comunque, il carattere confessorio di tali dichiarazioni in assenza di apposito verbale contenente tali presunte dichiarazioni ed essendo insufficienti e/o impropri i riferimenti contenuti nella annotazione di P.G.), ma ha valorizzato altre prove costituite dalle dichiarazioni rese da numerosi residenti sui luoghi che avevano concordemente riferito di avere sentito un rumore tipico di un colpo di arma da fuoco e di aver notato il piccione per terra attinto ad un'ala che mostrava un foro di entrata (ed uscita) tipico di un proiettile che l'aveva trapassata. 
3.6 Sicchè la tesi della inutilizzabilità patologica, oltre che infondata in generale per le ragioni anzidette, si scontra, comunque, con una motivazione della sentenza che dà conto di altre prove (non solo) di tipo dichiarativo che conducevano, come ricordato dal GUP e dalla stessa Corte territoriale, ad una responsabilità dello S. al di là di ogni ragionevole dubbio. 
4. Per queste specifiche ragioni si profila infondata in modo manifesto la seconda censura che denuncia vizio di manifesta illogicità ed erronea applicazione della norma processuale (in particolare l'art. 192 del codice di rito), in quanto la conferma della responsabilità poggia su plurimi elementi in cui si incrociano alcuni dati oggettivi come constatati dai carabinieri con le dichiarazioni di persone che avevano visto in diretta la scena della caduta al suolo del piccione e della ferita sull'ala: le censure prospettate sul punto dalla difesa del ricorrente contengono, oltretutto, rilievi in fatto volti ad offrire una ricostruzione alternativa della vicenda processuale improponibile in sede di legittimità. 
5. Del tutto generica la censura contenuta nel terzo motivo con il quale il ricorrente lamenta la erronea valutazione degli indizi, in quanto a suo avviso né gravi, né precisi, né concordanti e risolventisi anche in una erronea applicazione della legge processuale penale (art. 192 cod. proc. pen.): si è prima visto che il giudice di merito ha valorizzato una serie di elementi ritenuti convergenti verso l'attribuibilità allo S., al di là di ogni ragionevole dubbio, della morte violenta dei piccione: ne consegue che i richiami teorici ai criteri in base ai quali valutare gli indizi, restano mere affermazioni di scuola che trovano un'ampia smentita nella motivazione della Corte di Appello che si è soffermata su tutti quegli elementi ritenuti a carico dello S.. 
6. E' invece fondata la censura sviluppata nel quarto - ed ultimo - motivo con il quale il ricorrente lamenta l'assenza di motivazione sulla attribuibilità del fatto (e in particolare del colpo di fucile) all'imputato come già dedotto ampiamente nello specifico motivo di appello non preso in considerazione dalla Corte territoriale. 
6.1 Ferma restando, in linea di principio, la configurabilità del reato di cui all'art. 674 cod. pen. nella ipotesi di uso di un'arma ad aria compressa con modalità tali da porre in pericolo l'incolumità delle persone (v. di recente Sez. 3^ 18.12.2008 n. 3478, P.G. in proc. Sanna, Rv. 242287; conforme Sez. 6^ 28.5.1974 n. 9885, Sparviero, Rv. 123311; idem, 15.12.1970 n. 1559, Lopez, Rv. 116947), dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata non si ricava alcun cenno né considerazione rispetto alla specifica doglianza difensiva, tanto più che era stato contestato nell'atto di appello che il mancato rinvenimento del proiettile e le stesse incertezze descrittive ricavabili dal teste P.D. non consentivano di affermare con la dovuta certezza che fosse stato proprio lo S. ad esplodere il colpo. 
6.2 In assenza di motivazione di punto la sentenza impugnata va annullata limitatamente al reato di cui all'art. 674 cod. pen. con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano che dovrà colmare le lacune motivazionali sopra indicate alla luce dei principi di diritto affermati da questa Corte. 

