martedì 27 agosto 2013

Femminicidio

Cassazione: bene inasprimento misure contro violenza, ma serve aggravante per reati commessi in presenza di minori

I Giudici della Corte di Cassazione, esaminando il testo del Decreto Legge contro il femminicidio recentemente approvato dal governo plaude all'inasprimento delle misure di contrasto alla violenza in genere. Il testo del decreto legge prevede infatti, tra le diverse cose, l'allontanamento dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi e' colto in flagranza di determinati reati se ci sono "fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l'integrita' fisica della persona offesa". 

Per la Suprema Corte però si può fare di più: bisognerebbe introdurre un'aggravante per il reato di stalking quando è commesso in presenza di minori. Si tratterebbe di una misura analoga a quella già prevista per i maltrattamenti commessi in presenza di minori.

Ricordiamo che il Decreto Legge ha introdotto anche diverse misure di prevenzione come quella di cui all'art. 3 che conferisce poteri di ammonimento al questore: "Nei casi in cui alle forze dell'ordine sia segnalato un fatto che debba ritenersi riconducibile al reato di cui all'articolo 582, secondo comma, del codice penale, consumato o tentato, nell'ambito di violenza domestica, il questore, anche in assenza di querela, puo' procedere, assunte le informazioni necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, all'ammonimento dell'autore del fatto". 

Il provvedimento prevede inoltre, all'art. 2, anche una serie di modifiche alcodice di procedura penale ed introduce l'irrevocabilità della querela. 

in materia di eccesso di velocità



«La decisione dei giudici del Palazzaccio apre nuovi scenari per molti processi in corso nella Marca» Multa con l’autovelox occultato? È una truffa contro gli automobilisti! Il sequestro dell’apparecchiatura è legittimo anche nel caso in cui risulti regolare. A sostenerlo non è un automobilista scornato dall’autovelox o un legale con perizie di parte, ma sono i giudici della Seconda sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza del 23 maggio 2013. «La decisione dei giudici del Palazzaccio apre nuovi scenari per molti processi in corso a Treviso. L’autovelox non può essere usato in maniera indiscriminata per fare cassa e violando le regole. Depositerò la sentenza della Cassazione in almeno tre processi che ho in corso...». Il caso esaminato dai giudici del Palazzaccio fa riferimento a una vicenda accaduta in provincia di Cosenza. La rilevazione della velocità effettuata con apparecchi autovelox che, sebbene in regola, erano stati posizionati in modo da non essere visti dagli automobilisti. Uno dei multati aveva presentato ricorso contro la decisione dei giudici del Riesame che aveva disposto restituzione di alcuni autovelox, sottoposti a sequestro preventivo dal gip.

sabato 24 agosto 2013

Indebita percezione di erogazioni a danno dello stato

Cassazione Penale, Sezione VI, 21 agosto 2013 (ud. 9 maggio 2013), n. 35220
Presidente De Roberto, Estensore Rotundo

Depositata il 21 agosto 2013 la pronuncia numero 35220 della sesta sezione penale della Suprema Corte relativamente alla natura del delitto di cui all’art. 316 ter c.p. (“Indebita percezione di erogazioni a danno dello stato”) a norma del quale è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni chiunque, salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis, mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee.
Nello specifico, i giudici di legittimità hanno ribadito che l’art. 316-ter c.p. è un reato di pericolo, configurabile anche “con la mera violazione di prescrizioni volte ad evitare l’adozione di sistemi che possano nascondere comportamenti fraudolenti a prescindere dalla prova di condotte di tal genere, che, se sussistenti, consentirebbero di ravvisare ulteriori figure criminose”.
In applicazione di tale principio, pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto integrato il reato dal conseguimento di pubbliche erogazioni sulla scorta di fatture falsamente quietanzate, sia perché attraverso tale meccanismo artificioso l’agente “otteneva un finanziamento sulla base di attività non realmente esplicate”, sia perché “il sistema adoperato non consentiva di verificare che le somme erogate dalla Regione fossero integralmente destinate alla realizzazione dell’opera prevista”.

lunedì 19 agosto 2013

Annunci hot non è reato

Cassazione: pubblicizzare annunci 'hot' non è un reato


La creatività nel business non ha limiti, e di questo se ne sono accorti anche i giudici della nostra Suprema Corte di Cassazione, nell'affrontar un ricorso presentato contro una società in provincia di Udine, estremamente creativa, appunto.

Il core business della società, fondata da due soci e proprietaria sin dal 2003 del sito web "bestannunci.it", consisteva nel vendere spazi pubblicitari a....prostitute e transessuali. Un mezzo per poter decantare le doti del prodotto in vendita, nulla di più semplice per dei pubblicitari di esperienza. Che proprio grazie alla loro professionalità erano riusciti a creare un bel giro di clienti, molto soddisfatti, in tutta Italia. Provvedendo anche a servizi di fotoritocco degni di un magazine patinato.

Peccato però che la genialità sia stata applicata in un campo leggermente minato, come quello della prostituzione. Così che i soci si sono visti contestare una serie non indifferente di reati; a partire da quelli di sfruttamento e favoreggiamento alla prostituzione (art. 3 e 4 legge 20 gennaio 1958), per chiudere con quello di ipotesi di partecipazione in associazione criminosa (art.416 comma 2 del codice penale) . Con sentenza dell'8/4/2011 il Giudice della udienza preliminare aveva respinto le accuse, non reputando che l'attività di promozione pubblicitaria, o di fotoritocco, potesse in qualche modo rientrare nelle tipologie di reati contestati. Insomma "la condotta di pubblicazione degli annunci non costituisce reato", pertanto il giudice "ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti degli imputati per difetto dell'elemento soggettivo del reato".

