domenica 22 settembre 2013

Mai urinare per strada ?

400 euro di multa ad un cittadino di colore che urina davanti la recinzinoe delimitante un palazzo. La Cassazione annulla.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 giugno – 16 settembre 2013, n. 37823 Presidente Mannino – Relatore Amoressano 

Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza in data 10.10.2012 Il Giudice di Pace di Brescia condannava S.M., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 400,00 di ammenda per il reato di cui all'art. 726 c.p. ascritto. 
Tale V.O. segnalava telefonicamente alla Questura di Brescia di aver notato poco prima un cittadino di colore mentre urinava davanti la recinzione delimitante il palazzo dove abitava. Gli agenti, intervenuti sul posto notavano tracce di urina sul muro indicato e provvedevano ad identificare nel S. l’individuo indicato come autore del fatto. Il teste O., sentito a dibattimento, affermava di non aver visto le parti intime, né l'espletamento di funzioni corporali). 
Il G.d.P., dopo aver richiamato la giurisprudenza di legittimità in ordine alla distinzione del reato contestato con quello di cui all’art. 527 c.p., riteneva sussistente il delitto di atti contrari alla pubblica decenza, non essendo necessaria la percezione dell'atto o la visibilità dei genitali. 
2. Ricorre per cassazione S.M., a mezzo del difensore. 
Dopo un esame della figura criminis, come delineata in dottrina ed in giurisprudenza, ed il richiamo della continua evoluzione del concetto di decenza e della disciplina legislativa come delineata prima nel codice del 1889 e poi nel codice "Rocco", assume che si rende indispensabile un intervento del Giudice delle leggi al fine di stabilire, tenuto conto della evoluzione dei costumi, se la previsione dell'art. 726 c.p. sia ancora compatibile con il nostro ordinamento. 
Anche per la indeterminatezza della previsione normativa si è finito inoltre, secondo l'elaborazione giurisprudenziale, per estendere l'ambito di applicazione della norma (prima limitato agli atti lesivi della pudicizia) a qualsiasi atto contrario al buon comportamento civile e sociale. Tale indeterminatezza della fattispecie determina altresì la possibilità che l'azione penale possa essere esercitata dal P.M. in via assolutamente discrezionale. 
Per di più è rinvenibile un doppio profilo di sanzionabilità del medesimo comportamento, prevedendo quasi tutti i regolamenti di polizia locale sanzioni amministrative per chi urina in luoghi pubblici (il regolamento di Polizia del Comune di Brescia vieta espressamente il compimento di funzioni corporali in luogo aperto al pubblico). 
Denuncia pertanto la violazione di legge, essendo stato ritenuto sanzionabile penalmente ex art. 726 c.p. il comportamento di chi urina in luogo appartato, anche se esposto al pubblico, con l'accorgimento di evitare la visione dei propri organi genitali (è erronea infatti la ritenuta irrilevanza, al fini della configurabilità del reato, della visibilità del genitali, dovendosi il concetto di pubblica decenza interpretare con riferimento alla nozione di pudicizia). 
L'allargamento del campo dei comportamenti sanzionati dalla norma si prospetta come incostituzionale perché contraria alla ratio della stessa norma incriminatrice, contraria al criterio di predeterminazione per legge del comportamento sanzionato, contraria al corretto esercizio dell'azione penale da parte del P.M. 
Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge e la mancata applicazione dell'art. 34 co. 3 D.L.vo 274/2000, nonché la contraddittorietà della motivazione. 
I testi sentiti in dibattimento non hanno percepito il gesto dell'imputato come offensivo della pubblica decenza, essendosi egli appartato per soddisfare un impellente bisogno, volgendo le spalle e avendo cura di non mostrare i genitali. In tale condotta non è ravvisabile un'offesa alla pubblica decenza. 
il G.d.P. ha omesso inoltre di applicare l'art. 34 D.L.vo cit., pur ricorrendone tutti i presupposti. Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata individuazione dei criteri impiegati per la determinazione della pena. 
2.1. Con motivi aggiunti, in data 27.5.2013, nel ribadire le censure di incostituzionalità della norma, si chiede che, ove non venga sollevata la questione di costituzionalità, la sentenza impugnata sia annullata con rinvio, non avendo il G.d.P. motivato né in ordine alle ragioni per cui ha ritenuto sussistente il reato, né in relazione alla irrilevanza penale del fatto, né infine in ordine alla scelta della pena. 