P.Q.M. 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano limitatamente al reato di cui all'art. 674 cod. pen. Rigetta nel resto il ricorso. 

Un uomo adesca una sedicenne attraverso Facebook e le propone di prostituirsi per feste private. Va in carcere

Un uomo adesca una sedicenne attraverso Facebook e le propone di prostituirsi per feste private. Va in carcere.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 3 – 16 luglio 2014, n. 31184 Presidente Squassoni – Relatore Gazzara 

Ritenuto in fatto 

Il Gip presso il Tribunale di Roma, con ordinanza del 10/1/2014, ha applicato la misura della custodia cautelare in carcere a carico di A.S., indagato per il reato ex art. 56 e 600 bis co. 1 cod. pen., per avere tentato di indurre la minore M.P., di anni 16, adescata su internet, tramite un profilo Facebook altrui, fraudolentemente utilizzato, a prostituirsi, partecipando a feste private, in cui avrebbe dovuto esibirsi indossando solo un perizoma ed intrattenere i partecipanti, lasciandosi palpeggiare dagli stessi. 
Il Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi sulla istanza di riesame interposta nell'interesse dei prevenuto, con ordinanza del 30/1/2014, ha confermato il mantenimento della misura in atto. 
La difesa del S. ha proposto ricorso per cassazione con i seguenti motivi: 
- vizio di motivazione in ordine alla fattispecie del reato astrattamente ipotizzata, in quanto la condotta ascritta, come emerso dal contenuto degli atti di indagine, di certo, non può farsi rientrare nella sfera dell'art. 600 bis co. 1, ma semmai nella ipotesi prevista dal co. 2 della stessa disposizione codicistica; 
- assoluta sproporzione tra i fatti così come contestati e la custodia intramuraria applicata, apparendo illogico e contraddittorio che una misura meno afflittiva non possa garantire le esigenze cautelare ritenute sussistenti. 

Considerato in diritto 

Il ricorso è inammissibile. 
In estrema sintesi con il primo il motivo di annullamento si contesta la qualificazione giuridica dei fatti, ad avviso dei ricorrente inquadrabili più propriamente nella meno grave ipotesi, residuale, di cui al co. 2 dell'art. 600 bis cod.pen., anche alla luce della recente pronuncia resa da questa Corte (S.U. 14 aprile 2014, n. 16207). 
Il Tribunale ha evidenziato come la condotta del prevenuto, obiettivamente desumibile dai termini dell'approccio informatico e dai ripetuti contatti, anche di persona, con la minore sia stata la seguente: il S. ha tentato di convincere la P. a partecipare, dietro compenso e previa selezione, a feste private durante le quali la minore avrebbe dovuto prestarsi ad atti sessuali (palpeggiamenti), con qualunque dei partecipanti lo volesse. L'opera di convincimento a tale scopo, tesa a superare le obiezioni e le resistenze morali della minore, è stata insistente e prolungata, espressa sia tramite conversazioni sul network, sia durante l'incontro presso la Cattedrale, sia in seguito, con pressanti richieste di prendere una decisione e fornire una risposta. 
Il prevenuto ha, dunque, cercato di blandire, incoraggiare e condizionare il processo volitivo della vittima in relazione a prestazioni sessuali retribuite con un numero indeterminato di potenziali clienti, non riuscendo nell' intento per cause indipendenti dalla sua volontà; elementi, questi cristallizzanti l'ipotesi di reato contestata. 
Del pari manifestamente infondata si palesa la eccepita sproporzione tra i fatti ascritti al prevenuto e la misura cautelare massima in atto. 
Sul punto, con un discorso giustificativo del tutto esaustivo ed esente da vizi logici, il decidente evidenzia la pericolosità sociale della personalità dell'indagato, che rende particolarmente intenso il pericolo di recidiva specifica, valutando la natura del reato contestato, rispondente ad istinti difficilmente comprimibili e controllabili, e le modalità seriali ed insidiose con le quali il S. agisce per adescare in "rete" il soggetto minorenne. 
In dipendenza delle superiori considerazioni, ad avviso dei giudice di merito, la custodia cautelare in carcere è da considerare l'unica adeguata a fronteggiare tale pericolo, poiché, peraltro, l'abitazione del S. rappresentava il centro di riferimento della attività criminosa, vista, altresì, la facilità di accesso ad internet, anche mediante una semplice connessione da utenza cellulare, al di fuori di ogni possibilità di controllo. 
Tenuto conto, di poi, della sentenza del 13/12/2000, n. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il S. abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, lo stesso, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannato al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00. 