Contro la decisione del gup del Tribunale di Padova ha fatto però ricorso la Procura di Venezia. I giudici della Terza sezione penale, con sentenza 2038/4, non hanno fatto che confermare la decisione del gup, ribadendo il fatto che promuovere con pubblicità la prostituzione non significa rendersi complici o lucrare sull'attività di prostituzione. Sottolineando che "la pubblicazione di inserzioni pubblicitarie sui siti web, al pari di quelle sui tradizionali organi di informazione a mezzo stampa, deve essere considerata come un normale servizio in favore della persona". Licenziando anche qualsiasi dubbio a riguardo il reato di favoreggiamento, che come ribadiscono gli ermellini, si delinea soltanto quando alla pubblicazione di annunci "si aggiunga una cooperazione tra soggetto e prostituta, concreta e dettagliata, al fine di allestire la pubblicità della donna". La differenza dunque tra lecito e illecito sta proprio nel nel passare volutamente da una prestazione di servizi "ordinari (come quelli a solo scopo pubblicitario) a quella che potremmo definire come la prestazione di un supporto aggiuntivo e personalizzato".

Oltretutto le tariffe applicate erano in linea con il mercato!

(StudioCataldi.it) 

Depenalizzazione responsabilità medica

Un'autentica primizia. Depositata il 30 gennaio 2013 dalla Quarta Sezione della Cassazione Penale - Pres. Carlo Brusco, Est. Rocco Blaiotta, Procuratore Generale il Dr. Vito D'Ambrosio - la primissima decisione (la sentenza n. 268/2013 emessa alla pubblica udienza del 29.1.2013) che applica la nuova legge n. 189 dell'8 novembre 2012sulla depenalizzazione della colpa medica lieve 
Il Collegio degli Ermellini, muovendo dall'art. 2 c.p. (successione di leggi penali e legge più favorevole al reo), ha così annullato con rinvio la condanna per omicidio colposo a carico di un chirurgo che aveva provocato la morte del paziente per la lesione di vasi sanguigni, con conseguente emorragia letale; ciò era accaduto in occasione di un intervento di ernia discale recidivante. 
La questione ritorna ora al giudice del merito per verificare se esistano linee guida o pratiche mediche accreditate e più note della specialità scientifica afferenti la tipologia di atto chirurgico, onde stabilire se si tratti di colpa lieve o grave. 
Sarà così possibile acclarare se il medico chirurgo si sia attenuto a tali direttive. 
In realtà, nell'ordinamento giuridico italiano - nella sede penale non sussiste nessuna differenza fra colpa lieve e colpa grave: tale dicotomia riveste rilievo al più quale criterio per la determinazione della pena o come circostanza aggravante: MAI per determinare l'elemento soggettivo del delitto. 
A titolo esemplificativo, l'art. 133 del Codice Penale - intitolato gravità del reato: valutazione agli effetti della pena - impone al giudice, nell'esercizio del potere discrezionale attribuito dal precedente art. 132, di tener conto della gravità del reato desumibile ...dall'intensità del dolo o dal grado della colpa
Studio Cataldi ha già affrontato a prima lettura la problematica della parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti la professione sanitaria con la news pubblicata il 20 novembre 2012, cui rimandiamo.

(StudioCataldi.it) 

venerdì 16 agosto 2013

Matrimoni strategici

Il matrimonio con un’italiana salva il clandestino dall’espulsione.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 24 giugno – 29 luglio 2013, n. 32859
Presidente Siotto – Relatore Bonito

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

1. Con sentenza pronunciata il 20 dicembre 2011 il Giudice di pace di Rapallo condannava A.L. , imputato del reato di cui all'art. 10-bis d.lgs. 286/1998, alla pena di Euro 5000,00 di ammenda. Motivava il giudice territoriale che l'imputato era stato controllato dagli organi di polizia sul territorio dello Stato, il (omissis), senza essere in possesso di documenti validi per il soggiorno in Italia e che tanto integrava il reato contestato.
2. Avverso la sentenza detta ricorre per cassazione l'imputato, assistito dal difensore di fiducia, denunciandone l'illegittimità per violazione di legge e difetto di motivazione, in particolare deducendo che, al momento del controllo di polizia, grazie all'intervento recentissimo del giudice delle leggi che ha rimosso i relativi ostacoli normativi, l'imputato si accingeva a contrarre matrimonio con la cittadina italiana L..P. , matrimonio in effetti contratto il (omissis) , come da estratto dell'atto di matrimonio allegato al ricorso.
Di qui la ricorrenza nella fattispecie della causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p., e cioè l'esercizio del diritto a contrarre matrimonio.
Col secondo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente la incompatibilità della norma incriminatrice con la direttiva Europea 2008/115/CE.
3. Il ricorso è fondato nel suo primo motivo di impugnazione, assorbente di ogni altra censura.
Ed invero le circostanze richiamate dalla difesa a sostegno delle conclusioni assolutorie risultano documentalmente provate e tali erano anche nel processo di prime cure.
Al momento del controllo di Polizia, il 26 agosto 2011, l'imputato era infatti in procinto di sposare una cittadina italiana, come provato dalle anteriori pubblicazioni di rito, matrimonio in effetti poi contratto il (omissis) successivo.
Posto che il matrimonio con una cittadina italiana avrebbe consentito all'imputato la legittima permanenza nel nostro Paese, come dimostrato dal permesso di soggiorno per questo rilasciato in suo favore dal Ministero degli interni l'8 gennaio 2012, in ragione proprio dell'intervenuto vincolo matrimoniale con la cittadina italiana P.L. , il riconoscimento di tale circostanza appare decisivo ai fini di causa.
Ciò premesso legittimo e fondato appare pertanto il richiamo difensivo alla norma di cui all'art. 51 c.p. e cioè all'esimente dell'esercizio di un diritto, quale deve ritenersi, senza tentennamenti interpretativi, quello di contrarre matrimonio, nella fattispecie idoneo a scriminare la punibilità della condotta contestata, giacche l'imputato si trovava nel nostro Paese al fine di esercitare il diritto a contrarre matrimonio con una cittadina italiana, con serietà di intenti dimostrata dal successivo comportamento.
In altri termini, il cittadino extracomunitario che ha fatto ingresso e si trattiene nel territorio italiano al fine di esercitare un diritto riconosciuto dall'ordinamento, non viola l'art. 10-bis d.lgs. 286/1998 anche se non in possesso dei documenti validi per tale ingresso e successivo trattenimento.
4. La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