Considerato in diritto 

1. Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, richiamata anche dal ricorrente, sono atti contrari alla pubblica decenza tutti quelli che in spregio ai criteri di convivenza e di decoro che debbono essere osservati nei rapporti tra i consociati, provocano in questi ultimi disgusto o disapprovazione come l'urinare in luogo pubblico. Né la norma dell'art. 726 c.p. esige che l'atto abbia effettivamente offeso in qualcuno la pubblica decenza e neppure che sia stato percepito da alcuno, quando si sia verificata la condizione di luogo, cioè la possibilità che qualcuno potesse percepire l'atto" (cfr. ex multis Cass. pen. sez. V, 28.4.1986 n. 3254, Cass. sez. 3, 25.10.2005 n.45284 e, più di recente, Cass. sez. 3 n. 15678 del 25.3.2010). 
Il reato in questione poi si differenzia da quello di cui all'art. 527 c.p. in quanto la distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave il pudore sessuale, suscitando nell'osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre I secondi ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione" (Cass. pen. sez. 3 n. 2447 del 14.3.1985). 
2. Il Collegio, pur alla luce dei rilievi contenuti nel ricorso, non ritiene di discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale sopra ricordato. 
Il G.d.P., però, e sul punto vanno accolti i motivi di ricorso, si è limitato a riportare le risultanze processuali ed a richiamare la giurisprudenza di legittimità, senza, sostanzialmente, esaminare la fattispecie concreta. 
Ha invero apoditticamente ritenuto che la condotta posta in essere dall'imputato integrasse il reato contestato, senza esaminare le modalità della stessa e le circostanze di tempo e di luogo, anche ai fini, di cui all'art. 34 D.L.vo 28.8.2000 n. 74. Tale norma stabilisce che "il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale...". 
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio, per nuovo esame, allo stesso G.d.P.. Si impone l'annullamento con rinvio, non essendo, al momento della decisione, ancora snaturata la prescrizione (bisogna tener conto infatti del periodo di sospensione dal dall'11.1.2012 al 14.3.2012, essendo stata l'udienza rinviata su richiesta della difesa). 
L’annullamento della sentenza determina, poi, l'irrilevanza della sollevata questione di costituzionalità. 

P.Q.M. 

Annulla la sentenza impugnata e rinvia al G.d.P. di Brescia.

giovedì 12 settembre 2013

I bagarini come i tifosi

Sentenza: Anche al bagarino si applicano le misure previste per coloro che compiano atti violenti in occasione di o in connessione a manifestazioni sportive.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 giugno – 11 settembre 2013, n. 37279 
Presidente Squassoni – Relatore Marini 

Ritenuto in fatto 

1. Con ordinanza del 9/6/2012 il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano ha convalidato il provvedimento dell’1/6/2012 del Questore di Milano col quale, ai sensi dell’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (e successive modifiche) e dell’art. 1-sexies della legge 24 aprile 2003, n. 88, è stato imposto l’obbligo di presentazione avanti l’autorità di pubblica sicurezza in concomitanza con le manifestazioni sportive cui partecipano le squadre calcistiche “AC Milan” e “Internazionale FC” , misura determinata dal Giudice delle indagini preliminari per la durata di due anni a fronte di quella di tre anni fissata dal Questore. La misura trova fondamento nella circostanza che il ricorrente fu identificato mentre si accingeva a vendere quattro biglietti di accesso allo stadio milanese in occasione dell’incontro fra Milan e Internazionale del 6/5/2012; il Giudice delle indagini preliminari, esaminato il contenuto della memoria difensiva indirizzata dal sig. D.P. al Questore in data 15/5/2012, ha confermato la fondatezza della mistura e ridotto a due anni la sua durata “in considerazione dei numero esiguo di biglietti oggetto di vendita non autorizzata”. 
2. Avverso l’ordinanza del Giudice delle indagini preliminari il sig. D.P. propone ricorso tramite il Difensore, in sintesi lamentando: 
a. di non avere potuto esaminare la documentazione amministrativa e di non avere avuto a disposizione per proporre memorie il termine di 48 ore; 
b. di non aver tenuto alcuna condotta riconducibile al dettato dell’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (e successive modifiche); 
c. di non poter essere destinatario delle disposizioni contenute nell’art. 1-sexies della legge n. 201 del 2005 o contenute nella legge 20 aprile 2003, n. 88; 
d. di non essere stato messo in condizione di accedere agli atti e ai documenti e di non essere stato informato del diritto di farlo. 

Considerato in diritto 

1. Osserva preliminarmente la Corte che la regolarità della procedura seguita in sede di convalida giudiziale del provvedimento del Questore, con gli atti depositati presso la segreteria del Pubblico ministero e quindi presso la cancelleria del Giudice delle indagini preliminari, ha garantito alla parte e alla Difesa la possibilità di accedere ai documenti e di esercitare le proprie prerogative, così che non rilevano in questa sede eventuali vizi del procedimento amministrativo che potranno essere fatti valere davanti al giudice amministrativo con riguardo alla misura del divieto di presenza nei luoghi indicati nel provvedimento sopra citato. I relativi motivi di ricorso, tra l’altro prospettati in modo generico, devono pertanto essere dichiarati inammissibili. 
2. Ciò premesso e venendo alle censure relative alla esistenza dei presupposti per l’applicazione delle misure, la Corte rileva che si è in presenza di questioni manifestamente infondate. La disciplina in vigore, infatti, impone di applicare anche al c.d. “bagarino” alcune misure previste per coloro che compiano atti violenti in occasione di o in connessione a manifestazioni sportive. 
3. In particolare, l’art. l, comma 4, del d.l. 17 agosto 2005, n. 162, convertito in legge 17 ottobre 2005, n. 210, ha introdotto l’art. 1-sexies nel testo della legge 24 aprile 2003, n. 88 (di conversione del d.l. 24 febbraio 2003, n. 28). 
L’art. 1-sexies, recita: “1. Chiunque, non appartenente alle società appositamente incaricate, vende i titoli di accesso nei luoghi in cui si svolge la manifestazione sportiva o in quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alla manifestazione medesima, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 2.500 a 10.000 euro. Nei confronti del contravventore possono essere applicati il divieto e le prescrizioni di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401”. 
4. Evidente, dunque, la legittimità dell’applicazione al ricorrente della misura dell’obbligo di presentazione avanti l’autorità di pubblica sicurezza, così che, a fronte di una motivazione del provvedimento di convalida immune da vizi, i motivi di ricorso debbono essere considerati manifestamente infondati. 
5. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. 
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende. 