P.Q.M. 

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00; dispone che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'istituto Penitenziario competente, a norma dell'art. 94, co. 1 ter, disp. att. cod. proc. pen.

venerdì 11 luglio 2014

Violenza sessuale: essere ubriaca non significa essere consenziente.



Integra il reato di violenza sessuale, con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica, la condotta di chi induce la persona offesa a subire atti sessuali in uno stato di infermità psichica determinato dall’assunzione di bevande alcoliche.

 Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 1° aprile – 9 luglio 2014, n. 29966 Presidente Squassoni – Relatore Di Nicola 

Ritenuto in fatto 

1. Con l'ordinanza in epigrafe, il Tribunale della libertà di Trento, in accoglimento dell'appello cautelare proposto dal pubblico ministero, ha applicato, riformando l'ordinanza emessa dal Gip presso il medesimo Tribunale che aveva rigettato la domanda cautelare, ad C.A. la misura degli arresti domiciliari con riferimento al delitto di cui agli artt. 61 n. 5, prima e terza ipotesi, e 609 bis cod. pen., perché costringeva con violenza una donna di anni 32 di nome Z.A. , che conosceva di vista e con cui si era intrattenuto a parlare pochi minuti all'interno del Bar (omissis) di (…), a subire un rapporto sessuale completo, in particolare la trascinava in un passaggio discosto dalla pubblica via, la gettava a terra, le abbassava i pantaloni e la penetrava nella vagina. Con l'aggravante di aver commesso il fatto in danno di una persona in condizioni di minorata difesa in quanto ubriaca. 
2. Per la cassazione dell'ordinanza impugnata, ricorre, tramite il difensore di fiducia, C.A. , affidando il gravame a cinque motivi con i quali deduce: 
1) manifesta illogicità della motivazione in punto di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, avendo il Tribunale ritenuto sia la modalità induttiva che quella costrittiva della condotta contestata optando, contrariamente alla posizione assunta dal pubblico ministero, maggiormente per la prima e non escludendo la seconda, con il ricorso ad un apparato argomentativo manifestamente illogico in quanto se fosse stata provata, in via cautelare, la modalità costrittiva non vi era bisogno di sostenere l'ipotesi induttiva, risolvendosi la prospettata alternativa in una incertezza circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla commissione del fatto che non era sfuggita agli investigatori i quali avevano suggerito approfondimenti istruttori fondati su elementi favorevoli alla persona accusata e dei quali non si era tenuto conto in violazione dell'art. 292, comma 2 ter, cod. proc. pen. con conseguente nullità dell'ordinanza impositiva della misura; 
2) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 609 bis, comma 1, cod. pen. essendo l'ordinanza censurabile, oltre che sotto il profilo logico - motivazionale, anche sotto il profilo della corretta interpretazione ed applicazione delle norme di diritto penale sostanziale al caso di specie, ed in particolare di quella di cui all'art. 609 bis, comma 1, cod. pen. perché se vero che, come sostenuto dal tribunale, non occorre, per integrare l'ipotesi delittuosa in questione l'utilizzo di strumenti di coercizione fisica, bastando al contrario il semplice dissenso manifestato dalla vittima rispetto all'atto sessuale, tuttavia tale dissenso deve essere manifestato in maniera chiara ed inequivocabile, di talché il soggetto agente deve essere messo nella condizione di accorgersene, circostanza non sussistente nel caso di specie; 
3) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 609 bis, comma 2, n. 1, cod. pen. essendo pacifico che entrambi i soggetti, che hanno compiuto l'atto sessuale, erano ubriachi, con la conseguenza che la norma in esame non sembra applicabile al caso di specie richiedendo che soltanto uno dei soggetti coinvolti sia in stato di inferiorità (fisica o psichica) rispetto all'altro e non che, come nella specie, entrambi i soggetti, coinvolti nell'atto sessuale, si trovino nella medesima situazione di menomata integrità psichica (in quanto entrambi completamente ubriachi), sicché il reato in questione non può dirsi integrato nei confronti di alcuno dei due; 
4) inosservanza dell'art. 274, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in punto sussistenza di un pericolo concreto ed attuale di inquinamento probatorio e, comunque, per violazione del principio della domanda cautelare essendo stata la decisione emessa ultra petita in quanto il pubblico ministero - sia nella sua richiesta di convalida di fermo e di applicazione della misura cautelare della custodia e sia nel successivo atto di appello - non ha ipotizzato la sussistenza di un pericolo attuale e concreto di inquinamento probatorio, ritenuto invece dal Tribunale della libertà in considerazione della influenzabilità e fragilità psicologica della vittima senza tenere in alcun conto sia il tempo trascorso dall'episodio, sia degli elementi di prova nel frattempo acquisiti, sia infine della mancanza di qualunque tentativo, da parte dell'indagato, di contattare la vittima o qualcuno dei testimoni; 
5) inosservanza dell'art. 274, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in punto sussistenza di un pericolo concreto ed attuale di recidiva e, comunque, per violazione del principio della domanda cautelare essendo stata la decisione emessa ultra petita in quanto la richiesta di convalida di fermo e di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere formulata dal pubblico ministero era unicamente incentrata sulla questione della sussistenza o meno del pericolo di fuga, con la conseguenza che la generica affermazione, effettuata da parte del Tribunale per la prima volta nell'ordinanza impugnata, circa la pretesa sussistenza di un pericolo di recidiva desumibile dall'estrema disinvoltura e dall'assenza di remore nel compimento dell'azione delittuosa appare non soltanto in contrasto con quanto richiesto dall'art. 274, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. per giustificare l'applicazione di una misura cautelare (mancando, nella motivazione dell'ordinanza impugnata, qualunque riferimento alla concretezza ed attualità del preteso pericolo di recidiva), ma anche sintomatica di una decisione adottata ultra petita ed in violazione del principio devolutivo proprio dell'appello cautelare. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono. 
2. I primi tre motivi - che possono essere congiuntamente trattati perché tutti collegati dalle censure fattuali mosse nei confronti del provvedimento impugnato e, in quanto tali, non ammissibili nel giudizio di legittimità - sono manifestamente infondati. 
2.1. Il Tribunale distrettuale ha, con logica ed adeguata motivazione, ricostruito, sulla base degli atti processuali, la vicenda nel seguente modo: la vittima si trovava all'interno di un bar, in compagnia di alcuni amici, quando venne avvicinata dall'indagato, che conosceva di vista in quanto cliente abitale del bar (…), dove la Z. lavorava come barista. 
La ragazza era ubriaca e insieme all'indagato, dopo aver scambiato qualche parola, uscì dal bar. Ad un certo punto l'indagato, presala per il collo, la trascinò su di una rampa di scale, le abbassò i pantaloni, la gettò a terra e le usò violenza penetrandola nella vagina. Poi andò via, da solo, e ritornò nel bar dove aveva lasciato il giubbetto e lo zaino, per riprenderli. 
La parte offesa si rivestì, si diresse da sola verso il bar ed incontrò per strada uno degli amici con cui aveva trascorso la serata, al quale riferì immediatamente di essere stata violentata. L'amico, G.A. , allertò i Carabinieri che intervennero immediatamente. 