P.T.M.

la Corte, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

lunedì 12 agosto 2013

In caserma ....

Sentenza: Brigadiere dei Carabinieri si appropria di un fucile che viene lasciato in caserma da un privato per la rottamazione.


Cassazione penale sez. VI 
Data: 
18/07/2013 ( ud. 18/07/2013 , dep.30/07/2013 ) 
Numero: 
33138 



Intestazione 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
SEZIONE SESTA PENALE 
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 
Dott. AGRO' Antonio - Presidente - 
Dott. IPPOLITO Francesco - Consigliere - 
Dott. PAOLONI Giacomo - Consigliere - 
Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere - 
Dott. DI STEFANO Pierluig - rel. Consigliere - 
ha pronunciato la seguente: 
sentenza 
sul ricorso proposto da: 
L.O. n. (OMISSIS); 
avverso la sentenza n. 239/2010 del 16/4/2012 della CORTE DI APPELLO
DI LECCE; 
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; 
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PIERLUIGI DI STEFANO; 
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. CARMINE STABILE 
che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso. 
Udito il difensore avv. GIANFREDA CATALDO che ha chiesto 
l'accoglimento del ricorso. 



Fatto 
MOTIVI DELLA DECISIONE 

La Corte di Appello di Lecce con sentenza del 16 aprile 2012 confermava in punto di responsabilità e di pena la sentenza del tribunale di Brindisi che il 28 maggio 2009 condannava L.O., brigadiere dei carabinieri, per essersi appropriato di un fucile consegnatogli presso la stazione carabinieri da un privato per la successiva rottamazione. Risultava accertato che il proprietario del fucile consegnava l'arma all'imputato perchè venisse rottamata, come da verbale di acquisizione da cui risultava che la stessa doveva essere custodita temporaneamente nell'armeria della stazione Carabinieri per il successivo invio all'organo militare competente per la distruzione. Risultava altresì accertato come il soggetto cui L. aveva ceduto l'arma ne aveva poi regolarmente denunziato il possesso. In risposta agli argomenti della difesa, che contestava sia che l'arma fosse divenuta proprietà dell'amministrazione che, comunque, la sussistenza di dolo, la Corte osservava che risultava inequivocabilmente dalla stessa documentazione redatta dal ricorrente come vi fosse una acquisizione dell'arma da parte della amministrazione e come l'ex proprietario avesse chiaramente inteso cedere l'arma per la rotta inazione e non donarla a terze persone. 

Contro tale sentenza propone ricorso L.O. con atto a firma del proprio difensore. Con primo motivo deduce la violazione di legge sostanziale e processuale. Rileva che la condanna è intervenuta per fatto diverso da quello contestato, essendo indicato nel capo di imputazione quale proprietario il privato; che è configurarle tutt'al più il reato di cui all'art. 351 cod. pen.; che la cosa non ha apprezzabile valore economico. Con secondo motivo deduce il vizio di motivazione non avendo la Corte dimostrato che il ricorrente non fosse incorso in un errore sul fatto. Ritiene che sia emersa la prova della buona fede e di un mero errore. Con terzo motivo deduce violazione legge penale processuale per non essere stata corretta la data di consumazione del reato come già richiesto ai giudici di merito. 

Il ricorso è infondato. 

Quanto al primo motivo, si osserva che la possibile erroneità nel capo di imputazione nell'individuare chi dovesse ritenersi nel dato momento il proprietario dell'arma ha poco rilievo in quanto, anche laddove l'arma dovesse essere ritenuta del privato, in quel momento era affidata alla Amministrazione per la successiva rotta (nazione e, quindi, ricorreva comunque la condizione di disponibilità di cosa mobile altrui per ragione del proprio ufficio. Del resto, risulta in fatto dalla sentenza come la arma non fosse certamente affidata informalmente al ricorrente ma fosse stato redatto uno specifico verbale di consegna con conseguente passaggio dell'arma nella responsabilità dell'Amministrazione. E, in concreto, in alcun modo risulta che la eventualmente erronea indicazione nel capo di imputazione si sia riverberata sull'imputato, la cui difesa, mirata ad escludere l'appropriazione e/o il relativo dolo, prescinde dal dato della proprietà del bene che era, comunque, in possesso della Amministrazione. 

Quanto detto risolve anche il tema sollevato dalla difesa sulla configurabilità del diverso reato di cui all'art. 351 cod. pen. (violazione di pubblica custodia di cose). E' vero che la cosa risultava in "pubblica custodia" ma il reato di cui all'art. 351 cod. pen. ricorre quando il soggetto che commette l'appropriazione sia un privato, essendo la fattispecie posta nel capo secondo del codice, relativo ai delitti dei "privati" contro la pubblica amministrazione. 

Laddove la sottrazione la cosa in pubblica custodia sia commessa dal pubblico ufficiale che ne abbia la disponibilità, come nel caso in esame, ricorre il peculato. 