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonché al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende. 

venerdì 6 settembre 2013

Colpa medica

Medico del pronto soccorso dimette un paziente senza accorgersi di una perforazione gastrica in corso. L'omissione determina la morte del paziente. Omicidio colposo.

Venerdì 30 Agosto 2013, 20.07


Corte di cassazione – Sezione IV penale – Sentenza 30 agosto 2013 n. 35828 
Confermata dalla Cassazione la condanna per il medico del pronto soccorso che dimette un paziente senza accorgersi di una perforazione gastrica in corso anche se poi segue un successivo ricovero ed una operazione con nuove dimissioni una volta accertato che la situazione è disperata. Secondo la Corte di cassazione, 35828/2013, infatti il nesso causale con il primo fatale errore non viene interrotto. 
La sentenza affronta anche l’orientamento della Cassazione “sull’equivalenza delle cause”, per cui “se al primo tragico errore medico, causa dell’evento, sia seguito errore di altro sanitario, successivamente intervenuto, la condotta sopraggiunta, salvo i casi dell’eccezionalità e dell’imprevedibilità, giammai può costituire causa sopravvenuta escludente li rapporto di causalità”. 
Al momento della sua ultima dimissione trovavasi in condizioni irreversibilmente indirizzate verso l’assai prossimo decesso”. Per cui “in una tale situazione la decisione di sospendere Il trattamento ospedaliero non assume affatto i connotati di un evento imprevedibile ed eccezionale, estraneo alla tipicità della sequela eziologica”. 

La Cassazione precisa in sentenza “la successiva condotta, costituente colpa medica, pur se grave (se del caso, quindi, la decisione di dimettere Il paziente), ove non abbia le caratteristiche dell’imprevedibilità ed inopinabilità (nel senso di estemporaneità, integrante fatto atipico), non interrompe il nesso dl causalità; né la mera accelerazione della produzione dell’evento, destinato comunque a compiersi, sulla base di una valutazione dotata di un alto grado di credibilità razionale, tenuto conto dell’evidenza disponibile, è capace di ingenerare l’effetto sperato dai ricorrente”.

Provocazione tanga

Sentenza: In una via pubblica abbigliata in modo da far vedere le parti intime del corpo, il seno ed il fondo schiena, con mutande che lasciavano scoperti i glutei. E' reato.

Cassazione penale sez. III 
Data: 
04/10/2012 ud. 04/10/2012 
Numero: 
47868 

Classificazione 

ATTI ED OGGETTI OSCENI O CONTRARI ALLA PUBBLICA DECENZA - Atti contrari alla pubblica decenza 

Intestazione 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
SEZIONE TERZA PENALE 
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 
Dott. SQUASSONI Claudia - Presidente - 
Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere - 
Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere - 
Dott. ORILIA Lorenzo - Consigliere - 
Dott. GAZZARA Santi - rel. Consigliere - 
ha pronunciato la seguente: 
sentenza 
sul ricorso proposto da: 
P.M. N. IL (OMISSIS); 
avverso la sentenza n. 217/2011 GIUDICE DI PACE di BOLOGNA, del 
08/03/2011; 
visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/10/2012 la relazione fatta dal 
Consigliere Dott. SANTI GAZZARA; 
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Policastro Aldo 
che ha concluso per la inammissibilità. 



Fatto 
RITENUTO IN FATTO 

Il Giudice di Pace di Bologna, con sentenza dell'8/3/2011, dichiarava P.M. responsabile del reato di cui all'art. 726 cod. pen.; 

per avere, in luogo aperto al pubblico, compiuto atti contrari alla pubblica decenza, consistiti nel sostare lungo la (OMISSIS) indossando abiti succinti tali da lasciare scoperto il fondo schiena e le parti intime, e la condannava alla pena di Euro 600,00 di ammenda. 

Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la difesa della imputata, con i seguenti motivi: 

- ha errato il decidente ad affermare che la condotta di cui al capo di imputazione integra una lesione dell'interesse pubblico, tutelato dall'art. 726 cod. pen., in quanto i fatti contestati non costituiscono una lesione del sentimento collettivo della più elementare costumatezza o, quantomeno, non sono tali da superare il limite di punibilità posto dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34; 

- illogicità e carenza di motivazione in ordine alla quantificazione del trattamento sanzionatorio. 
Diritto 
CONSIDERATO IN DIRITTO 

Il ricorso è inammissibile. 

La argomentazione motivazionale, adottata dal decidente per ritenere concretizzato il reato contestato e in ordine alla attribuibilità dello stesso in capo alla prevenuta, si palesa logica e corretta. 

Il Giudice di Pace ha evidenziato che la descrizione dei fatti, fatta dal teste R., agente della Polizia di Stato, non lascia adito a dubbi sulla condotta posta in essere dalla prevenuta: la P. si trovava sulla via pubblica (OMISSIS), abbigliata in modo tale da fare vedere le parti intime del corpo, in particolare il seno e il fondo schiena, ed era in mutande, che lasciavano scoperti i glutei. 