Tale ricostruzione, ampiamente indicativa circa la ritenuta gravità del quadro indiziario, fonda sulle dichiarazioni rese, nell'immediatezza dei fatti, dalla parte offesa agli amici ed ai Carabinieri intervenuti su chiamata; sulle dichiarazioni rese al medico del Pronto Soccorso dove la vittima è stata immediatamente accompagnata; sulle dichiarazioni rese nella querela. 
Il Tribunale, dopo aver ritenuto la persona offesa assolutamente attendibile, ha posto in evidenza come le dichiarazioni accusatorie fossero state anche suffragate da riscontri esterni alle sue dichiarazioni (scheda clinica, redatta subito dopo il fatto, anche in relazione al tipo di lesioni riscontrate; dichiarazioni rese da G.A. , che ha confermato quanto la ragazza riferì nell'immediatezza del fatto; verbale di interrogatorio per la convalida del fermo, in cui l'indagato ha ammesso di aver incontrato la ragazza nel bar, di aver chiacchierato con lei e di esserne uscito con lei per fumare una sigaretta e di aver consumato un rapporto sessuale che lui riteneva fosse consenziente). 
2.2. È a questo punto che il Collegio cautelare ha affermato come integri il reato di violenza sessuale, con abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica, la condotta di chi induca la persona offesa a subire atti sessuali in uno stato di infermità psichica determinato dall'assunzione di bevande alcooliche, essendo l'aggressione all'altrui sfera sessuale connotata da modalità insidiose e subdole (Sez. 3, n. 40565 del 19/04/2012, D.N., Rv. 253667). 
È dunque infondata la censura di manifesta illogicità della motivazione, avendo il Tribunale dato ampiamente conto, nella descrizione del fatto, delle modalità violente della condotta ed ha replicato, tenuto conto della linea difensiva svolta dall'indagato, come, se anche si volesse seguire la tesi difensiva, il reato fosse ampiamente configurabile perché, ammesso il compimento del rapporto sessuale, lo stato di inferiorità della vittima avrebbe reso parimenti penalmente rilevante il rapporto stesso, fermo restando che il Tribunale ha superato anche l'altra obiezione (non quella, del tutto irrilevante, della inferiorità nella quale si fosse trovato lo stesso indagato e da escludere perché incompatibile con la condotta successiva e per essersi lo stesso giustificato sul rilievo del consenso al rapporto che, a suo dire, la vittima avrebbe manifestato) e cioè che l'assenza di segni di violenza fisica o di lesioni sulla vittima non esclude la configurabilità del delitto di violenza sessuale, in quanto il dissenso della persona offesa può essere desunto da molteplici fattori e perché è sufficiente la costrizione ad un consenso viziato (Sez. 3, n. 24298 del 12/05/2010, O., Rv. 247877). 
Del resto, questa Corte ha recentemente ribadito (Sez. 3, n. 9618 del 2014 non mass.) che integra il delitto di violenza sessuale non solo la violenza che pone il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre tutta la resistenza possibile, realizzando un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta con il compimento di atti idonei a superare la volontà contraria della persona offesa, soprattutto se la condotta criminosa si esplica in un contesto ambientale tale da vanificare ogni possibile reazione della vittima (Sez. 3, n. 40443 del 28/11/2006, Zannelli, Rv. 235579), escludendo che, per la configurabilità del reato di violenza sessuale, fosse necessario il ricorso alla vis atrox, con la conseguenza che il fatto di reato è pienamente integrato anche quando l'agente prosegua un rapporto sessuale allorché difetti, in via genetica, il consenso della vittima o, se anche originariamente prestato, il consenso stesso venga successivamente meno a causa di un ripensamento ovvero della non condivisione delle forme o delle modalità di consumazione del rapporto, ciò in quanto il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità (Sez. 3, n. 4532 del 11/12/2007, (dep. 29/01/2008), Bonavita, Rv. 238987). 