Il secondo ed il terzo motivo sono di contenuto generico, non individuando uno specifico vizio rilevante. 
PQM 
P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. 

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 luglio 2013. 

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2013 

sabato 10 agosto 2013

Non si può nemmeno più vincere alla lotteria

Sentenza: Vince al 10 e lotto, ma non convince i magistrati sulla provenienza lecita delle somme.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 aprile – 29 luglio 2013, n. 32812 
Presidente Teresi – Relatore Graziosi 

Ritenuto in fatto 

1. Con ordinanza del 7 giugno 2012 il Tribunale di Milano ha respinto richiesta di riesame avanzata da M.L. - indagata per reati di cui agli articoli 81 cpv., 110 c.p., 12 quinquies d.l. 306/1992 - contro decreto del gip dello stesso Tribunale del 28 aprile 2012 che aveva disposto sequestro preventivo di un conto corrente bancario ai sensi degli articoli 321 ss. c.p. e 12 sexies d.l. 306/1092, ritenendo che su di esso fossero stati trasferiti fondi illeciti. 
2. Ha presentato ricorso il difensore, denunciando violazione di legge in rapporto all'articolo 12 sexies d.l. 306/1992 per mancata valutazione del fumus commissi delicti e del periculum, nonché violazione dell'articolo 125 c.p.p. sempre in ordine ai presupposti della cautela. 

Considerato in diritto 

3. Il ricorso è infondato. 
La ricorrente espone in modo unitario il contenuto delle sue doglianze, le quali parimenti possono essere vagliate in modo unitario. In sostanza, il Tribunale è censurato per non avere tenuto conto degli elementi probatori correlati alle argomentazioni difensive per provare l'insussistenza dei presupposti della cautela. In particolare, la difesa aveva prodotto, per dimostrare che il denaro che si trovava sul conto corrente non derivava da traffici illeciti bensì da una vincita al concorso 10 e Lotto, le ricevute del concorso, l'autorizzazione all'incasso rilasciata alla banca convenzionata (Intesa San Paolo) e le richieste di successivo bonifico sul proprio conto corrente; e per dimostrare che poteva permettersi di partecipare al concorso con denaro proprio, la ricorrente aveva altresì prodotto lettera di licenziamento per attestare che all'epoca aveva un lavoro. Su questi aspetti la motivazione sarebbe apparente e illogica. Premesso che il vizio motivazionale, ai sensi dell'articolo 325, primo comma, c.p.p., in questa sede può farsi valere esci usi va mente come violazione di legge, e che effettivamente la ricorrente ha invocato l'articolo 125 c.p.p. come violato, deve peraltro riconoscersi che non corrisponde al vero che il Tribunale non abbia adeguatamente considerato la suddetta documentazione. Al riguardo, infatti, offre una motivazione, che può essere nel merito condivisibile o meno, ma che sul piano valutabile in sede di legittimità, cioè quello logico-giuridico, non è viziata, né può qualificarsi apparente. Il Tribunale, infatti, ritiene che l'avere la ricorrente acquistato nella stessa giornata 14 scontrini di Euro 200 ciascuno e giocato nello stesso concorso per 14 volte gli stessi numeri, essendo dipendente dal convivente (che era al centro dell'attività criminosa da cui è sortita anche l'incolpazione dell'indagata), sia stata "una messa in scena", essendo le vincite irrealistiche e anomale e non essendo sufficienti per dimostrarle i documenti prodotti dalla difesa, che il giudice di merito ha ritenuto "costruiti ad arte" dall'indagata e dal suo convivente "per nascondere un trasferimento di fondi illeciti dal secondo alla prima". Non vi è dunque violazione dell'articolo 125 c.p.p.; né, tantomeno, violazione di legge in relazione all'accertamento del fumus commissi delicti, trattandosi in realtà di una questione di merito, in questa sede non presentabile in versione alternativa, che il giudice ha sorretto con una motivazione reale e logica. Riguardo poi al periculum, poiché l'ordinanza deve essere recepita nella sua completezza motivazionale, pure tale doglianza non è fondata, avendo inequivocamente illustrato tale aspetto il giudice di merito laddove ha richiamato l'evidenziazione del pm dell'utilizzo dei conti correnti bancari e postali nell'attività criminosa in questione (conti infatti "funzionali da un lato all'attività quotidiana di prelievo e bonifico necessaria per la realizzazione delle frodi fiscali e dall'altra all'attività di reinvestimento e reimpiego degli utili illecitamente acquisiti, da nascondere attraverso intestazioni fittizie": motivazione, pagina 1). 
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

Cyber razzismo

Sentenza: Odio razziale su internet. Gruppo di estrema destra nazionalsocialista. Il Giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione anche se il sito web è registrato all'estero.

PENALE e PROCESSO Associazione per delinquere
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 24 aprile - 31 luglio 2013, n. 33179 
Presidente Teresi – Relatore Rosi 