Ad avviso del decidente, a giusta ragione, le emergenze istruttorie hanno permesso di ritenere, con certezza, la penale responsabilità della imputata, in quanto il comportamento dalla stessa assunto va inquadrato nella fattispecie prevista e punita dall'art. 726 cod. pen., nè può ravvisarsi l'applicabilità del fatto lieve, di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34: la tipicità del reato in contestazione consiste nel porre in essere atti contrari alla pubblica decenza, con tale termine intendendosi indicare quegli atti, che, in sè stessi o a causa delle circostanze, rivestono un significato contrario alla pubblica decenza, assunti in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, e, ai fini della sussistenza del reato, non rileva che detti atti siano percepiti da terzi, essendo sufficiente la mera possibilità della percezione di essi, in quanto l'art. 726 cod. pen. tutela i criteri di convivenza e decoro, che, se non osservati e rispettati, provocano disgusto e disapprovazione, come nel caso in esame. 

Va specificato che il decidente, con argomentazione assolutamente esaustiva, non ha ravvisato di potere applicare la attenuante di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 giustificando il diniego a tale beneficio in dipendenza della valutata gravità della condotta posta in essere dall'imputata, per cui non può essere ritenuto configurabile il vizio eccepito in impugnazione sul punto, visto che in sentenza viene data corretta contezza delle ragioni inibenti l'accoglimento della relativa istanza. 

Del pari corretta appare la argomentazione motivazionale, sviluppata dal decidente nella dosimetria della pena, vista la gravità della condotta, l'insensibilità della prevenuta all'offesa arrecata alla collettività, comprovante il completo disinteresse della P. alle interferenze negative che il suo comportamento avrebbe potuto determinare al comune vivere civile, nonchè ritenuti i precedenti penali specifici a carico di costei. 

Tenuto conto, poi, della sentenza del 13/6/2000, n. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la P. abbia proposto il ricorso senza essere in colpa nella determinazione di inammissibilità, la stessa deve, altresì, essere condannata al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente liquidata in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00. 
PQM 
P.Q.M. 

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000,00. 

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2012. 

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2012 

giovedì 5 settembre 2013

Guida in stato di alterazione

Sentenza: L'avere assunto droga prima o durante la guida non integra da sola il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica.

Guida in stato di alterazione psico-fisica

L'avere assunto droga prima o durante la guida non integra da sola il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica.

Il reato risulta integrato sotto l’aspetto oggettivo solo laddove sussistano, contestualmente, due elementi: la prova tecnico-biologica dell’assunzione dello stupefacente da parte del guidatore e la dimostrazione dell’effettivo stato di alterazione psico-fisica dalla stessa causalmente determinato in capo al soggetto.

Corte di Cassazione, sez. Feriale Penale, sentenza 27 - 30 agosto 2013, n. 35783 
Presidente Marasca – Relatore Dell’Utri 

Ritenuto in fatto 

1. - Con sentenza resa in data 11.10.2012, la Corte d'appello di Catania ha integralmente confermato la sentenza in data 11.3.2010 con la quale il Tribunale di Ragusa ha condannato A.L. alla pena di quattro mesi di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, oltre alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per il periodo di otto mesi, in relazione al reato di guida in stato di alterazione psico-fisica provocato dall'assunzione di sostanze stupefacenti, commesso in (omissis) . 
Avverso la sentenza d'appello, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione l'imputata sulla base di due motivi d'impugnazione.
2. - Con il primo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, avendo la corte territoriale riconosciuto la condizione di alterazione psico-fisica dell'imputata sulla base di rilevazioni mediche del tutto prive di alcun dato suscettibile di fornire indicazioni concrete in ordine all'effettivo stato di alterazione della stessa per effetto dell'assunzione di sostanze stupefacenti. 
Con il secondo motivo, la ricorrente si duole che la corte territoriale abbia omesso di dettare la benché minima motivazione in relazione al negato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena, nonostante la specifica richiesta sul punto avanzata con l'atto d'appello. 