2.3. A fronte di tale ricostruzione fattuale e delle corrette ricadute che il Collegio cautelare ne ha fatto discendere in punto di diritto per la ritenuta configurabilità di un grave quadro indiziario, le obiezioni del ricorrente, quantunque articolate e prospettate come vizi di legittimità, si sostanziano in doglianze fattuali perché svincolate rispetto alla denuncia di errori di diritto o di vizi logici della decisione impugnata, attenendo alle valutazioni operate dai giudici di merito e chiedendosi al giudice di legittimità una rilettura degli atti processuali, per pervenire ad una diversa interpretazione degli stessi, più favorevole alla tesi difensiva del ricorrente. 
Trattasi di censura non consentita in sede di legittimità perché in violazione della disciplina di cui all'art. 606 cod. proc. pen.. 
3. Sono invece fondati il quarto ed il quinto motivo limitatamente alla doglianza circa il difetto di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari. 
3.1. Va preliminarmente chiarito come il profilo circa la prospettata violazione dei principi che governano l'esercizio dell'azione cautelare siano infondati. 
Per il rispetto del principio della domanda, è necessario, da un lato, che il giudice non proceda ex officio, occorrendo non solo l'impulso da parte del pubblico ministero (che è il titolare, in regime di monopolio, dell'azione cautelare) ma anche che non venga mutato il fatto posto a fondamento della imputazione cautelare, che segna gli ambiti della domanda diretta ad investire il giudice in funzione della terzietà imposta dalla materia de libertate, e, dall'altro, che non venga stravolto il petitum cautelare mediato, non potendo il giudice disporre misure più gravi di quelle richieste con il promovimento dell'azione o, in tema di misure cautelari reali, sostituire il bene della vita (che il pubblico ministero chiede di vincolare) con un altro. 
Quanto al resto, il giudice cautelare rimane libero di dare al fatto una diversa qualificazione giuridica e subisce vincoli di cognizione esclusivamente dagli atti che il pubblico ministero pone a fondamento della domanda ma non dalla causa petendi, potendo ravvisare gli indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari (per queste ultime anche sulla base di uno ius variandi nel senso che può ritenere sussistente, come nel caso di specie, un'esigenza diversa o ulteriore rispetto a quella ritenuta sussistente dal pubblico ministero) per ragioni diverse o ulteriori rispetto a quelle prospettate con la domanda cautelare. 
Tale orientamento, peraltro non univoco nella giurisprudenza di legittimità ed in dottrina, fonda sul rilievo che, nel processo penale, il principio della "domanda cautelare" non ha, né può avere, in mancanza di precise disposizioni normative, contenuti diversi rispetto alla dinamica dell'azione penale che si innesta nel processo principale, essendo entrambi i tipi di processo (quello principale e quello dell'incidente cautelare) connotati dall'essere entrambi "processo di parti". 
Quanto infatti alle disposizioni codicistiche che governano l'azione cautelare, con specifico riferimento alla dinamica del procedimento applicativo (art. 291 cod. proc. pen.), è richiesto che il giudice proceda solo su domanda del pubblico ministero, ma la domanda deve contenere "gli elementi su cui la richiesta si fonda nonché tutti gli elementi a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate". 
Intervenuta l'investitura ed osservato il principio ne procedat iudex ex officio, spetta al giudice di valutare, a prescindere dagli specifici elementi contenuti nella richiesta, la sussistenza o meno dei relativi presupposti, ivi comprese le esigenze cautelari, e motivare in proposito. 
Ogni eventuale previsione di nullità riguarda, infatti, solo l'ordinanza cautelare (art. 292, comma 2, cod. proc. pen.) e non già la richiesta del pubblico ministero. 