Ritenuto in fatto 

1. Il Tribunale di Roma, quale giudice del riesame, con ordinanza del 5 dicembre 2012 ha confermato l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in data 9 novembre 2012 nei confronti di S.D., indagato, in concorso con altri, per il reato di cui all'art. 3, c. 3 legge n. 654 del 1975, per avere concorso nella promozione e direzione di un gruppo, caratterizzato da una vocazione ideologica di estrema destra nazionalsocialista, avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione ed alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi, e attraverso la sezione italiana del blog del sito web (omissis), con l'impiego di pseudonimi atti a mascherare la identità dei compartecipi, alla commissione di più delitti di diffusione di idee "on line" e tramite volantinaggio, fondate sulla superiorità della razza bianca, sull'odio razziale ed etnico; e per il reato di cui al medesimo articolo, relativamente alla diffusione di idee fondate sull’odio razziale ed etnico. 
2. Avverso tale pronuncia il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del proprio difensore, chiedendo l'annullamento dell'ordinanza per i seguenti motivi: 1) inosservanza od erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche, in quanto risulta violato l'art. 9, c. 2 c.p., in quanto si tratterebbe di reato commesso da cittadino italiano all'estero, per la cui procedibilità è necessaria la richiesta del Ministro della giustizia, atteso che il sito internet è di proprietà statunitense e la legge di quella Nazione consente anche la diffusione di idee razziste in nome della libertà di espressione; 2) Inosservanza ed erronea applicazione anche dell'art. 3 c. 3 della legge contestata, in quanto l'indagato quale coordinatore di un forum o blog si limitava, al pari di un direttore o redattore di una pubblicazione di carta stampata ad organizzate il sito e le sue adesioni, ammettendo gli articoli degli aderenti ed i commenti dei visitatori del sito, su delega del proprietario statunitense, senza che vi fosse alcuna struttura al di fuori del sito internet, dotata dei requisiti di stabilità necessari alla configurazione del reato; sarebbe quindi una forzatura giuridica ritenere che l'attività di un organizzatore di un sito internet con finalità razziste possa coincidere con quella dell'organizzatore dell'associazione a delinquere tipizzata sulla norma; 3) Inosservanza dell'art. 275 c. 2 bis c.p.p., in quanto l'indagato è incensurato e quindi avrebbe diretto eventualmente in caso di condanna al beneficio della sospensione condizionale della pena; 4) Omessa motivazione in ordine alla richiesta di sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari. 
3. Con memoria aggiuntiva, la difesa ha insistito sull'eccezione di incompetenza territoriale del reato contestato, atteso che il sito internet operante negli USA è costituita da tempo in territorio estero, mentre solo alcuni dei reati fine sarebbero stati commessi in Italia, e non è presente agli atti la richiesta del Ministro per procedere ex art. 9 c. 2 c.p.. 