Considerato in diritto 

3. - Il ricorso è fondato. 
Secondo il consolidato indirizzo di questa corte di legittimità, la condotta tipica del reato previsto dall'art. 187 c.d.s. non è quella di chi guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti, bensì quella di colui che guida in stato di alterazione psico-fisica determinato da tale assunzione. Affinché, dunque, possa affermarsi la responsabilità penale dell'agente non è sufficiente provare che, precedentemente al momento in cui lo stesso si è posto alla guida, egli abbia assunto stupefacenti, essendo altresì necessaria la prova che lo stesso fosse alla guida in stato di alterazione causato da tale assunzione (v. Cass., Sez. 4, n. 7270/2010; Cass., Sez. 4, n. 41796/2009, Rv. 245535; Cass., Sez. 4, n. 33312/2008, Rv. 241901). 
In breve, mentre per affermare la sussistenza della guida in stato di ebbrezza alcolica è sufficiente che vi sia una prova sintomatica dell'ebbrezza o che il conducente del veicolo abbia superato uno dei tassi alcolemici indicati nell'art. 186, comma 2, c.d.s., per affermare la sussistenza della contravvenzione di cui all'art. 187 c.d.s. devono ritenersi indispensabili, tanto il concreto ricorso di circostanze idonee a comprovare l'effettiva condizione di alterazione psico-fisica del soggetto, quanto l'esecuzione di un accertamento di carattere tecnico-biologico necessario ad attestare l'effettiva assunzione di sostanze stupefacenti (v. Cass., Sez. 4, n. 48004/2009). 
Con particolare riguardo a tale ultima indagine, vale evidenziare come la stessa chieda d'essere eseguita in via esclusiva secondo le forme e i modi previsti dal secondo comma dell'art. 187 c.d.s. (ossia attraverso un esame tecnico su campioni di liquidi biologici), non potendo desumersi da elementi sintomatici esterni (come invece è ammesso per l'ipotesi di guida sotto l'influenza dell'alcool), richiedendo, detto accertamento, l'esplicazione di conoscenze tecniche specialistiche finalizzate all'individuazione e alla quantificazione delle ridette sostanze (cfr. Cass., Sez. 4, n. 14803/06). 
Ai fini dell'accertamento del reato è dunque necessario sia un accertamento tecnico-biologico, sia il ricorso di altre circostanze idonee a comprovare la situazione di alterazione psico-fisica dell'agente. Tale complessità probatoria, in particolare, deve ritenersi imposta dalla circostanza per cui le tracce dell'assunzione di sostanze stupefacenti permangono nel tempo, sicché l'esame tecnico potrebbe evidenziare un esito positivo in relazione a un soggetto che ha assunto la sostanza diversi giorni prima e che, pertanto, non si trova, al momento del fatto, in stato di alterazione (v. Cass., Sez. 4, n. 16895/2012). 
In tale ottica, la differenza di disciplina tra l'art. 186 e l'art. 187 c.d.s. trova una sua giustificazione razionale in assonanza con le argomentazioni svolte dalla Corte Costituzionale, che, affrontando il tema della legittimità dell'art. 187 c.d.s., ha affermato trovarsi in presenza di una fattispecie che risulta integrata dalla concorrenza di due elementi, l'uno obiettivamente rilevabile dagli agenti di polizia giudiziaria (lo stato di alterazione), e per il quale possono valere indici sintomatici, l'altro consistente nell'accertamento della presenza, nei liquidi fisiologici del conducente, di tracce di sostanze stupefacenti o psicotrope, a prescindere dalla quantità delle stesse, essendo rilevante non il dato quantitativo, ma gli effetti che l'assunzione di quelle sostanze può provocare in concreto nei singoli soggetti (Corte Cost., ord. n. 277/2004) (v. Cass., Sez. 4, n. 48004/2009, cit.). 
Nel caso di specie, i giudici del merito, pur avendo fornito una congrua motivazione sulla pregressa assunzione di sostanze stupefacenti (marijuana) da parte della A. , hanno omesso di supportare tale accertamento con il rilievo di evidenze obiettive (eventualmente confermate dal riscontro di dati sintomatici dotati di significativa pregnanza: cfr., da ultimo, Cass., Sez. 4, n. 6995/2013, Rv. 254402) idonee a fornire adeguate indicazioni circa il riflesso, sulle condizioni psico-fisiche dell'imputata, dell'assunzione della sostanza stupefacente accertata, e in particolare in ordine alla circostanza che detta assunzione avesse indotto un'effettiva alterazione dello stato psicofisico della A. , ben essendo possibile che, nella specie, la sostanza assunta disponesse di modesta efficacia drogante, come tale inidonea a determinare alcuna alterazione penalmente rilevante. 
In particolare, mentre il tribunale di Ragusa si è limitato a indicare il riscontro, da parte degli operanti, di "odore di fumo di marijuana" e di "uno spinello ancora fumante nella tasca della portiera destra" all'interno dell'autovettura della A. al momento del fatto (oltre all'esito positivo dei controlli clinici), la corte d'appello etnea ha genericamente evidenziato come, nel caso di specie, "le rilevazioni fatte con apposite apparecchiature" avessero rivelato "la presenza di un tasso di droga nel corpo assai superiore ai limiti di legge", senza tuttavia corroborare tale asserzione con il richiamo della corrispondente documentazione medica e dei relativi contenuti. 
Lo stesso generico riferimento, contenuto nella sentenza d'appello, alle "indicazioni provenienti dai testi" appare tale da non evidenziare in modo compiuto alcuna specifica circostanza idonea a supportare il dedotto stato di effettiva alterazione dell'imputata riveniente dall'avvenuta assunzione della sostanza in esame. 
Sulla base di tali premesse - assorbito il rilievo dell'ulteriore motivo d'impugnazione avanzato dalla ricorrente -, dev'essere disposto l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Catania, affinché proceda a un nuovo esame della questione rilevata in conformità a quanto indicato. 

P.Q.M. 

la Corte Suprema di Cassazione, annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d'Appello di Catania.

Risarcimento

Sentenza: Partita di calcetto : il proprietario o il gestore del campo di gioco è responsabile degli infortuni accaduti ai fruitori.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza 3 luglio - 30 agosto 2013, n. 19998 
Presidente Finocchiaro – Relatore De Stefano 