Questi principi devono ritenersi applicabili anche nelle impugnazioni cautelari: certamente nel riesame de libertate che, quale mezzo di impugnazione atipico, è svincolato dal principio devolutivo ma anche nell'appello cautelare proposto dal pubblico ministero che, come hanno spiegato le Sezioni Unite Donelli, non mutua in pieno l'effetto devolutivo tipico di tale mezzo di impugnazione. 
Quando infatti è appellante, nella materia de libertate, il pubblico ministero, "i poteri di cognizione e di decisione del giudice dell'appello de libertate, pur nel rispetto del perimetro disegnato dall'originaria domanda cautelare, si estendono, senza subire alcuna preclusione, all'intero thema decidendum, che è costituito dalla verifica dell'esistenza di tutti i presupposti richiesti per l'adozione di un'ordinanza applicativa della misura cautelare, poiché il tribunale della libertà funge, in tal caso, non solo come organo di revisione critica del provvedimento reiettivo alla stregua dei motivi di gravame del P.M., ma anche come giudice al quale è affidato il potere-dovere di riesaminare ex novo la vicenda cautelare nella sua interezza, onde verificare la puntuale sussistenza delle condizioni e dei presupposti di cui agli artt. 273, 274, 275, 278, 280, 287 c.p.p. e, all'esito di siffatto scrutinio, di adottare infine, eventualmente, il provvedimento genetico della misura che, secondo lo schema di motivazione previsto dall'art. 292, risponda ai criteri di concretezza e attualità degli indizi e delle esigenze cautelari, nonché a quelli di adeguatezza e proporzionalità della misura" (Sez. U, n. 18339 del 31/03/2004, Donelli, non mass. sul punto). 
Potendo pertanto il giudice dell'appello cautelare individuare le esigenze cautelari del caso specifico, quantunque diverse da quelle poste a fondamento dell'azione cautelare, la doglianza circa la violazione del principio della domanda cautelare deve ritenersi infondata. 
3.2. È viceversa fondata la censura in punto di difetto di motivazione sulle ravvisate esigenze cautelari che il Tribunale ha individuato nel pericolo di recidiva, desumibile dall'estrema disinvoltura e dall'assenza di remore con la quale il ricorrente ha dato luogo alla condotta delittuosa e nel pericolo di inquinamento probatorio in considerazione della influenzabilità e fragilità psicologica della vittima, ampiamente desumibili dal contesto. 
È vero che il reato per il quale la misura è stata applicata e assistito da due presunzioni relative, rientrando nel novero di quelli per i quali le esigenze cautelari devono ritenersi presunte dalla legge (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.) e per i quali l'unica misura adeguata per la salvaguardia delle esigenze cautelari è la custodia cautelare in carcere. 
Tuttavia, il Tribunale ha considerato vincibile la seconda presunzione, ritenendo implicitamente l'esistenza di elementi specifici del caso concreto sulla base dei quali stimare che le esigenze cautelari potessero essere tutelate con misure di diverse della custodia cautelare in carcere ed ha elencato alcuni fatti specifici (regolare permesso di soggiorno, contratto di lavoro a tempo determinato) valorizzati per il criterio di scelta della misura, individuata negli arresti domiciliari, ma non ha spiegato, in presenza di tali elementi risultanti dagli atti, quale ricaduta essi avrebbero potuto o meno avere sulla insussistenza delle esigenze cautelari anche in relazione alla personalità del ricorrente, alla occasionalità o meno della condotta o alla ragione per la quale detti elementi potessero giustificare una misura meno gravosa, aspetto che deve ritenersi investito dal implicitamente gravame, che ha radicalmente contestato l'esistenza stessa delle esigenze cautelari. 
L'ordinanza va pertanto annullata con rinvio al Tribunale di Trento per nuovo esame su tali punti. 

P.Q.M. 

Annulla la ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Trento limitatamente alle esigenze cautelari.