Considerato in diritto 

1. Il ricorso è infondato. È bene innanzitutto ribadire che l'ambito del controllo che la Corte di Cassazione esercita in tema di misure cautelari non riguarda la ricostruzione dei fatti, né le vantazioni, tipiche del giudice di merito, sull'attendibilità delle fonti e la rilevanza e/o concludenza dei dati probatori, né la riconsiderazione delle caratteristiche soggettive delle persone indagate, compreso l'apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate: tutti questi accertamenti rientrano nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata richiesta l'applicazione della misura cautelare e del tribunale del riesame. Il giudice di legittimità deve invece verificare che l'ordinanza impugnata contenga l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che hanno sorretto la decisione e sia immune da illogicità evidenti: il controllo investe, in sintesi, la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (in tal senso, Sez. 6, n. 3529 dell'1/2/1999, Sabatini, Rv. 212565; Sez. 4, n. 2050 del 24/10/1996, Marseglia, Rv. 206104). In particolare, il controllo di legittimità in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle (misure non può riguardare l'apprezzamento del giudice di merito sulle condizioni soggettive dell'imputato, per cui non sono consentite le censure, che pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate. 
2. L'ordinanza oggetto della presente impugnazione è sorretta da logica e corretta argomentazione motivazionale e risponde a tali due requisiti, né sussistono le lamentate errate applicazioni della legge penale e processuale. 
3. Deve innanzitutto essere dichiarata l'inammissibilità del primo motivo. Infatti anche nell'ambito del ricorso per cassazione contro provvedimenti "de libertate" vige il principio generale delle impugnazioni, concernente la necessaria connessione tra i motivi originariamente proposti e i motivi nuovi (cfr. Sez. 1, n. 46711 del 14/7/2011, dep. 19/12/2011, Colitti, Rv. 251412) e tra i motivi proposti innanzi al Tribunale del Riesame non è stata eccepita la mancanza di giurisdizione dei giudici italiani in relazione al fatto di cui trattasi, questione che sarebbe stata peraltro manifestamente infondata, come desumibile dalle argomentazioni che saranno spese in risposta agli altri motivi. 
4. Per quanto attiene al secondo motivo di ricorso, relativo alla configurabilità del reato di cui all'art. 3 comma 3 legge n. 654 del 1975, va ricordato che in esecuzione del vincolo internazionale conseguente alla firma della Convenzione internazionale di New York, sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, il legislatore italiano ha punito come delitto la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale, nonché l'incitamento a commettere atti di discriminazione o di provocazione alla violenza nei confronti di persone perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale (art. 3, comma 1, lett. a) e b, poi modificato del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con L. 25 giugno 1993, n. 205, nonché dalla L 24 febbraio 2006, n. 85, art. 13, con la sostituzione delle condotte indicate in quelle di propaganda ed incitamento). È stato affermato (cfr. Sez. 3, n. 37581 del 7/5/2008, dep. 3/10/2008, Mereu, Rv. 241073) che la norma incriminatrice di cui alla ripetuta L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, comma 1, lett. a) limitatamente alle ipotesi della propaganda e della istigazione configura un reato di pura condotta, consistente nella propaganda razzista o nella istigazione a commettere atti di discriminazione razzista, che si perfeziona indipendentemente dalla circostanza che la propaganda o la istigazione siano raccolte dai destinatari. Ed è anche delitto con dolo generico, integrato dalla mera coscienza e volontà di propagandare idee razziste o di istigare alla discriminazione razzista, giacché la norma non richiede nell'agente uno scopo eccedente rispetto all'elemento materiale del reato (propaganda o istigazione di tipo razzista). La propaganda si qualifica come diffusione di messaggi volta a influenzare le idee e i comportamenti dei destinatari, e la stessa è tanto più; efficace quanto più si affida alle nuove tecnologie di comunicazione, quali i social network o i siti web. 
5. Il reato associativo di cui all'art. 3 comma 3 della medesima legge, come novellato dalla L. 25 giugno 1993, n. 205, che vieta la partecipazione, la promozione e la direzione di organizzazioni aventi come scopo l'incitamento alla discriminazione e alla violenza di tipo razziale, è stato già esaminato dalla giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto che fosse infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata per contrasto con l'art. 21 Cost., atteso che l'incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione a una condotta (la discriminazione e la violenza razzista) e quindi realizza un quid pluris rispetto alla mera manifestazione di opinioni personali (cfr. Sez. 5, n. 31655 del 24/1/2001, Ganglio, Rv. 220022). Il principio vale non solo per le organizzazioni razziste, ma anche per quelle che vogliono diffondere idee con intenzionalità razziste, perché la libertà di manifestazione del pensiero e quella di associazione cessa quando travalica in istigazione ed incitamento alla discriminazione e alla violenza di tipo razzista. 
6. In relazione alla fattispecie della quale il ricorrente contesta la sussistenza, è di interesse richiamare la posizione della giurisprudenza di legittimità sulla nozione di “comunità virtuale in internet” e sulla sua idoneità strutturale a configurare la fattispecie associativa (a tale proposito si veda Sez.3, n. 8296 del 3/3/2005, Ongari, Rv 231243), dove i requisiti di stabilità e di organizzazione sono stati rinvenuti nella regolamentazione delle comunicazioni sul web, dettata dal responsabile e l'elemento soggettivo della partecipazione all'associazione, nel fatto che gli aderenti al gruppo fossero edotti e condividessero le finalità del gruppo stesso. Infatti, il minimum organizzatolo necessario ad integrare l'associazione a delinquere, nelle diverse sfaccettature analizzate dalla giurisprudenza, si modula in maniera specifica per le realtà associative cd. "in rete", le quali utilizzano le nuove tecnologie, privilegiando l'uso di blog, chat o virtual communities in internet, non potendosi per tali strutture ricercare quella fisicità di contatti tra i partecipi, tipica dell'associazione a delinquere di tipo, per così dire, classico. 
7. Quindi ben può essere affermato il principio che costituisce un'associazione a delinquere finalizzata all'incitamento ed alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi, anche una) struttura quale quella evidenziata agli atti, la quale utilizzava la gestione del blog per tenere i contatti tra gli aderenti, fare proselitismo, anche mediante diffusione di documenti e testi inneggianti al razzismo, programmare azioni dimostrative o violente, raccogliere elargizioni economiche a favore del forum, censire episodi o persone ("traditori" e "delinquenti italiani”, perché avevano operato a favore dell'uguaglianza e dell'integrazione degli immigrati). Pertanto correttamente il tribunale del riesame ha ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico dell'indagato, in ragione della sua veste di organizzatore del sito italiano e di moderatore del blog. 
8. Sono pertanto infondati i rilievi svolti dalla difesa sul punto della pretesa assimilazione dello S. ad un direttore di giornale, e della sua non responsabilità per i contenuti delle comunicazioni scambiate attraverso il blog, (tra l'altro proprio questa Sezione ha chiarito che il blog non rientra nella definizione di "stampato" previsto dall'art. 1 della L. 47/48 con la sentenza n.23230 del 10/5/2012). 
9. D'altra parte, e per completezza, va precisato che nessun rilievo può essere attribuito al fatto che il sito internet-madre sia stato da tempo costituito all'estero ed ivi operi su un server estero. È principio consolidato che nei reati associativi, per determinare la sussistenza della giurisdizione italiana occorre verificare soprattutto il luogo dove si è realizzata, in tutto o in parte, l'operatività della struttura organizzativa, mentre va attribuita importanza secondaria al luogo in cui sono stati realizzati i singoli delitti commessi in attuazione del programma criminoso, a meno che questi, per il numero e la consistenza, rivelino il luogo di operatività del disegno. L'art. 6 c.p. sintetizza l'interesse dello Stato a punire coloro che, in qualche modo, abbiano posto in essere una attività illecita che abbia violato le norme penali, attribuendo così valenza espansiva ad una frazione di attività commessa nel territorio dello Stato anche da taluno che partecipi al sodalizio, in modo che l'applicazione della norma penale si estenda a tutti i compartecipi ed a tutta l'attività criminosa dovunque realizzata (cfr. Sez.6, n. 4378 del 7/11/1997, dep. 25/3/1998, Cao Len Huot, Rv. 210812). Infatti la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose facenti capo al sodalizio, ossia il luogo ove si sia manifestata l'operatività dell'associazione, piuttosto che il luogo in cui si è radicato il pactum sceleris (Così Sez. 2, n. 22953 del 16/05/2012, dep. 12/6/2012, Rv. 253189 e conforme, tra le tante, Sez. 1, n. 45388 del 7/12/2005, dep. 14/12/2005, Rv. 233359) e "quando non sia chiaro il luogo in cui l'associazione opera o abbia operato e non sia possibile far ricorso al luogo fili consumazione dei reati-fine, trovano applicazione i criteri suppletivi dell'art. 9 c.p.p." (cfr. Sez. 5, n. 2269 del 12/12/2006, dep. 23/1/2007, Rv. 236300). 
10. Nel caso di specie, va richiamato un precedente con il quale questa Corte ha affermato che il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l'inserimento nella rete telematica Internet di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all'estero, purché l'offesa sia stata percepita da fruitori che si trovino in Italia (cfr. Sez. 5, n. 4741 del 17 novembre 2000, dep. 27 dicembre 2000, proc. contro ignoti, non mass.). Anche nel caso di specie le attività poste in essere dall'indagato e gli altri, volti ad attività da svolgersi in Italia (fare proselitismo tra gli utenti italiani del sito ed ad istigare atti dimostrativi nel territorio italiano) incardinano senza ombra di dubbio la giurisdizione penale italiana. 
11. Per quanto attiene al terzo motivo, l'ampia motivazione dell'ordinanza impugnata in punto di sussistenza delle esigenze cautelari, unitamente alla valutazione della "altamente negativa personalità" dello S. , escludono la possibilità di una prognosi che contenga la pena nei limiti necessari alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, per cui l'ordinanza risulta immune dal lamentato vizio di errata applicazione di legge. 
12. Anche il quarto motivo è infondato avendo il Tribunale fornito congrua motivazione circa le ragioni per le quale la custodia cautelare in carcere fosse l'unica misura adeguata in relazione alle riconosciute esigenze cautelari (peraltro nel frattempo la misura cautelare custodiale è stata sostituita dal giudice procedente con quella degli arresti domiciliari). 
Il ricorso deve pertanto essere rigettato ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p..