Svolgimento del processo 

1. È stata depositata in cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ. e datata 22.11.12, regolarmente comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti, sul ricorso avverso la sentenza della corte di appello di L'Aquila, n. 28 del 13.1.11: “1. — C.V. ricorre, affidandosi ad un unitario motivo, per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stato rigettato il suo appello avverso la patita condanna — con esclusione della manleva da lui chiesta nei confronti della Fondiaria Ass.ni spa — al risarcimento dei danni subiti da D.F. per lesioni durante una partita di calcetto nel campo gestito da esso ricorrente. Gli intimati non svolgono attività difensiva in questa sede. 
2. — Il ricorso può essere trattato in camera di consiglio — ai sensi degli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., essendo oltretutto soggetto alla disciplina dell'art. 360-bis cod. proc. civ. — per essere ivi rigettato. 
3. — Il ricorrente si duole, con l'unitario motivo di violazione e falsa applicazione dell'art. 2051 cod. civ. e di vizio motivazionale, della riconosciuta sua responsabilità in base all'evidenza del nesso causale tra conformazione della cosa (in particolare, del palo metallico che sorreggeva la struttura del campo da gioco) ed evento lesivo, alla stregua della non contestata adeguatezza delle condizioni della cosa. 
4. - La gravata sentenza applica correttamente l'ormai consolidato orientamento di questa Suprema Corte per il quale la responsabilità per le cose in custodia, prevista dall'art. 2051 cod. civ., ha natura oggettiva e necessita, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento, tale da prescindere dall'accertamento della pericolosità della cosa stessa e da sussistere in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l'insorgenza in essa di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito (per tutte, v.: Cass. 22 marzo 2011, n. 6550; Cass. 7 aprile 2010, n. 8229; Cass. 5 dicembre 2008, n. 28811), sia pure — beninteso — a condizione dell'intervenuta prova del nesso causale tra queste ultime e il danno, ossia del fatto che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa (Cass., ord. 11 marzo 2011, n. 5910). 
5. — L'allegazione e la prova del fortuito — che bene avrebbe potuto consistere nel rigoroso rispetto di eventuali normative esistenti o comunque nella concreta configurazione della cosa in condizioni tali da non essere in grado di nuocere normalmente ai suoi fruitori, se non appunto in ipotesi di accadimenti imprevedibili ed ascrivibili al fatto del danneggiato stesso o di terzi — andavano quindi prospettata ed offerta dall'odierno ricorrente fin dai gradi di merito: ma l'esclusione del fortuito era stata posta a base della sentenza di primo grado (come si ricava dalla qui gravata sentenza, al primo rigo della terza facciata), sicché era onere dell'odierno ricorrente riportare nel ricorso i passaggi degli atti dei gradi di merito — con l'indicazione della relativa sede processuale di produzione — in cui tale ratio decidendi era stata contestata, al fine di escludere la novità della censura in sede di legittimità (infatti, il ricorrente che proponga in sede di legittimità una determinata questione giuridica, la quale implichi accertamenti di fatto, ha l'onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di cui al n. 6 dell'art. 366 cod. proc. civ., di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa; per l'ipotesi di questione non esaminata dal giudice del merito: Cass. 2 aprile 2004, n. 6542; Cass. 10 maggio 2005, n. 9765; Cass. 12 luglio 2005, n. 14599; Cass. 11 gennaio 2006, n. 230; Cass. 20 ottobre 2006, n. 22540; Cass. 27 maggio 2010, n. 12992; Cass. 25 maggio 2011, n. 11471; Cass. 11 maggio 2012, n. 7295; Cass. 5 giugno 2012, n. 8992). 
6. — In difetto di tanto, non può che proporsi il rigetto del ricorso”. 

Motivi della decisione 

2. Non sono state presentate conclusioni scritte, né le parti hanno depositato memoria o chiesto di essere ascoltate in camera di consiglio. 
3. A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, ritiene il Collegio di condividere i motivi in fatto e in diritto esposti nella su trascritta relazione e di doverne fare proprie le conclusioni, avverso le quali del resto nessuna delle parti ha ritualmente mosso alcuna critica osservazione. 
Pertanto, la gravata sentenza non merita le censure mossele, essendo stato correttamente stato applicato il seguente principio di diritto: il proprietario o gestore di un campo di gioco è responsabile, ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., degli infortuni occorsi ai fruitori di quest'ultimo, ove non alleghi e non provi l'elisione del nesso causale tra la cosa e l'evento, quale può aversi, in un contesto di rigoroso rispetto di eventuali normative esistenti o comunque di una concreta configurazione della cosa in condizioni tali da non essere in grado di nuocere normalmente ai suoi fruitori, nell'eventualità di accadimenti imprevedibili ed ascrivibili al fatto del danneggiato stesso - tra i quali una sua imperizia o imprudenza - o di terzi. 
4. Pertanto, ai sensi degli artt. 380-bis e 385 cod. proc. civ., il ricorso va rigettato, ma non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, non avendo gli intimati qui svolto alcuna attività difensiva. 

P.Q.M. 

La Corte rigetta il ricorso. 

Lascia e prendi

Sentenza: Denunzia il fidanzato, poi lo perdona e lo sposa. Purtroppo i reati rimangono.

violenza privata nei confronti della fidanzata
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 8 marzo - 5 agosto 2013, n. 33804 
Presidente Zecca – Relatore Settembre 