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

giovedì 8 agosto 2013

Per Moggi i processi non finiscono mai


Calciopoli. Per la Cassazione il ricorso di Moggi è inammissbile. Confermata quindi la radiazione collegata all'inchiesta.

Giovedì 8 Agosto 2013, 23.19

Per la Cassazione il ricorso di Moggi è inammissbile.

Medici poco scrupolosi

Sentenza: Un medico modifica la data di centinaia di impegnative di prestazioni sanitarie. Non è falso grossolano se per accertare il fatto sono stati necessari accertamenti presso il sistema informatico dell'ASL.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 13 giugno - 26 luglio 2013, n. 32769 
Presidente Palla – Relatore Settembre 

Ritenuto in fatto 

1. La Corte d'appello di Lecce, con sentenza del 7/6/2012, in parziale riforma di quella emessa dal Tribunale di Casarano, ha condannato L.C.M. a pena di giustizia per la falsificazione materiale di varie centinaia di impegnative di prestazioni sanitarie, emesse dai medici curanti di altrettanti pazienti. 
Secondo l'accusa il L. , medico specialista in odontostomatologia che, con contratti stipulati annualmente con l'ASL di Lecce, si era impegnato ad erogare prestazioni relative alla sua branca in regime di convenzionamento, alterò le impegnative suddette, modificandone la data, per ottenere il pagamento delle prestazioni nonostante il superamento del tetto annuale convenzionalmente pattuito. 
2. Contro la sentenza suddetta hanno proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputato, l'avv. Viola Messa, e, nell'interesse dell'ASL di Lecce, costituita parte civile, l'avv. Riccardo Giannuzzi. 
2.1. L'avv. Messa, per l'imputato, si duole dell'erronea applicazione dell'art. 192 cod.proc.pen. in relazione all'art. 476 cod. penale. Lamenta che la Corte d'appello abbia escluso la ricorrenza del falso grossolano con motivazione inadeguata, laddove ha fatto riferimento alla necessità di ricorrere, per l'accertamento della falsità, al sistema informatico della ASL, mentre questo era servito solo per risalire alla data originaria delle impegnative. 
Lamenta poi che la Corte di merito abbia escluso la ricorrenza del falso innocuo con motivazione contraddittoria e non abbia svolto alcuna indagine per verificare la idoneità della falsificazione a porre in pericolo l'interesse protetto, rappresentato sia dalla pubblica fede che dagli "specifici interessi concreti direttamente riferibili al soggetto passivo", e quindi se le modifiche apportate al documento fossero in grado di determinare una immutatio veri penalmente rilevante. Tale indagine si imponeva, aggiunge, perché le "impegnative" rilasciate dai medici curanti venivano prese in considerazione esclusivamente attraverso il codice a barre su di esse apposto, e quindi la falsificazione della data non era idonea ad ingannare la ASL (motivo per cui, aggiunge ancora, l'imputato è stato assolto dai tentativi di truffa pure a lui contestati). 
2.2. L'avv. Giannuzzi, per l'ASL di Lecce, lamenta l'erronea applicazione dell'art. 585 cod. pen. e il vizio di motivazione in tema di quantificazione del danno morale liquidato. Deduce che la Corte di merito ha omesso di indicare i parametri di determinazione del danno ed ha adottato una motivazione generica e di stile e, seppur rimarcando la gravità della condotta, ha effettuato una liquidazione "irrisoria" in considerazione della durata della condotta antigiuridica e del numero delle impegnative contraffatte. 