Fatto 

1. La Corte d'appello di Caltanissetta, con sentenza del 26-4-2012, in riforma di quella emessa dal Tribunale di Enna, in composizione monocratica, ha condannato B.M. a pena di giustizia per i reati di violenza privata e minaccia aggravata commessi in danno di M.O.. Contestualmente, ha disposto la correzione dell'errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza di 1^ grado, che, condannando l'imputato per il reato di violenza privata, aveva fatto erroneo riferimento al capo e), invece che al capo c). 
Secondo la prospettazione accusatoria, condivisa dai giudici del merito, il B. in data (omissis), dopo aver invitato la fidanzata a salire sulla sua autovettura, l'aveva percossa e minacciata con un coltello e le aveva impedito di scendere dalla vettura, volendo continuare con lei la burrascosa discussione avviata. 
A fondamento della decisione vi sono le dichiarazioni rese in istruttoria e a dibattimento dalla persona offesa e dalla di lei sorella M.E., nonchè il sequestro del coltello ad opera della polizia giudiziaria. 
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputato, l'avv. Impellizzeri Antonio, avvalendosi di tre motivi. 
Col primo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, nonchè travisamento della prova in ordine al reato di violenza privata. 
Deduce che sono state utilizzate, per formulare il giudizio di responsabilità, le dichiarazioni della persona offesa contenute in querela, in violazione della norma che consente l'utilizzo della querela solo per verificare l'esistenza della condizione di procedibilità e della norma che consente l'utilizzo delle dichiarazioni rese in istruttoria solo per la verifica della credibilità del teste. Deduce che a dibattimento la donna ha negato di essere stata costretta a rimanere in auto contro la sua volontà. 
Col secondo lamenta, ancora una volta, violazione di legge e vizio di motivazione, nonchè travisamento della prova in ordine al reato di minaccia aggravata (capo F). Deduce che la motivazione è del tutto assente e che anche in questo caso la donna ha negato di essere stata minacciata, nell'occasione, dall'imputato. 
Col terzo si duole, sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge, della mancata concessione delle attenuanti generiche e della concreta determinazione della pena, della mancata concessione della sospensione condizionale della pena e della mancata sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria corrispondente, nonchè della mancata applicazione dell'indulto. 

Diritto 

Il ricorso è infondato. 
1. Il primo motivo di ricorso si fonda su una rappresentazione edulcorata e parziale della vicenda processuale, che non è idonea a scardinare la chiara e puntuale ricostruzione dei giudici di merito. 
Questi hanno chiarito - in maniera senz'altro corrispondente al contenuto e alla ratio dell'art. 610 c.p. - che la versione "minimalista" resa a dibattimento dalla M. - che nel frattempo si è sposata con l'imputato ed ha inteso ridimensionare il fatto - è comunque sufficiente a ritenere provata l'accusa, giacchè l'aver afferrato per i capelli la donna per costringerla a rimanere con lui nell'autovettura costituisce esercizio di violenza fisica che, limitando significativamente la libertà fisica e morale della persona, è idonea ad integrare il reato previsto dall'art. 610 c.p.. 
Non corrisponde al vero, quindi, che i giudici abbiano fondato il proprio convincimento sulle dichiarazioni contenute nell'atto di querela, avendo fatto esplicito ed esclusivo riferimento alle dichiarazioni dibattimentali della persona offesa, nonchè a quelle della sorella E., che ha confermato il quadro in cui la vicenda de quo si inseriva, caratterizzato da frequenti litigi tra i due. 
2. Nemmeno corrisponde alla realtà processuale, quale emergente dal contenuto delle sentenze di merito, che i giudici abbiano condannato l'imputato senza prove per il reato di cui al capo F) (minaccia aggravata), emergendo chiaramente dalla sentenza di 1^ grado che anche la prova del reato suddetto è stata desunta dalle dichiarazioni della M., che ha parlato della minaccia, rivoltale dal B., di astenersi dall'ulteriormente denunciarlo, altrimenti "le avrebbe tagliato la gola", mimando significativamente il gesto con un coltello che aveva in mano e che è stato sequestrato dai carabinieri nell'autovettura dell'imputato. 
E' vero che questa sequenza non viene riportata nella sentenza d'appello, ma sovviene, in questo caso, il principio di diritto affermato da questa Corte, in base al quale, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell'8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez 1, n. 8868 dell'8/8/2000, Sangiorgi, Rv.216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 
209145). Ciò è stato affermato in casi in cui i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado, com'è dato riscontrare nella specie (in cui l'appellante aveva riproposto la tesi, scartata motivatamente dal giudice di 1^ grado, che l'oggetto utilizzato dall'imputato per formulare la minaccia non fosse stato un coltello, ma un portachiavi). 
3. L'ultimo motivo di ricorso è inammissibile, dolendosi il ricorrente della gravosità della pena, pure applicata in misura prossima al minimo edittale, e della mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena, motivatamente negate in considerazione dei precedenti penali, anche specifici. Vale a dire con riguardo a criteri che, avendo fondamento nell'art. 133 c.p., costituiscono legittimo riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio. E lo stesso dicasi per la mancata sostituzione della pena ex L. n. 689 del 1981, art. 53 e segg., motivata, oltre che nella maniera sopra detta, anche per l'assoluta genericità della richiesta formulata nell'atto dell'appello, che non aveva indicato gli elementi idonei a giustificare l'ulteriore mitigazione del trattamento. 
Quanto alla censura sulla mancata applicazione dell'indulto è sufficiente osservare che tale questione può essere sollevata nel giudizio di legittimità solo nel caso in cui il giudice di merito la abbia presa in esame e la abbia risolta negativamente e non, invece, quando abbia omesso di pronunciarsi, riservandone implicitamente l'applicazione al giudice dell'esecuzione, come verificatosi nella specie (Cass. n. 536/07; n. 2333/95). 
4. Infine, non può essere dato corso alla richiesta del Pubblico Ministero d'udienza di declaratoria della prescrizione del reato contestato, originariamente, al capo G) (L. n. 110 del 1975, art. 4), trattandosi di reato che è già stato dichiarato prescritto dal giudice d'appello. 
5. In definitiva, il ricorso dell'imputato va rigettato, con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali. 