Considerato in diritto 

Entrambi i ricorsi sono infondati. 
1. L'imputato si duole del fatto che non sia stato riconosciuto il falso grossolano, né il falso innocuo, con argomenti che non possono essere condivisi. 
1.1. Per costante giurisprudenza, in tema di falso documentale, il falso grossolano è quello intrinsecamente e irrimediabilmente inidoneo a ledere o mettere in pericolo la pubblica fede, siccome realizzato con modalità percepibili ictu oculi e senza bisogno di speciali accertamenti da parte di chicchessia (ex multis, Cass. Pen., 31-12-2005, Mauri). 
Tale carattere è stato motivatamente escluso, nello specifico, dal giudice di merito, il quale ha rilevato che le "impegnative" erano state corrette nella data di emissione mediante operazioni di cancellatura del timbro a umido e sovrascrittura e/o aggiunta a penna di tratti inchiostrati dell'ultima cifra e che i militari del Ra.C.I.S. avevano accertato l'alterazione delle date suddette attraverso "esami strumentali" (pag. 3). Ha poi aggiunto che la data reale non era rilevabile dal documento e che per accertare la stessa "è stato necessario acquisire il dato proveniente dal sistema informatico" della ASL (pag. 4). Tanto basta ad escluderei la grossolanità lamentata, giacché il ricorso agli "esami strumentali" rende evidente che il falso non era affatto percepibile ictu oculi e che molti potevano essere ingannati dall'apparenza dei documenti. 
Non coglie nel segno quindi, la critica del ricorrente, che centra l'attenzione sull'ultima notazione della Corte di merito e tralascia di considerare che la grossolanità è stata esclusa in radice dal giudicante, il quale ha piuttosto fermato l'attenzione sulla "innocuità" del falso, pure sostenuta nell'atto d'appello, per escluderla motivatamente. D'altra parte, va pure considerato che, ai fini dell'esclusione della punibilità per inidoneità dell'azione ai sensi dell'art. 49 cod. pen., occorre che appaia in maniera evidente la falsificazione dell'atto e non solo la sua modificazione grafica. Pertanto, le abrasioni e le scritturazioni sovrapposte a precedenti annotazioni non possono considerarsi, di per sé e senz'altro, un indice di falsità talmente evidente da impedire la stessa eventualità di un inganno alla pubblica fede, giacché esse possono essere o apparire una correzione irregolare, ma non delittuosa, di un errore materiale compiuto durante la formazione del documento alterato dal suo stesso autore (ex multis, Cass. Pen., 2/12/2011, n. 3711). 
1.2. Immune da censure è anche la vantazione, operata dai giudici di merito, in tema di irrilevanza (o "non innocuità") del falso perpetrato dall'imputato. 
Sussiste, invero, il falso innocuo allorché la falsità, pur se astrattamente idonea ad ingannare il pubblico, risulta però inoffensiva, stante la concreta inidoneità ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati (Cass., SU, 25/10/2007, Pasquini, in motivazione). Più in particolare, in tema di falso documentale, in giurisprudenza la falsità è stata ritenuta innocua o irrilevante quando l'alterazione o contraffazione del documento sia irrilevante ai fini del significato dell'atto o del suo valore probatorio (Cass., 21-4-2010, Immordino; Cass., 19/6/2008, Rocca; Cass., 22/1/2010, De Vincenzi). 
Tale caratteristica è senz'altro da escludere nel caso di specie, sia per il motivo ritenuto dalla Corte d'appello che per motivi ulteriori. La falsificazione ha riguardato, invero, un elemento fondamentale delle "impegnative" (la data), in base a cui maturava il diritto al pagamento ed era possibile stabilire se il dr. L. avesse o meno superato, in ogni anno, il tetto convenzionalmente stabilito di prestazioni, con la conseguenza che la sua modifica faceva apparire come dovuti gli emolumenti maturati in relazione ad esse. Si è trattato, pertanto, di una modifica rilevante per il significato dell'atto e per il suo valore probatorio, con la conseguenza che di "innocuità" non è proprio possibile parlare. Né ha rilievo il fatto che l'ASL si fosse attrezzata per rilevare il codice a barre presente sulle ricette, giacché si tratta di precauzione adottata dall'ente erogatore che non impediva, in circostanze particolari, di dar corso ai pagamenti sulla base delle indicazioni provenienti dall'atto falsificato (distrazione dell'operatore, malfunzionamento del sistema informatico, perdita dei dati informatici, scelta di un diverso modus operandi, ecc.). E ciò senza contare che non possono essere le precauzioni adottata dai contro interessati a rendere innocua, in materia di falso, l'attività, conforme al modello legale, perpetrata dagli autori del reato, giacché ciò che rende veramente innocua l'attività falsificatrice è la sua totale e originaria inidoneità a mettere in pericolo la pubblica fede. 
Ugualmente decisivo è poi il rilievo, espresso dalla Corte d'appello, che l'innocuità non deve essere valutata in relazione all'uso che dell'atto venga fatto, giacché la funzione dell'atto (specie quello pubblico) è di attestare i dati in esso indicati, sicché ogni modifica dell'atto che comporti un'alterazione del suo significato logico o letterale porta fuori del campo dell'innocuità e resta penalmente rilevante (Cass. Pen., 23-1-2008, n. 3564; Cass. Pen., 21-4-2010, n. 35076; Cass., 27-9-2011, n. 34901). 
2. Infondato è anche il ricorso della ASL, che si duole dell'ammontare del risarcimento ad essa riconosciuto. In realtà, trattasi di determinazione equitativa del danno, di natura morale, che non è collegata ad un accertato danno patrimoniale e che deve necessariamente sopportare, per questo, una determinazione equitativa, sicché il giudice non è tenuto ad una analitica motivazione, essendo sufficiente che egli dia conto dei profili pregiudizievoli apprezzati e di tutte le circostanze che hanno condotto alla conclusiva determinazione equitativa dell'indennizzo, e dovendo tale sua conclusiva determinazione al riguardo essere valutata solo sotto il profilo della intrinseca ragionevolezza del risultato cui è pervenuto, come nella specie è adeguatamente e congruamente riscontrabile. Del resto, a parte il generico riferimento alla gravità del reato, nemmeno la ricorrente è stata in grado di addurre circostanze idonee a rappresentare o solo ipotizzare voci di danno obbiettivamente apprezzabili, trattandosi di attività illecita che si è risolta nel rapporto interpersonale e non ha causato danni - collegati alla pubblicità della vicenda - incidenti sull'immagine dell'Ente. 
Entrambi i ricorsi vanno pertanto rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti singolarmente al pagamento delle spese processuali.