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Ultime SENTENZE

Il Tribunale di Genova condannava un motociclista, per i reati di guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di stupefacenti, disponendo la confisca e la sospensione della patente per un anno e 6 mesi. La pena, ridotta in appello perchà assolto dal reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, perché il fatto non sussiste. Anche la sanzione accessoria deve essere ridotta.

avvocato penalista
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 4 giugno – 3 settembre 2013, n. 36006 
Presidente Izzo – Relatore Grasso 

Ritenuto in fatto 

1. Il Tribunale di Genova, con sentenza del 29/10/2009, condannò C.S. per i reati di guida in stato d'ebbrezza alcolica (art. 186, lett. c, cod. della str.) e sotto l'effetto di stupefacenti (art. 187, cod. della str.) alla pena stimata di giustizia, previa concessione delle attenuanti generiche, stimate equivalenti all'aggravante di aver provocato un incidente stradale, disponendo, altresì confisca del veicolo e sospensione della patene di guida per la durata di anni uno e mesi sei. La Corte d'appello di Genova, con sentenza del28/6/2012, assolto l'imputato dal reato di cui al citato art. 187 perché il fatto non sussiste, ridusse la pena, confermando nel resto. 
2. Avverso quest'ultima sentenza l'imputato propone ricorso per cassazione prospettando plurime censure. 
2.1. Con il primo motivo, censurante vizio motivazionale rilevante in questa sede, il ricorrente, il quale venne trovato esanime al suolo a fianco del motociclo, sulla base di dichiarazioni de relato, inutilizzabili, e operando inammissibile inversione dell'onere della prova, fondata sulla circostanza che il veicolo era di sua proprietà, si era concluso, in precedenza, alla guidasi si fosse posto proprio il medesimo. 
2.2. Con il secondo motivo, deducente il medesimo vizio, si assume che il referto redatto dal laboratorio d'analisi ospedaliero, attestante il valore etilico nel sangue, non era utilizzabile perché non sottoscritto. 
2.3. Con l'ultimo motivo viene prospettata violazione di legge in quanto la Corte territoriale, dopo aver assolto l'imputato dal reato di cui all'art. 187 citato, non aveva riformulato, riducendola, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida. 

Considerato in diritto 

3. I primi due motivi si mostrano manifestamente infondati. Radicalmente esente dalle mosse censure e, quindi, incensurabile in questa sede, deve ritenersi la motivazione della Corte genovese con la quale si è affermato che alla guida si era posto proprio l'imputato (venne trovato ferito a terra, affianco allo scooter - anch'esso riverso al suolo - che era di sua proprietà, egli si è limitato ad asserire la presenza di un altro soggetto conducente, di cui mai ha fornito financo il più piccolo indizio per identificarlo, pur trattandosi, all'evidenza, di un dato di conoscenza elettiva). Non merita miglior fortuna il secondo motivo. Il ricorrente, invero, non giunge fino a porre indubbio l'autenticità del documento, proveniente da pubblica struttura ospedaliera, ma si limita a dedurre l'assenza di una precipua sottoscrizione in calce al medesimo. La detta mancanza non può reputarsi decisiva non essendo controversa l'autenticità dell'attestazione. 
4. L'ultimo motivo è fondato. Invero, dall'assoluzione per il reato di cui all'art. 187 citato avrebbe dovuto conseguire la corrispondente riduzione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida. 
Dispone l'art. 8 della L. n. 689/1981: “Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con una azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono, sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo. 
Alla stessa sanzione prevista dal precedente comma soggiace anche chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno posto in essere in violazione di norme che stabiliscono sanzioni amministrative, commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa o di diverse norme di legge in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie”. 
Trattandosi, come si è visto, della contestazione di più violazioni commesse con più azioni ed omissioni restava esclusa l'operatività del primo comma della disposizione riportata. 
La fattispecie di cui al secondo comma concerne l'istituto della continuazione (omogenea ed eterogenea), tuttavia contemplato solo in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie. 
Di conseguenza, nel caso in esame, non restava al Tribunale che applicare, quanto alla sanzione amministrativa accessoria, il cumulo materiale, “perché La differenza morfologica tra reato e illecito amministrativo non consente che, attraverso un procedimento di integrazione analogica, le norme previste in materia penale vengano tout court estese alla materia degli illeciti amministrativi (Cass. Civ., Sez. 1, 25.3.2005, n. 6519)” (Sez. 4, n. 25933/2009, cit.). 
Poiché il Tribunale ha inteso irrogare nel minimo la sanzione amministrativa accessoria (tanto, addirittura, da essere andato sotto il minimo legale, fissato in anni uno per ciascuna delle violazioni), questa Corte, ai sensi dell'art. 620, lett. l), cod. proc. pen., venuta meno la seconda imputazione, previo annullamento sul punto della statuizione gravata, ridetermina la durata della sospensione della patente in un anno, corrispondente al minimo legale previsto per la violazione dell'art. 186 citato. 

P.Q.M. 

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata della sospensione della patente che determina in anni uno. Rigetta nel resto.